Le battaglie di (Pietro) Algeri, il direttor gentile


«Pietro Algeri, per me è stato uno dei più onesti, e più belle persone. 
Almeno di quelle che conoscevo io, la più affidabile». 
– Roberto Visentini (2018) 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

13° Trofeo UC Casazza – Pedalando coi Campioni 
Casazza (Bergamo), domenica 7 ottobre 2018 

- Pietro Algeri, una vita nel ciclismo. Magari se lo ricordano in pochi ma è lei stato anche un signor corridore. Che corridore è stato, Pietro Algeri? 

«Ma posso dire che, parlando subito delle soddisfazioni, devo dire che me le sono tolte correndo in pista. Son arrivato a un titolo mondiale dell’inseguimento a squadre [con Giacomo Bazzan, Luciano Borgognoni e Giorgio Morbiato, nda]. E quindi vincere un titolo mondiale – lo dice la parola stessa: campione del mondo – è la cosa più bella. Ti fa sentire qualcosa di speciale per quell’anno lì che… [indossi la maglia iridata]. Ho partecipato all’olimpiade di Monaco di Baviera, dove ho vissuto un’esperienza bellissima, nell’essere presente alle olimpiadi, ma anche due giorni drammatici per, se vi ricordate, Settembre Nero… Credo di averlo detto tre-quattro volte in tutta la mia vita: io la sera prima, la notte alle undici, più o meno, stavo rientrando a dormire – io quel giorno lì avevo già corso – e sotto gli appartamenti c’erano i passaggi dove arrivavano le macchine. C’era quasi come una strada sotto il villaggio olimpico. E alla porta d’ingresso mi ha fermato una persona che ancora oggi ritengo fosse di origine e “colore” mediorientali. E questo mi ha chiesto dov’era la palazzina degli israeliani. Non lo posso dire per certo però… È per quello che non l’ho mai detto, ma io ho la convinzione che sia stato uno di questi che mi chiedeva… Noi italiani avevamo la palazzina di fronte agli israeliani, proprio a dieci metri. E poi, la notte stessa, è successo quello che è successo». 

- E questo le ha lasciato una sorta di senso di colpa, ancorché involontaria? Perché lei non poteva certo sapere che… 

«Io non m’immaginavo. Credevo di essere stato gentile a dirgli, per l’inglese che sapevo in quel momento: la casa davanti a questa. Quindi ecco è stato… Per me rimane un ricordo, forse avrà capito, sopra tutto…». 

- …il fatto sportivo…

«…sopra tutto il fatto sportivo. Perché poi è successo quello che è successo. E quindi, dopo, ho sempre seguito quello che è successo in Israele, in Palestina. E poterci andare quest’anno alla partenza del Giro d’Italia…». 

- Stavo proprio per chiederle questo. 

«…era proprio quasi toccare con mano questo mondo. Da quel momento là, dal ’72 a oggi, son passati quarantasei anni, ma ce l’ho ancora presente come se fosse adesso, ecco. Quindi questo, ecco, va un po’ fuori l’aspetto sportivo della mia carriera. Dopo, posso aggiungere di aver partecipato a dieci campionati del mondo in pista e a un’olimpiade. Quindi ho fatto un’esperienza di grande spessore, di grande soddisfazione, al di là dei risultati. I risultati li ho ottenuti in pista. Ho raggiunto tutti e tre i gradini del podio, un primo e un secondo nei mondiali a inseguimento a squadre [oro a Varese 1971 e argento a Brno 1969, nda] e un terzo nel mondiale in Venezuela dietro motori[1] [nel mezzofondo, a San Cristobal 1977, nda]. Poi, da professionista ho corso nove anni, ho partecipato a 48 Sei giorni in pista. Ne ho vinte quattro, due importanti, a Montreal, insieme a Willy Debosscher [1979 e 1980, nda], un belga molto bravo nelle Sei giorni, e una in America con Ezio Cardi a Trexlertown, vicino a Philadelphia. Lì riuscivo a esprimermi meglio. In Europa il livello era molto più alto – perché c’erano Sercu, Thurau, [René] Pijnen e lo stesso Moser… Non sono mai andato sul podio. Ho raggiunto un quarto posto a Zurigo, però arrivavo sempre quarto, quinto, sesto. E quindi era un buon livello, riuscivo bene e mi piaceva. Mi è spiaciuto smettere presto, giovane, a trentun anni, perché lì potevo fare ancora bene. Però ho deciso di smettere perché era un po’ una vita da zingari. Quasi tutti i seigiornisti erano divorziati o separati…». 

- E quindi ha smesso non per mettere su famiglia ma per non perderla? 

«Esatto. Io ero già sposato. Mi ero sposato a ventun anni, avevo già due figli. E quindi ho detto: non voglio far la fine di questi. Io ho sempre detto: io devo far crescere i miei figli come mio padre ha fatto crescere me. E quindi ho “deciso” che quello lì era il mio massimo livello. Potevo correre ancora due, tre, quattro anni, anche fino a quarant’anni, però non cambiava niente. Ho smesso a febbraio dell’82, alla Sei Giorni di Milano. E a luglio dell’82 mi chiama Ernesto Colnago, dopo che era morto per un incidente Carlo Chiappano». 

- Pochi mesi prima del mondiale di Goodwood. Saronni dedicò la vittoria alla memoria di Carletto. 

«Due mesi prima, sì: era luglio. [Colnago] mi chiama e “Oh, potresti venire giù a trovarmi nell’intervallo di mezzogiorno che ho qualcosa di dirti?”. Io nel frattempo facevo l’agente immobiliare, avevo degli appartamenti da vendere di Colnago, credevo fosse per quello. Invece sono arrivato giù, abbiam parlato appunto di quello che era successo a Carlo Chiappano e mi ha chiesto: “Te la sentiresti di fare il direttore [sportivo]?”. Ed io ho detto: “Io ti dico sì subito. Permettimi di andare a casa a dirlo alla moglie, perché ho deciso di smettere di correre per stare un po’ a casa, se ricomincio… Fare il direttore penso sia più impegnativo ancora…». [sorride, nda] 

- Colnago perché pensò a lei come direttore sportivo? 

«Perché da sempre, da quando avevo sedici, no, diciassette anni, io frequentavo casa sua e lui casa mia. Insomma, c’era e c’è ancora un rapporto di amicizia, di affetto, ecco. C’è qualcosa di più che un semplice rapporto di lavoro, ecco, sì». 

- Un passo indietro: parlando di Sei Giorni e di campioni del mondo su pista, mi è venuta in mente la tragedia di De Fauw e Gálvez. A lei la maglia iridata ha portato anche qualcosa di negativo o solo cose positive? 

«Quello che mi dispiace è che proprio l’anno dopo, quando eravamo campioni del mondo – il ’71 campioni del mondo, il ’72 le olimpiadi di Monaco – non ci siamo neanche qualificati. Abbiam fatto il nono tempo e quindi non siamo entrati neanche negli otto [finalisti]. Questo è stato il dispiacere perché, dal momento che avevamo vinto il mondiale, [ci] eravamo illusi di andare sul podio anche alle olimpiadi. Se si può “accomunare” questo a… ma non credo». 

- La maledizione della maglia iridata è quindi solo una suggestione? 

«Solo una suggestione. Sono fatalità che vengono…» 

- Per lei e per suo fratello Vittorio il ciclismo è sempre stato una passione di famiglia? L’avete ereditata, magari da vostro padre, oppure no? 

«No, no. Nessuno della nostra famiglia si era mai occupato o avvicinato allo sport, di tutti i generi. Famiglia di contadini, e in quegli anni lì avevano smesso di lavorare la terra. Mio papà faceva la guardia notturna e mia mamma la casalinga: cinque fratelli, quindi…». 

- Tutti appassionati di ciclismo o solo lei e Vittorio? 

«Mah, si sono appassionati un po’ tutti, però abbiam corso solo io e Vittorio». 

- Com’è stato e com’è il suo rapporto con Vittorio? 

«Bah, molto buono. Siam sempre stati legati…». 

- Fra voi c’era rivalità, ancorché sana, nel ciclismo? 

«È capitato una volta, da direttori, alla Vuelta di Spagna. Era in fuga uno dei suoi corridori, mi ricordo ancora, [Valerio] Tebaldi. Io ero direttore alla Del Tongo. Potevamo arrivare in volata, ero lì incerto se far lavorar la squadra e andare a prendere uno dei suoi corridori…». 

- Conflitto di interessi… 

«In effetti, devo dir la verità: l’ho fatta lavorare un momento, lui mi ha affiancato, non mi ha detto niente, mi ha guardato: eh-eh… [sorride al ricordo, nda] E dopo, l’ho fatta smettere e ho detto: lavorerà qualcun altro. Tebaldi poi ha guadagnato tanti minuti, alla fine ha vinto. Vittorio [di tre anni più giovane, nda] era ai primi anni da direttore, aveva da poco smesso di correre, quindi anche per lui vincere una tappa alla Vuelta era... Però, ecco, con Vittorio ci scambiamo anche le impressioni…». 

- Chi dei due era il più forte? Ormai si può dire, no? 

«Io mi son espresso meglio di lui in pista, lui in strada è stato molto, molto più bravo di me. Campione d’Italia dilettanti su strada, campione d’Italia professionisti, sempre su strada, a Legnano. Ha vinto una tappa al Giro d’Italia, due alla Tirreno-Adriatico». 

- Lei quali limiti aveva, su strada? 

«Mah, ero più… Forse son diventato un bravo direttore perché ero più altruista, e invece per vincere bisogna essere egoisti. Ero più portato a lavorare per qualcuno. Io ero passato professionista alla Bianchi-Campagnolo [nel 1974, nda] quando c’era Gimondi campione del mondo e quindi quando c’erano corse dure bisognava aiutare lui. E poi, quando c’era da arrivare in volata, bisognava aiutare Van Linden [arrivato nel 75, nda]. Ho un aneddoto particolare sulla vittoria di Gimondi alla Milano-Sanremo. Dopo Voghera, andando giù di lì, adesso non so se si può dire, per via di un “bisogno”, io mi sposto a sinistra e Gimondi in maglia di campione del mondo viene a spingermi, e a destra c’era tutto il gruppo che passava, e dicevano: “…eeehhh, chi è il capitanooo? Chi è il capitanooo?” E io ho detto: Lasciali dire, tanto oggi a Sanremo arriva uno da solo con la maglia di campione del mondo». 

- E così fu. 

«Eh. È andato in fuga, ha vinto la Milano-Sanremo. Io sono arrivato 26°, con la volata del gruppo. Poi vado all’albergo a far la doccia e siam lì ad aspettarlo. Anzi i miei compagni erano tutti lì, io ero ancora su in camera, ero arrivato anche stanco. Arriva lui e viene dritto da me: “Hai visto che sono arrivato a Sanremo in maglia di campione del mondo?!”. Son di quelle cose che… restano. E parlando proprio della Milano-Sanremo, aggiungo che poi, divento direttore sportivo e il primo anno Saronni vince il campionato del mondo, vince il Giro di Lombardia e poi viene la Milan-Sanremo. Senza parlargli dell’aneddoto di Gimondi, gli dico: “Oh, guarda che oggi a Sanremo voglio uno da solo con la maglia di campione del mondo”. Così, da direttore, m’è venuto fuori questo. La stessa cosa, dopo all’arrivo, dopo le premiazioni, è venuto subito da me: “Oh, direttore, è arrivato uno là da solo con la maglia di campione del mondo!”». 

- Queste cose nessuno le sa, o le sanno in pochissimi… 

«È vero. È vero, in effetti… Ma forse i [miei] figli lo sanno». 

- Bellissimo, e duplice, aneddoto. 

«Così. Ecco, questa è stata la Milano-Sanremo. Poi, però ecco, come stavo dicendo, la mia carriera da corridore, negli otto anni [da professionista], le 48 Sei giorni che ho corso in pista… I seigiornisti si gestiscono da soli. E quindi è una scuola importantissima, che mi è servita poi come direttore sportivo. Non è che corri solo qui a Milano, corri in tutto il mondo. Quindi muoversi, logistica, prepararsi. È vero che i primi due-tre anni ho fatto un’enorme fatica, perché andavo alle Sei Giorni in Germania, pronti-via e 100 km di americana, perdevo 8, 10, 12 giri da uomini come [Klaus] Bugdahl, [Dieter] Kemper o Pijnen, questi qui, che avevano quarant’anni, io ne avevo ventitré. E mi domandavo: ma c’è qualcosa che non… Poi però, lì, quando impari, come dicevo, gli ultimi cinque-sei anni ero anch’io al livello dei migliori. Era difficile vincere in Europa però mi difendevo bene. E quindi è stata una palestra di insegnamenti enorme per il “dopo”. Su strada, sono stato i primi due anni alla Bianchi-Campagnolo con Gimondi campione del mondo, prima Marino Basso e poi Van Linden [il secondo anno, nda] e altri campioni così. E quindi ho imparato subito. Il direttore [Giancarlo] Ferretti e anche Vittorio Adorni il primo anno… Mi ricordo che Adorni mi disse una frase: “Ascolta, guarda che se tu arrivi quinto o sesto, così, ti sembra di toccare il cielo, di avere fatto un grande risultato. Però se Gimondi arriva decimo o dodicesimo, fanno l’articolo grande così. Perché è campione del mondo. Se tu fai quinto o sesto, si è no ti menzionano in una riga”. Mi ha fatto capire subito. In effetti dopo, col tempo, capisci tutte le dinamiche, il valore di un articolo, il valore di quello che corre, ecco, a livello mediatico, e così. E però, anche lì, ho imparato tante cose. Ho cambiato squadre. Ho vinto un campionato italiano inseguimento. E il povero Adriano De Zan, che nella GBC di quei tempi era consigliere, è stato lui – io volevo smettere – a dirmi: No, no, vieni con me alla GBC. E sono andato alla GBC. Poi, aumentando il numero delle Sei giorni, guadagnavo non dico bene, perché era sempre un guadagno non di oggi, ma mi permetteva di mantenere la mia famiglia e di vivere. Però, ecco, anche questi cambiamenti mi hanno insegnato molte cose. Aggiungo una cosa. Io l’ultimo anno da dilettante avevo corso alla Itla (Industria Trafilati Laminati) e il presidente era Vittorio Ghezzi, che è stato il presidente della Banca di Credito Cooperativo di Carate Brianza [e anche grande patron della Settimana Internazionale Ciclistica della Brianza, morto il 2 marzo 2016, nda]. Un personaggio, lui, titolare di questa Itla. Passo professionista, arrivo alla Gbc e durante l’anno Adriano De Zan mi chiede: Ma perché non facciamo un abbinamento con la Itla? E ha incaricato me. Sono andato io a parlare con Vittorio Ghezzi, il presidente, se era possibile. Ed è stata una bella… È avvenuta una fusione, e dalla Gbc-Itla [nel 1977, nda] sono arrivati al professionismo Roberto Ceruti, mio fratello Vittorio, [Gabriele] Landoni, [Angelo] Tosoni, [Diego] Magoni. Una bella nidiata di giovani e quasi tutti bravi. Nel mio piccolo sono riuscito a portare a termine un qualcosa che ha contribuito a… Non era facile passare professionista quegli anni là. Quindi per Vittorio Ghezzi, per la Itla, è stata una soddisfazione portare tanti dilettanti al professionismo. Adriano De Zan ha costruito una… Adriano De Zan non si “vedeva” ma è stato l’uomo che ha creato questa... Il direttore sportivo era Dino Zandegù assieme a Domenico Garbelli [suo assistente, nda] e quindi si è fatta, per un anno, una bellissima, una buonissima squadra, in cui hanno vinto sia Ceruti sia mio fratello. Mio fratello addirittura è arrivato secondo alla Gand-Wevelgem dietro a Bernard Hinault. E ha vinto una tappa del Giro del Belgio [la quinta e ultima, la Fléron-Jambes, davanti al compagno Walter Paolini, nda]. Ceruti ha vinto il Giro di Romagna. Insomma, s’era espressa bene. È stata una cosa positiva, una creazione positiva, e poi Ceruti e mio fratello son diventati bravi professionisti». 

- Zandegù lei poi lo ha ritrovato alla Malvor nell’89? 

«Sì». 

- E invece, da diesse della Del Tongo, che cosa ricorda del Giro ’87 e in particolare della tappa di Sappada? 

«Ma, proprio quel giorno lì ho un ricordo ancora lampante, ancora nitido. C’ea in maglia rosa Roberto Visentini che appunto io lo stimavo perché era un corridore brillante, un corridore poi nelle corse a tappe si esprimeva bene, oltre a “essere” una classe che piaceva alla gente, così. Io gestivo Saronni ma Saronni quell’anno lì non era molto in condizione, non andava». 

- La prima punta poi è diventato Flavio Giupponi, che arrivò quinto, primo italiano nella generale. 

«Sì. Esatto, sì. E avevo Giupponi, mi ricordo che avevo Vanotti, pozzi, questi qui. Mi ricordo i nomi perché mi avvicinavo, facciamo una salita su nel Veneto così, e attacca roche, in discesa va via Roche assieme al suo compagno Schepers. E dopo già in pianura, Visentini viene in coda al gruppo, io ero nelle prime ammiraglie, Boifava era la prima perché aveva la maglia rosa [in realtà davanti c’era quella di Quintarelli, nda]. Io vado là a parlare coi miei, nel frattempo vado a fianco a Boifava, Boifava mi chiama : Oh, Pietro dammi un… Vedi se puoi darmi una mano – in pratica – perché ho la maglia rosa qui… Ma io gli dico, ma hai due corridori davanti, ferma quei davanti. E lui… l’ho visto proprio in difficoltà in faccia, ho capito, ho capito: quello che posso fare… e avevo messo Vanotti e Pozzi a tirare, no? Per quello… però si andava veramente forte quel momento lì. E il problema di Visentini che lui è crollato a livello nevoso, no? Perché dice: come? Un mio compagno, che mi deve aiutare, va via?». 

- Non si era (quasi) mai visto attaccare non solo il proprio capitano ma in maglia rosa, per di più vincitore l’anno prima… 

«Roche era un bravo corridore, ma fino a quel momento non aveva vinto… Visentini era già arrivato secondo [al Giro ’83, nda]…». 

- Roche aveva fatto terzo al Tour… 

«Ma Visentini aveva fatto bei risultati anche lui poi era in maglia rosa. E questo qua invece di aiutarlo, proprio nel momento che sei ancora maglia rosa ti… Quindi è stata una giornata movimentata. Arrivo all’arrivo, non so per quale motivo, mi sembra assieme Giupponi, perché Giupponi… Poi arrivò e Adriano De Zan e altri giornalisti mi chiedevano un’impressione. Ed io dico: la logica non è questa, non è… Non è nella normalità e non è nella parola e nel gioco di squadra. 

- Tanto è vero che più di trent’anni dopo ancora ne parliamo, no? 

«Esatto». 

- Da direttore sportivo lei come avrebbe agito? 

«Dammi del tu che…». 

- Allora, come avresti agito? 

«Son capitate anche a me cose non così eclatanti, perché era in maglia rosa Visentini, però ecco mi ricordo il particolare era la tappa del Giro di Francia, io avevo… che poi è stato detto di particolari molto negativi, avevo [Raimondas] Rumsas che era terzo in classifica ed era andato in fuga che è qui Marco Serpellini, arrivavamo al Mont Ventoux e Marco Serpellini è arrivato su terzo, poi non so i primi due o tre in fuga e subito dietro c’era Armstrong, Rumsas… E io a Marco Serpellini avevo detto: un ceto punto tu molla, aspetti Rumsas e gli dai una mano nella seconda parte o nell’ultima parte. E sarebbe stato molto importante perché lì c’è sempre il vento contro». 

- …e anche bello forte… 

«Ma lui dopo l’arrivo quando sono andato, mi ha detto: Pietro, come fai a l Mont Ventoux… io andavo, guardavo indietro, se veniva gli avrei dato una mano, però mollare i primi per andare ad aspettarlo non me la son sentita. A quel punto lì anch’io non me la son sentita di avergli detto, di dirgli: ero andato pima a dirglielo, però…». 

- Da corridore si capisce… 

«Da corridore… e quindi, ecco per dire un… Mi ricordo questo particolare. E come hai detto, come agire in quel momento là…». 

- Bisogna trovarcisi, vero? 

«Non è facile. La conferma, dopo, Roche l’ha data vincendo alla grande il Giro… Dopo, Visentini è venuto alla Malvor in squadra con me. E di questo argomento ne abbiam palato ancora, no? E quando io cercavo di aspettare cosa dicesse lui, e lui voleva capre cosa gli dicevo io, no? A un certo punto gli ho detto: “Ascolta, se questo non vinceva il Giro d’Italia, era da andare col mitra a ucciderlo [sorride, nda]. Ma questo è vero che quel momento là è un momento che non andava fatto. E lui, Visentini, mi ricordo che lì dice: eh Boifava non ha avuto la forza in quel momento lì non ha avuto la forza…”. Ma io non do neanche la colpa a Boifava, perché sono situazioni che probabilmente tutti i direttori… O buttavi giù il corridore o lo lasciavi andare, no? Sono… qui dimostra anche il carattere del corridore. I campioni hanno carattere». 

- Visentini ci ha provato a buttare giù Schepers. Prese tre milioni di lire di multa… 

«Sì, sì. Ecco, è una dimostrazione del carattere dei campioni. Chi emerge, chi più è campione deve essere egoista di carattere, deve avere grande decisione. Adesso dico egoista “sportivo”. Dopo magari nella vita c’è chi… Gimondi che io stimo moltissimo perché è un uomo di parola, è un uomo… Da corridore era veramente un duro, un durissimo, forse il più duro. Sicuramente il più duro anche di Merckx, anche se Merckx lo mettiamo tutti sopra… Però come tenacia, se non fosse stato così duro…». 

- Non sarebbe stato Gimondi. 

«Non sarebbe stato Gimondi, perché aveva di fronte a lui uno che… invece lui gli stava a ruota e arrivava insieme molte volte. Quindi ecco queste cose qui nei momenti delicati mi venivano un po’ in mente, mi venivano… Ed io dovevo gestire uno come Saronni che…». 

- A proposito di caratterino… 

«A proposito di carattere e di tenacia, non era secondo a nessuno insomma ecco. Io credo posso aggiungere ho avuto la fortuna di gestire un uomo che madre natura gli ha dato…. Io guardo ancora oggi non è più nato uno come lui. Uno come lui c’ea Freddy Maertens, adesso c’è Sagan. Freddy Maertens ha vinto una Vuelta, oltre che ad aver vinto due campionati del mondo, classiche, tante tappe. Però Saronni ha vinto un campionato del mondo, due Giri d’Italia, ha vinto Milano-Sanremo, Giro di Lombardia, ha vinto 180 cose, ma era… però come le ha vinte. Io perché sottolineo… Non è più nato uno come lui, lui vinceva la volata di gruppo, battendo i più grandi sprinter Van Linden, Sercu e… Poi vinceva la cronometro battendo Moser, perché è capitato anche questo poi ti vinceva in salita proprio qui ai Colli di San Fermo. Era arrivato su terzo quando ha vinto il Giro d’Italia, ha vinto Alberto Fernández con secondo Lejarreta e terzo Saronni [NO: n realtà secondo, a 17”, Van Impe, terzo Visentini nella Bergamo-Colli di San Fermo di 91 km, 17esima tappa del Giro ’83, nda]. E spesso vinceva lui. Quindi se sottolineiamo tutti, e poi ha vinto anche un campionato europeo della velocità in pista, che a quel tempo là il campionato europeo era il campionato “del mondo” perché poi correvano anche gli americani, eh? Quindi mettiamo dentro tutto. È come mettere assieme Mennea, Fiasconaro, Arese…». 

- …e Damilano. 

«…e Damilano [sorridiamo, nda]. Quindi quando dico non è più nato uno come lui e lo guardo sempre questo. Quando è uscito Sagan ho detto: questo qui se vince anche le corse a tappe è un nuovo Saronni, eh. Quindi però, ecco, ho detto prima, i campioni sono egoisti ma a volte io ho imparato tante cose. Dai primi anni da direttore io ho osservato, ho copiato molto Cyrille Guimard. Cyrille Guimard aveva Bernard Hinault però. Bernard Hinault era…». 

- Ha avuto Fignon, ha avuto LeMond… 

«Però certe giornate lo guardavo, faceva guidare il meccanico, lui si metteva dietro a dormire. E dicevo ma: andava via una fuga, la lasciava andare e arrivava magari prendeva la maglia rosa, o la maglia gialla – è successo. E dopo ho capito dopo il perché. Perché lui la mattina dopo se non era un corridore diretto avversario, era un corridore che [lui] sapeva che non poteva vincere il Giro o il Tour, e la mattina dopo Bernard Hinault andava là alla partenza e diceva: oh, bravo eh, hai fatto un bel numero ieri, eh. Eh, sì. però Bernard diceva oh se capita l’occasione di chiudermi un buco, eh come per dire, io ti ho lasciato là ieri, però quando capiterà… Erano tutti amici indiretti che…». 

- In questo anche Roche era molto bravo, vero? A differenza di Visentini… 

«Esatto, ecco. Visentini e Saronni, tutti e due, non avevano questa diplomazia, questa amicizia in gruppo. E proprio quegli anni là invece Roche, Francesco Moser, Bernard Hinault… Il più bravi di tutti Hennie Kuiper, perché anche tatticamente io lo guardavo perché lo ritengo, Hennie Kuiper, il più bravo di tutti… Dopo, dire Bernard Hinault, ma Bernard Hinault era talmente superiore… Questi qui erano dire “amici”… Erano avversari però si capivano. Adesso non dico che facevano combine prima, succedeva in corsa, in gruppo che con uno sguardo, con uno… Ecco, come ho detto, Visentini e Saronni non avevano nessuna di queste…». 

- Forse non è un caso che i due avessero legato, perché erano abbastanza amici, a differenza magari dello stesso Visentini con Moser. O Baronchelli e Moser, per dire. 

«Ma, infatti, credo che le rivalità con Moser e così siano nati proprio perché Saronni era ed è molto intelligente tatticamente e anche nel vedere, vede anche dietro. Era sveltissimo. E credo che certe beghe siano nate proprio da queste cose che lui vedeva, no?». 

- Anche le famose spinte o i traini, le scie delle moto… 

«Erano cose che magari le “facevano” tutti, o quasi tutti, non tutti perché c’erano corridori che invece erano molto corretti. Saronni era uno che andava, come Visentini, che andavano dritti per la loro strada. Quello che facevano lo facevano con le loro gambe. Anche in squadra stessa, Saronni era bravissimo, alla sera, all’arrivo della tappa. Perché lui prima, faceva la doccia poi andava a fare il giro di tutti i suoi compagni nelle camere o ai massaggi per… Diceva due battute: eh, però là quello là, o potevi lasciarlo andare che non lo avremmo trovato… O “hai fatto bene a prenderlo”. Quei commenti che “legavano” molto in quel momento insomma in quel…». 

- Era un ciclismo moto diverso, quello. Era il ciclismo anche degli Sceriffi. Mi racconti che cosa voleva dire quell’espressione all’epoca? I famosi Giri “delle gallerie” eccetera? 

«Ma è un po’ quello che ho raccontato adesso. Era avere qualche amico in gruppo, o intorno al gruppo…». 

- Gli Sceriffi comandavano proprio così tanto? O anche questa è un po’ una leggenda? 

«Diciamo che Moser aveva questa forza insomma di non dico condizionare ma c’era quattro o cinque corridori: Oh, oggi andiamo piano, per di, o facciamo piano la prima salita. Ecco, mi ricordo un esempio, son stato assieme prima a Silvano Contini, a un Giro d’Italia, ero ancora corridore, nell’80, credo. La tappa che partiva da re e arrivava Marina di Pisa o giù di lì insomma e facevamo mi sembra il Centocroci, una di quelle salite che dall’Emilia va verso La Spezia, giù di là. E Bernard Hinault non era ancora maglia rosa che poi l’ha vinto lui quel giro lì e andavamo su e appena partiti poi dopo trenta-quaranta chilometri, e io ero già un pistard e Bernard Hinault lo trovavo spesso alle riunioni in Francia quindi avevo già un rapporto di amicizia, no? Ero lì davanti perché io cominciavo le salite sempre davanti sperando di… Al massimo mi sfilavo, sì perché dopo scivolavo indietro, quando scivolavo indietro, arrivavo in fondo c’era già il gruppetto quindi… e arrivavo lì davanti e c’era lì Bernard Hinault e contini voleva attaccare no? e proprio Bernard lo andava a prendere no? e gli diceva: Silvano, aujourd’hui no, rien. E fa: Pietro Algeri, laissez faire aujourd’hui. Dovevo tirare il gruppo sulla salita, perché con me non si staccava nessuno… [sorride al ricordo, nda] E lui ecco, diciamo quelle cose da sceriffo erano un po’ queste cose qui, che riuscivano a condizionare un po’, non cose… adesso che io abbia visto condizionare la corsa no, però se desideravano che c’era magai una tappa non… che poi alla fine si radunavano e si arrivava in volata Bernard Hinault diceva: perché dobbiamo ammazzarci per…». 

- Volevo solo sapere se magari uno come Visentini o Baronchelli hanno un po’ pagato in carriera il fatto che ci fossero questi Sceriffi. Oppure hanno vinto quello che dovevano vincere? 

«Forse ecco soprattutto Francesco Moser è stato soprannominato lo Sceriffo perché quegli anni lì Moser era il più ben portato dai giornali importanti del settore, dalla televisione, ea quello che trainava…». 

- …tutto il movimento. 

«Infatti. Tutto quello che erano o i circuiti o la Sei giorni di Milano, i trentini c’erano sempre. Ma non solo trentini, c’erano da tutta Italia per Moser. Era riuscito a… Bugno o Chiappucci o altri, forse... Però come hanno trainato Moser e Saronni... Saronni, dopo che ha vinto il mondiale, ha creato anche lui un bel movimento. Gli avversari di Moser, e quelli che non erano per Moser, erano per Saronni, quindi... È stato un bel momento. E Visentini tanto è stato bravo, però... Era lì in mezzo, non dico…». 

- Un po’ vaso di coccio tra vasi di ferro, o è dire troppo? 

«Non ha ottenuto quel ritorno d’immagine, di notorietà, che meritava. Ci fosse adesso un Visentini, sarebbe sicuramente…». 

- …un personaggio. 

«Ecco, esatto. Proprio perché Moser era talmente forte, poi è arrivato anche Saronni a vincere il mondiale e quindi lui era bravo ma non bravissimo. Non ha… È riuscito a vincere quel Giro lì, dell’86, però dopo stava lì, non è…». 

- Roberto ha smesso lì con la testa, a Sappada? 

«Sì-sì-sì». 

- Poi lei lo ha avuto alla Malvor, ma non era più il Roberto di prima… 

«No-no… Io ho tentato anche di motivarlo, di dirgli: "Oh, guarda che…". Però non… Teneva duro due-tre settimane, arrivava a un buon livello, però poi…». 

- In gruppo c’era un po’ d’invidia per lui che era benestante, bello eccetera? O sono anche queste un po’ leggende? 

«Mah, chi lo invidiava non lo faceva vedere, non lo dava a vedere, era… diciamo era un ciclismo ecco forse la fine del ciclismo non dico “eroico” ma del ciclismo di uomini “veri” di uomini…». 

- Anche di origini umili. 

«Di origini umili e a dire uomini più maturi no nel senso. Io guardo anche adesso mi dà l’impressione che siano tutti più giovani, più ragazzini, più… Quel ciclismo là forse quello di Gimondi ancora di più, uomini… Gimondi, Adorni e sì, veniamo forse anche dall’epoca di Jacques Anquetil, Gianni Motta. Il ciclismo era qualcosa di forte, sull’onda di Fausto Coppi. Di Fausto Coppi ricordo solo una cosa, quando è morto che avevo dieci anni, ero un bambino… Dopo, piano piano s’è sempre ringiovanito. Adesso è non dico un ciclismo di ragazzini, però sono più giovani, più… Questi qua, a quell’epoca - forse anche per il fatto che una volta ci sposavamo tutti più giovani -, avevano già quasi tutti famiglia. Uomini che avevano una responsabilità, ecco forse è questa la differenza». 

- Lei è stato alla Del Tongo. È vero che il patron Del Tongo diceva “per me è più importante il Giro di Puglia che il Tour de France”? Perché comunque l’attività economica della Del Tongo era italiana, era un ciclismo italiano, poco europeo. La disse davvero quella frase o è una boutade che gli è stata attribuita? 

«Sì, sì, è vero. Ovvio che andare al Giro di Francia e vincerlo c’era un ritorno che valeva…». 

- Il problema è che le squadre italiane non ci andavano. Saronni ne ha fatto uno e mezzo, Moser uno. E poi ci volevano cento milioni di lire per andare al Tour… 

«Costava 60 milioni l’iscrizione, perché si pagavano gli alberghi e tutto. Poi tutto il resto, la logistica…». 

- Ci andavano la Carrera e poche altre squadre italiane. 

«La Carrera e poi gli è andata dietro la Supermercati Brianzoli con Bugno. Diciamo che la Carrera ha un po’ trascinato… il ciclismo italiano anche in Francia e alle classiche». 

- Rispetto alla Carrera, la Del Tongo com’era? Era una delle grandi dell’epoca? O magari era un gradino sotto? 

«Mah, non starebbe a me dirlo, però credo che, nei primi anni Ottanta, la Del Tongo sia stata superiore alla Carrera. La Carrera è esplosa quell’anno lì, quando ha cominciato a vincere, forse l’anno prima. Visentini ha vinto il Giro l’86, ecco da lì, l’86, ’87, ’88 la Carrera è diventata “la Carrera”. Però l’82, ’83, ’84, ’85, la Del Tongo vinceva. Saronni vinceva 25-30 corse l’anno. Ha vinto il Giro d’Italia, ha vinto le classiche. Ha vinto. E poi ha avuto anche altri bravi; uno è lì [me lo indica sotto la tribuna, nda], Silvano Contini. È stato maglia rosa con la Del Tongo anche lui. Roberto Ceruti, Pozzi – ho visto lì anche lui prima – erano tutti corridori che andavano ai mondiali, quindi vincevano delle corse oltre a quello che vinceva Saronni perché Saronni era Saronni quindi era sempre più… La squadra era identificata con Saronni. E anche se Del Tongo come tutti gli sponsor preferivano identificare la squadra con il nome della squadra, e ci teneva molto alle cronometro a squadre. E ce n’erano tante a quell’epoca là, e ne abbiamo vinte tante battendo proprio la Carrera. Avevamo Piasecki e Lang che erano due… [Lech] Piasecki era super e Lang un diesel, ma un diesel di quelli… poi Saronni, Frank Hoste, questi che ho detto prima. Erano buoni corridori. Lo stesso Baronchelli un anno. Però quando è venuto Baronchelli è stato l’anno più brutto. Più brutto al Giro d’Italia che lui non è stato bene e quindi andare a vincere il Trofeo Pantalica o il Giro di Sicilia e il Giro di Puglia per Del Tongo il suo grande fatturato lo faceva in Sicilia, in Puglia, in Campania. E il centro e sud d’Italia Del Tongo faceva il maggior fatturato, poi faceva qualcosina in Germania ma poca roba». 

- Andavate poco all’estero, voi e anche Visentini. Lo stesso Visentini mi ha detto che andare all’estero non era solo un fatto di fatturato, come per Del Tongo, ma c’era proprio un gradino per andare al Tour. Anche nel senso della preparazione, e di un ceto tipo di… “preparazione”… 

Sì. ma quegli anni là era veramente, c’era un salto, un gradino di differenza che ci domandavamo come mai andavamo al Giro di Francia, io mi ricordo il primo piazzamento che ho fatto con Luciano Loro, nono, in classifica generale quando vinse proprio Roche…». 

- Tra l’altro un Tour durissimo, 25 tappe, un caldo infernale nei primi cinque giorni, in Germania. 

«Sì, partimmo da Berlino che avevo preso la maglia gialla con Piasecki. E che poi racconto anche il perché la perse e s’è ritirato subito. Però prima aggiungo questo discorso di Luciano loro che è arrivato nono, ed era non so se l’unico o il primo Giro di Francia – no, dopo ne ha fatti ancora, che la Del Tongo partecipava. E la tappa di La Plagne, io guardavo i primi mi accorgo, ce n’era ancora due davanti mi sembra, e il gruppetto dei migliori, roche, io avevo luciano lor, non mi ricordo più chi c’era, c’era uno spagnolo, c’era Delgado che era in maglia gialla, e vedo Delgado che perde qualche metro, no? E sono andato di colpo di fianco a Boifava, Davide, Davide, guarda che Delgado si stacca. E lui subito: Dai, diglielo a Loro di darmi una mano. In effetti, a Loro non cambiava niente di fare settimo o nono, e poi Loro ea stato prima con Roche e Visentini, è andato davanti e ha fatto quello che ha potuto. E lì infatti dove Delgado ha mollato e dopo ha dato tutto Roche che è arrivato con l’ossigeno. È stato ecco ma al momento… non so come mai, io ero andato in coda al gruppo e mi ero accorto di questa roba qui e Boifava no. Allora gli ho detto: dai, dai, e c’è stato un momento…». 

- Quindi le alleanze ci sono anche tra direttori sportivi e non solo tra corridori… 

«Con Davide c’era quest’amicizia insomma abbiamo corso assieme, con Davide ero moto affiatato anche da corridori». 

- Boifava è stato l’unico che rifiuta l’intervista? Perché ha paura che si parli delle solite cose, di Sappada o di Pantani? In fondo dopo tanti anni se ne può anche parlare… 

«Ma se l’argomento va dentro lì, lui… perché Davide è un buono, che alla fine. Forse non è riuscito…». 

- Forse anche un timido… 

«Esatto, sì, forse l’ha metabolizzata come una delle cose più negative. Perché la sua carriera da direttore è stata… ha vinto…». 

- È stato all’avanguardia in tante cose, è stato il secondo a prendere il pullman per i corridori, per dire, per i materiali...

«Sì, sì. È stato il primo ad avere quel motorhome bello. E però ecco quello lì il particolare della vittoria, però a Berlino che io avevo Piasecki e Lang [secondo a 3” e decimo a 11”, nda], facciamo il prologo e arriva primo [Jelle] Nijdam, un olandese [della Super Confex], secondo Piasecki, che era figlio di quel [Henk] Nijdam che molti ricordano che al Vigorelli, al Trofeo Baracchi l’han buttato giù perché non si fermava più, tempi particolari. E arriva secondo Piasecki a pochi secondi [3”, terzo Roche a 7”, nda] e il giorno dopo c’erano due semitappe. Al mattino in linea 100 km o 90 e il pomeriggio la cronosquadre. Allora: al mattino va via una fuga di 4-5 corridori e Piasecki è dentro lì, ed è arrivato con 40 o 50” o forse più, mi ricordo che ha preso la maglia con 40 o 50” [in realtà per 18” su Patrick Verschueren, belga della Roland, nda]. E al pomeriggio abbiamo fatto secondi nella cronosquadre dietro alla Carrera per 11” [in realtà 8”, nda] prima la Carrera, secondi noi a 11”». [8”, nda] 

- La Carrera vi aveva battuto anche in quella di Camaiore al Giro quell’anno… 

«Sì. A Camaiore era stato l’anno con Baronchelli che eravamo andati male. E quindi Piasecki con la maglia gialla, partiamo. C’è stato subito un trasferimento poi il giorno dopo ancora due semitappe, giù che la seconda partiva e arrivava a Berlino. Il terzo giorno ea una lunga [da Karlsruhe, 219 km] che arrivava a Stoccarda, il giorno prima c’era ancora due semitappe. E facciamo la prima arrivano in volata e quindi Piasecki ancora maglia gialla. A mezzogiorno andiamo in un casermone lì a mangiare, a far la doccia. Piasecki era un giocherellone, un tipo, maglia gialla, questa caserma c’era un corridoio lunghissimo, lucido, bello… lui con le scarpe da corridore s’è messo a correre e s’è messo a scivolare come se fosse in pattini, no? È andato in terra, è andato giù, ha picchiato l’osso sacro, non riusciva più… io non ho mai saputo se ha rotto o… però non riusciva più a pedalare. Al pomeriggio ha fatto ancora una tappa, è arrivato ancora in gruppo ma soffrendo, ha preso, non so, antidolorifici. Il giorno dopo però è arrivato un po’ staccato a Stoccarda, sì ha perso la maglia gialla, a Stoccarda, che è andata via una fuga, l’aveva presa [Erich] Mächler mi sembra proprio [con 44 su Jörg Müller della PDM; la tappa la vinse Acácio Da Silva della Kas], mi sembra… E poi si è fatto il trasferimento in Francia, poi ha fatto altri due giorni o tre poi si è ritirato dal dolore che aveva… queste sono le cose… e le ho sapute un po’ di anni dopo anch’io eh, perché i corridori non dicevano niente… [sorride, nda] Questa è un po’ la…». 

- Nel ciclismo di oggi, con le radioline, con l’srm, tappe come quella di La Plagne o di Sappada, che sono rimaste nella storia, potrebbero succedere? O sono troppo figlie di quel ciclismo là? 

«Credo molto meno. Perché adesso io è qualche anno che non dirigo le squadre, però vedo ancora – essendo in mezzo – vedo che la corsa è molto condizionata, perché appunto per l’esperienza che mi son gatto., guardo appunto ancora con l’occhio del direttore a volte, no? e vedo, e mi domando ma perché non tira, ma perché… poi sento dietro quelle cose e allora capisco perché. Ah, il direttore gli ha detto di non tirare… a volte io quando son davanti, prima Vittoria adesso Shimano, e sego la fuga, a volte mi arrivano lì dei direttori e mi lasciano le borracce da dare al loro corridore, sono tranquilli perché ah sei qui te, dagliela te la borraccia… e capisco il perché danno valore o meno valore a una fuga quindi ecco con le radioline e col tipo di ciclismo attuale, è guidato tantissimo. E l’srm è forse una delle cose ancora da dire peggio non è bello perché il progresso va seguito ovviamente, le rote lenticolari, le bici a corna, anche se… e quindi ecco sono arrivate, han fatto lavorar ei fabbricanti e quindi… han fatto del bene in altro modo ecco. Però ecco l’srm fa capire specialmente le squadre grosse, vedi che la Sky, che ha i corridori per vincere il Tour, per vincere il Giro, e quindi il lavoro lo fanno con decisione perché con l’srm sanno che possono fare, con questi tre corridori, possono fare 120 km a quel livello, altri tre fanno… quindi… quindi adesso i 10” o i 20” diventano tanti a volte perché dietro… Poi, a differenza di quegli anni là, che magari erano solo due o tre a livello alto, nella squadra, adesso anche l’ultimo della squadra…». 

- Michał Kwiatkowski, ex campione del mondo, al Tour diventa un uomo di fatica, per dire…

«Esatto. E valido fa il suo lavoro, è presente. Quindi è più difficile staccarne trenta o staccarne centotrenta o centocinquanta è più difficile insomma. Perché questo sono tutti più vicini. D’altronde tutto lo sport, tutto il livello si alza insomma». 

- Cioè migliorato verso l’alto. Visentini mi ha detto che ricorda solo un nome con piacere come diesse per competenza e come brava persona. È Pietro Algeri. Ma perché, è così difficile essere brave persone e bravi direttori sportivi in questo ambiente? 

«Io ho sottolineato prima che da corridore non sono stato così egoista, non sono stato… questo redo che sia dato dalla famiglia, i mii genitori mi hanno, dai valori… e quindi io quando andavo in camera dei corridori magari non gli chiedevo di certi particolari però capivo, si capisce quando uno… se ragioni la corsa i cose dei compagni, capisci se uno ha qualcosa con un compagno, se c’è… come mai non eri davanti là? E quindi facendo il giro di tutte le camere, di tutti i corridori, io mi facevo una mia… e con Roberto mi ricordo più di una vota che era lui che mi diceva certe cose, ecco, senza chiedere il particolare, dopo lui si sbottonava, ma molti corridori si son sbottonati a dirmi certe cose. E quindi allora a quel punto lì cercavo di dare i miei consigli. Poi fortunatamente molti son diventati buoni, perché ne ricordo di più drammatici e di più… per con Roberto, quando trovi davanti uno che si apre e che ti dice, è… perché io volevo che lui… forse ecco mi ero dedicato anche un po’ di più perché sapevo il suo potenziale e speravo che potesse ritornare. E volevo che tornasse. Perché io dicevo sempre: Guarda che madre natura, quando dà delle qualità, restano sempre. È solo il lavoro e la testa che giorno per giorno devi migliorarlo, allungarlo un po’. Ritorni ancora al tu livello. Ma anche ai corridori deboli, piccoli, gli dicevo: Guarda che oggi se sei arrivato a 160 km a buon livello, domani devi arrivare a 180, e vedrai che dopo ci arrivi a 200. Perché, io questa frase l’ho sentita da Eddy Merckx, in una cabina alla Sei Giorni di Dortmund: per far fatica, bisogna allenarsi a far fatica!”». [ride, nda] 

- Ma qual è il campione o non campione cui è rimasto più legato, che ricorda con più piacere? E invece quali sono i più forti che ha visto o con cui ha corso? 

«Io quello che sono rimasto legato con più piacere è Gilberto Simoni». 

- Ah sì? Non un caratterino facile, eh? 

«Gilberto Simoni è il "più uomo" di tutti. Sotto l’aspetto umano è il più... Forse perché facendo il mio lavoro ero lì, lui era seduto di fianco a me in macchina, scendendo dal Pordoi. Quando ha preso la prima maglia rosa, la telefonata che ha fatto alla mamma ha commosso anche a me, no? E quindi conosci un uomo che ha dei valori forti. E quindi lui è rimasto, coi suoi ex compagni, ancora oggi, in amicizia, da [Oscar] Camenzind, lo svizzero, a.. Ma con tutti, di tutti le parti. E per questo motivo: lui è profondo, è umano, è uno… Forse, ecco, è abituato a dire la verità. Certe volte non ha fatto bene, no? Infatti, la bega con Ivan Basso è stata… Ivan Basso però gliel’ha fatta troppo sporca. Gli dici: “Dai, tira, tira che…”». 

- E anche Lanfranchi e Cunego gliel’han fatta un po’ sporca? 

«Cunego, diciamo che è stata un po’ una situazione come con Roche e Visentini. E però, ecco, lui forse nella sua durezza era anche, alla fine, un buono. Perché se devo dire il corridore che ha insegnato di più ai suoi giovani, era lui. Non si vedeva ma sottolineo una cosa. Riccardo Riccò, con i suoi sbagli che ha fatto – perché Riccardo Riccò è arrivato nei professionisti che era già ammalato di quel male di quel momento là e quindi non ascoltava niente. Io, nei (miei) 26 anni da corridore, ho capito che non ascoltava niente. Lui aveva... Come ho detto prima, tutti i campioni hanno il loro "carattere". Ma lui era anche convinto di essere superiore, da non dover imparare più niente. Gilberto Simoni però ha insegnato tante cose anche a lui. Gilberto Simoni ha capito che questo aveva grandi qualità, però dopo, su certe cose, non ascoltava, ecco. Dopo, fra le altre cose che mi hanno fatto male, proprio che… anche nella vita "normale" succedono e poche riescono… è stato Franck Vandenbroucke; e Valentino Fois, che sono morti per droga, così… Franck Vandenbroucke, io… Mi chiama sua moglie [Sarah Pinacci, nda] una mattina. Lei era partita, l’aveva lasciato in un albergo qui a Bergamo, e mi fa: "Io sto prendendo l’aereo per andare in Belgio" - perché poi aveva la bambina [Margaux, nda] in Belgio - "Vai là tu a prenderlo". Così. Io credevo normale, il giorno prima era tutto normale. Io son andato la mattina dopo a prenderlo, era uno straccio. Una cosa… che non stava in piedi. Tirarlo fuori dal letto… Adesso come faccio a prenderlo in macchina… Per fortuna sono andato con la macchina giù nel garage, sotto, l'ho preso per un braccio, vado giù con l’ascensore, nel garage, l’ho messo sul sedile che andavamo in Toscana, nel ritiro d’allenamento. E queste cose qui io… Dopo, giù in Toscana, è stato tre giorni, dormiva sempre nella stessa posizione, non si svegliava mai, no? Si svegliava, due minuti, compagno di camera che era [il lettone Raivis] Belohvosciks [alla Lampre-Daikin nel 2001, nda], gli dicevo: "Chiedigli se vuole da bere". "Oh, ma si sveglia, dice sempre di no, non vuole niente". E io ero anche preoccupato, però il medico mi fa: "No, guarda che quando si fanno, dopo per dormire prendevano... Non so, delle cose forti. E questo qui ha dormito tre giorni, sempre nella stessa posizione… Ecco, lì io ho cercato... Ho cercato anche di fare il duro, per un momento. Mi ricordo un periodo… Però non ha… Come lui te lo prometteva... Adesso fino a mezzanotte, le una, le due, lo stavo lì a controllare se usciva dalla porta, però come andavo a letto… Ricordo una presentazione a Parigi. Siccome in Francia avevo paura - perché tutto questo suo “male” è nato quando correva con la Cofidis in Francia [nel 1999-2000, nda] -, alle tre di notte ha chiamato Mariano Piccoli: “Andiamo, andiamo, andiamo…”. Il giorno dopo, sembrava… Sì, stava in piedi ma... Ecco, questo mi è dispiaciuto, perché… questo era un fuoriclasse. Come Valentino Fois. Valentino Fois viveva già una situazione più difficile, senza la mamma o senza il papà e quindi era già… Però lui... C'è stato uno sbaglio che ha fatto, è caduto al Giro di Francia – che poi, combinazione, vedi però anche il fatto che si facevano le camere, le coppie – lui è andato a finire in camera con Franck Vandenbroucke… A Saint-Étienne, c’era la cronometro con il Col de la République, no? Io vado a seguire [Zenon] Jaskuła e lui… Ritorno, e a lui gli avevo detto, prima di andar via, gli ho detto: "Oh, non mettere le ruote a razze davanti, perché ci sono due o tre curve che [il vento] ti porta via la bici. Metti le ruote normali perché bisogna frenare bene". Lui invece alla fine ha messo le ruote a razze ed è caduto, s’è fatto… S’è sbregato… È andato all’ospedale. Poi per rientrare ha fatto delle cavolate, ha preso del testosterone, è stato trovato positivo al Giro di Polonia. E da lì è ricominciata la sua… Ecco, questi sono due, in quella direzione, che mi hanno… Che mi domando, ancora oggi, cosa si potesse fare. Come in tutte quelle cose che arrivano al dramma estremo, cosa si poteva fare di diverso. Quando ne parlo, mi dicono tutti: "A quel livello lì...". Anche i grandi medici non… Qualcuno, come ho detto prima, quelli che riuscivano, che mi dicevano le cose, perché poi nascono anche le cose delle beghe con le mogli, divorzi, separazioni. Una volta arriva uno alla Liegi-Bastogne-Liegi e fa: Andiamo a fare un giretto. Non so se ero andato io o il massaggiatore a prenderlo in aeroporto. Mangia e poco dopo mi prende da parte e mi fa: "No, Pietro. Io vado a letto perché è due notti che dormo in macchina", ché aveva la moglie… Queste cose qui. Per dire, ecco, queste sono un po’ le cose che… Quando erano loro che si sbottonavano… Io non andavo a… Però son le cose che… Non lo so, forse perché io mi son sposato giovane. Forse perché son venuto da una famiglia dove i princìpi… Mio papà, se mi sentiva, se in casa nostra mi sentiva dire una bestemmia, mi dava una sberla che mi girava la testa, no? Per dire… E tante altre cose. Ricordo mia mamma che mi diceva... Sono nato in questa cascina dove facevano i contadini, c’erano quattro famiglie di contadini, no? E mia mamma mi raccontava, in tempo di guerra, è arrivata una donna dalla città, da Bergamo, con un bambino appena nato che lei non aveva il latte da dargli, no? E tutti le rifiutavano un bicchiere di latte, un po’ di latte per ’sto bambino. E mia mamma gliel’ha dato. E questa donna qui l’ha ringraziata, piangeva, per degli anni, per quel gesto che mia mamma ha fatto con questa… Forse, ecco, vedi, quando ti raccontano queste cose qui, capisci anche il perché certe cose riesci ad affrontarle. Perché quella domanda che tu mi hai fatto, come fai ad essere corridore, a rimanerti... Eh, adesso non lo spiegare come… Però, a volte, essere non solo partecipi... Se ti chiedono qualcosa, o dire sì, o riuscire, provo-facciamo-vediamo... Ma soprattutto è sempre trovare una direzione. Io anche ai corridori, anche ai giovani, dicevo sempre: "Ragazzi, bisogna mettere sempre un paletto e dire: 'Io fino a là ci devo arrivare'. E perché sono capaci di arrivar là, l’ho già fatto e quindi ci arrivo. E quindi tutto quello che incontra - perché per arrivar là incontri tante difficoltà, tanti problemi - però dai-e-dai, dai-e-dai, si deve arrivare. E anche in queste cose qui, lo dicevo un po’ allo stesso modo, dicevo: Devi venirne fuori, devi… Affrontale le cose, abbi il coraggio». 

- Merckx, Maertens, Hinault, De Vlaeminck. Sono i più forti che ha visto? Ho lasciato fuori qualcuno? 

«Hai detto gli uomini… Forse io metto Roger De Vlaeminck come classe, come estro, come… Eddy Merckx però è stato superiore. Bernard Hinault, l’ho detto prima, come forza, intelligenza tattica, intelligenza diplomatica... Bernard Hinault al Giro di Francia l’hanno messo sul podio ancora per tanti anni. Era “il” superiore a tutti. Ecco, forse io... M’è venuto automatico, ho detto prima, guardavo Cyrille Guimard... Domenica scorsa, a due-tre chilometri dall’arrivo del mondiale di Innsbruck, tutte le ammiraglie le deviavano. Non ci facevano fare lo strappo duro [il muro di Höll: 2.8 km all'11.5% di pendenza media e 28% di massima, nda]. Io ero con la Shimano e domenica ero la quarta macchina quindi ero in fondo. Io sapevo quelli che si staccavano e quando non avevano più l’ammiraglia stavo lì io, quando loro si ritiravano io passavo. Sono arrivato lì assieme alle ammiraglie e due direttori della mia epoca li ho trovati lì: Cyrille Guimard e Javier Mínguez , quello della Spagna [Ct nel 2013-2018, nda], primo e secondo, e li ho trovati tutti e due. Prima ho trovato Guimard e in francese gli ho detto: "Les directeurs gagnant ça voir", i direttori vincenti si vedono, e lui era lì: "Lasciami stare che… Stava venendo giù che erano i primi due… [vinse in volata lo spagnolo Alejandro Valverde sul francese Romain Bardet, nda]. E dopo sono andato di là, e lì seduto in macchina c'era anche lui, Mínguez. Ho grande amicizia con Mínguez, perché era il direttore che quando c’era bisogno, di un’occhiata, di darsi una mano, era quello più di parola, più… Più schietto, ecco. Tanto è vero che, parlando di vini, una volta, eravamo alla Tirreno-Adriatico, siamo andati a cena assieme e ho detto: Il vino più buono è il Sassicaia. E lui mi fa: No, in Spagna c’è il Vega [si pronuncia “Bega”, nda] Sicilia. E lui mi ha portato una bottiglia di Vega Sicilia e io gliene ho portato una di Sassicaia, e ancora ce l’ho a casa. E quindi ecco c’è  questo rapporto così. E domenica, per dirti, lì a Innsbruck, li ho trovati tutti e due in dieci metri. E han fatto primo e secondo». 

- Per chiudere, non te lo chiedo neanche, ma te lo chiedo: se a Sappada fu tradimento, e tu da che parte stai. 

«Ah, non ho dubbi: io sto con Roberto Visentini». 

- Fu tradimento, quindi? 

«Fu tradimento perché quando tu decidi di far una cosa così, sai che fai un dispetto all’altro». 

- E stai con Visentini perché? 

«Bah. Visentini l’ho conosciuto, ci ho vissuto assieme un anno… E poi quell’anno lì aveva avuto un incidente. Era stato investito da una macchina, quindi è stato un anno difficile. E però, ecco, ho conosciuto l’uomo da vicino. E non meritava un dispetto così. Perché sembra uno spavaldo, sembra… Ma quando vai a…». 

- …è tenero? 

«Bravo! È uno che, ho detto prima, l’aspetto umano. Lui fa la risata, fa la battuta, è lì in silenzio, serio, poi fa la battuta…». 

- Sia tu sia lui siete ancora innamorati della bici, del ciclismo… 

«Io sì, io lo vivo ancora come direttore, come guardo…». 

- È stata - ed è - la tua vita, si può dire così? 

«Sì, sì. Io ho cominciato a sedici anni a correre in bici. Ne ho sessantotto, e sono ancora in mezzo. Ho partecipato, in diverse forme, a 38 Giri d’Italia. A 'sto punto ho detto: forse, forse, arriverò a quaranta, poi basta. [ride, nda] Non si sa mai, oh. Quindi è stata una bellissima carriera. Una… Come si può dire, una carriera di lavoro che alla fine…». 

- Perché il ciclismo ce l’hai nel cuore, perché ti ha conquistato? Che cos'è il ciclismo per Pietro Algeri? 

«Mah, lo sai che questo non sono mai andato a fondo neanch’io a dire, perché mi ha attirato così, perché mi ha appassionato così». 

- Perché è come la vita? 

«Forse una delle cose... Ecco, mi domando spesso: incontrare, come oggi, incontrare i mei ex colleghi come corridori, prima correvamo assieme, poi i miei corridori, mi salutano ancora tutti. E sento un affetto, ancora, che quando vengo in questo mondo qui, quando vado ancora al Giro d’Italia... Sono in pensione, però, aggiungo un fatto di vita, così. Sono in pensione, sono a casa, mia moglie mi dice spesso: Ma stai a casa, hai 68 anni adesso. Ma io le dico: ma Nazzarena, ma io a stare a casa, mi dispiace andar via perché… Però quando vado via mi sento vivo, mi sento… Faccio qualche parola coi miei… Alla mattina, quando prima di partire "incontro" quelle quattro chiacchiere, mi… Non so, quando vedo... Che lo vado a cercare o lo incontro, mi riempie di contentezza, di vita. Ecco, forse è questo, a tavola, la sera, quando sei coi tuoi compagni, colleghi e così... Quando non ti alzi più dal tavolo, vuol dire che stai bene, no? Ecco, questo, alle corse, così, nel nostro mondo succede ancora». 

Bellissima chiusa, Pietro. Il senso di tutto.

CHRISTIAN GIORDANO

[1] Nel 1979 suo il Record dell'ora dietro motori (69,741 km).

Commenti

Post popolari in questo blog

PATRIZIA, OTTO ANNI, SEQUESTRATA

Allen "Skip" Wise - The greatest who never made it

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?