Beppe Martinelli - Le estati di san “Martino”


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

“River Bar” 
Rovato (Brescia), mercoledì 24 gennaio 2018 

- Beppe Martinelli, la tua (lunghissima) esperienza parla per te. Se torniamo indietro di trentun anni e ti dico Sappada, il tuo primo pensiero qual è? 

«Eh, mi viene in mente Visentini/Roche, o Roche/Visentini insomma. Sicuramente non può non essere quello. Oltretutto io quel giorno lì ero in gara, anche se non con l’ammiraglia della Carrera, ché son andato l’anno dopo – perché io con Boifava sono andato l’anno dopo – però c’ero. E mi ricordo un po’ che mi chiedevo perché davanti Roche tirasse, con un suo compagno di squadra [Eddy Schepers, nda], e dietro tirava la squadra di Boifava, cioè la Carrera». 

- Tu eri in ammiraglia alla Ecoflam. Voi in carovana che sensazioni avevate? Non si era mai vista un’azione così clamorosa. 

«No, io pensavo che ci fossero delle… Non c’erano le radioline come adesso, non c’era molta comunicazione. Pensavo che ci fosse qualcosa che non funzionava a livello di loro, che magari davanti, non so, Quintarelli, che era sull’ammiraglia davanti, non capisse bene cosa magari Boifava gli diceva da dietro di tirare o non tirare. Perché se la radio diceva, tira Bruno Leali, faccio per dire, dietro, e davanti tira Schepers, che era compagno di squadra di Bruno Leali, uno con la maglia rosa dietro, Visentini, e davanti Roche che ipoteticamente poteva prendere la maglia rosa. Hai capito? Poi ne ho sentite tante eh, dopo l’arrivo…». 

- La più credibile, secondo te? 

«Secondo me, Roche sicuramente ha fatto uno “scherzo” di brutto gusto. O uno scherzo un po’…». 

- Ma secondo te è stato “tradimento” o solo una scelta di corsa? 

«Secondo me Roche ha sempre corso per vincere. E secondo me non gli andava giù che Visentini l’avesse battuto a cronometro a San Marino e probabilmente… Vedo Roche troppo intelligente per fare un tradimento in prima persona, però ha provato a mettere nel sacco praticamente Visentini, sapendo che magari psicologicamente Visentini è un pochino più debole, che magari poteva saltare di testa e così…». 

- Cosa che in effetti è stata. 

«…in effetti, è stata. Anche se Visentini, non fosse saltato completamente, alla fine se la giocavano ancora. Se invece Roche non avesse attaccato, probabilmente al Giro poteva essere una buona spalla per Visentini, hai capito? Invece, così diventava uno contro l’altro. No, no: l’ha fatto da persona intelligente, furba, ma con un’idea». 

- Ha saputo cogliere l’attimo, quindi; ma se l’è anche preparato? 

«Secondo me non è partito per caso. Assolutamente no. Roche non fa niente, quasi, per caso. Lo dimostra ancora adesso che parla in televisione. È al Tour, in tutte le parti del mondo. Si vede poco ma c’è. Dappertutto». 

- Invece chi non c’è, e non si vede mai, è Visentini. 

«Visentini è sempre stato così. Io l’ho avuto anche come corridore, anche compagno di squadra e addirittura dopo come direttore sportivo, perciò non è mai cambiato e non cambierà mai». 

- Quindi chi meglio di te può tratteggiarmi il Visentini uomo e corridore... 

«Visentini corridore direi un grande. Un grande veramente, perché a quell’epoca là lui si allenava poco. Si allenava quando gli pareva eppure è riuscito a fare grandissime cose. Mi ricordo una volta, eravamo compagni di squadra alla San Giacomo, e ha vinto il prologo della Vuelta [il 22 aprile 1980, crono di 10 km a La Manga, per 2” su Sean Kelly, nda] senza fare un riscaldamento, senza fare nulla. Era lì in macchina, che faceva abbastanza caldo, era lì in macchina, è partito, ha fatto il miglior tempo, è andato in hotel e dall’hotel continuavano a chiamarlo perché aveva vinto e probabilmente non era andato neanche alla premiazione. Perché non sapeva neanche d’aver vinto, cioè… [sorride, nda] Perciò… un grande da corridore. Come uomo, strano. Strano. Probabilmente il ciclismo lo interpretava sicuramente non come uno sport ma come un sacrificio, un sacrificio da mettere in gioco tutti i giorni. E quando poi si metteva a fare veramente sul serio, diventava un campione». 

- Il fatto che lui era bello, era ricco, si diceva: ah, ha il Ferrari, non ha “bisogno”, provocava delle invidie in gruppo? O e un po’ stato esagerato tutto questo? 

«Secondo me è stato un po’ esagerato, cioè io, sì, so che economicamente stava bene, era un bel ragazzo, così, però come ho detto prima. Certi momenti della sua vita, ha fatto anche sacrifici per arrivare dove è arrivato. Certi altri magari la prendeva un po’ sottogamba. Probabilmente aveva anche la fortuna di avere un fisico, o un motore incredibile. Se fosse stato rapportato ai giorni nostri, secondo me non posso dire che era imbattibile ma quasi. Forte a cronometro, forte in salita, hai capito? Ciò che adesso è il corridore più completo che c’è. Invece magari una volta bisognava essere un pochino più tattici e inventare un po’ la corsa e adesso, se avesse corso in una squadra forte, che faceva la corsa per lui, io penso che poteva vincere più di un Giro d’Italia». 

- Unico neo: un po’ fermo in volata, vero? 

«Fermissimo in volata, forse non ne ha mai neanche fatte, hai capito? Almeno, da professionista no; da dilettante, sì. L’ho visto vincere qualche corsa anche, magari partendo lungo in volata e dalla forza che aveva, dalla classe riusciva ancora anche a vincere». 

- Era una sorta di predestinato, vinse il primo mondiale juniores della storia… 

«Sì, sì, sì». 

- Vinse anche il campionato italiano a cronometro… E aveva questa particolarità, che non correva nella pancia del gruppo, stava sempre decima posizione a destra, prendeva tanto di quel vento in faccia… 

«Sì, lui, mi ricordo un anno al Giro d’Italia che eravamo sì penso compagni di squadra e correva sempre a destra praticamente di Moser o Saronni o che. Io che gli dicevo: Vieni qua dentro. No, sto qua, sto qua. Vieni qua dentro. Forse a cronometro anche perché abituato a prender l’aria dalla mattina alla sera…». [sorride, nda] 

- Me l’ha detto anche Maini: Forte ’sto qua a cronometro, ci credo: per lui tutte le corse erano a cronometro… 

«Sì, sì, sì. Mi ricordo un anno, sempre al giro, adesso vabbè, è un passaggio un po’ forzato, però aveva la dissenteria Moser e un giorno lui a forza di correre sempre all’esterno, a destra, è caduto perché a un certo punto Moser ha visto un piazzale dove fermarsi e bam!, l’ha tirato giù». 

- Allora: Dumoulin doveva fermarsi… E, fisicamente, lui ha questo busto molto lungo rispetto alle gambe, e queste spalle molto larghe rispetto, penso, ai corridori di oggi. Era una particolarità che lo aiutava in questo senso. 

«Ma sai, lì non c’era ancora la specializzazione della posizione, del posizionamento, del cx e tutta una serie di cose. Io credo che lui avesse veramente una grande forza e come ho detto più di una volta un motore incredibile». 

- Tu che ne hai visti tanti, me li metti un po’ in fila non so Roche e Visentini con tutti i campioni che tu hai visto o avuto. Una tua personale graduatoria, non per forza come motore ma proprio come corridori. 

«Ma guarda, il più completo di tutti secondo me veramente è stato Roche, perché al di là che ha vinto in un anno Giro, Tour e mondiale, perché se preparava la Parigi-Nizza era competitivo per vincerla. O il Delfinato prima del Tour o che. Cioè per me Roche, non perché adesso abbiamo tirato fuori dal cassetto la storia di Sappada, però secondo me Roche è uno di quelli che ancora oggi, ai miei corridori dico che è uno dei corridori più completi che ho visto». 

- È un po’ sottovalutato al giorno d’oggi? Cioè quasi… 

«È passato un po’... ». 

- …come una meteora. 

«Se non avesse vinto quell’anno lì, nell’87, tutto quello che ha vinto, forse sarebbe anche quasi non dico dimenticato ma non è sicuramente collocato tra i campioni, campioni veri. Poi, poi metterei, secondo me, di quelli che ho visto io, sicuramente in seconda posizione, non molto lontano dal primo, è sicuramente Nibali. Perché veramente un motore incredibile, ha avuto la fortuna, ma veramente una grande fortuna, a trovare [Paolo] Slongo, che l’ha sempre sopportato e supportato». 

- Fortuna anche reciproca. 

«Sicuramente. Però in quel caso qua sicuramente è stata la sua ombra e l’ha aiutato tanto anche nei momenti che lui magari ha staccato un po’ il cervello. O le gambe dal cervello, hai capito? Cioè avere una persona così veramente una fortuna. E poi per quello che riesce a vincere una cora come il Lombardia [due volte, nda] o a vincere da giovane il Tour o una Vuelta, perciò… E poi tutta una serie di ragazzi che ho avuto, perché metterei anche Damiano Cunego che secondo me per molti è stato veramente la vera meteora però ha fatto due o tre anni sicuramente molto forte da giovane. Secondo me lui l’unica cosa che ancora oggi mi arrabbio è che lui probabilmente ha capito troppo presto di essere un campione e quando ha cominciato a fare un po’ più fatica ha pensato che fosse tutto un po’ più difficile». 

- E forse si è un po’ seduto? Su un buon stipendio, su certe comodità? 

«Forse, se avesse cambiato squadra, più velocemente, per non mettersi lì con Lampre in serenità, un po’ in tranquillità come dici te, forse sì, avrebbe avuto qualche stimolo in più. Poi, Simoni. Simoni è stato sicuramente un grande corridore perché è andato sul podio una miriade di volte, ha vinto due Giri, però anche lui molte volte “staccato” col cervello però gran motore, grande gamba». 

- Quindi nella tua personale lista dove metti Visentini o come lo collochi? 

«Visentini lo metto un corridore che era moderno già a quei tempi là. Forse, come ho detto prima, se fosse nato quindici anni dopo, sarebbe stato veramente un grandissimo. Un grandissimo. Perché a quell’epoca là, di “Visentini”, c’era proprio solo lui. Adesso invece di “Visentini” ce ne sono “tanti” ma moderni». 

- Quali sono i “Visentini” di oggi? 

«Dumoulin, secondo me, a parte che è un pochino più grande ma è un Visentini di oggi, dove quella specializzazione, con una serie di metodologie di allenamento, di come si può migliorare, della preparazione, di tutta una serie di cose, poteva essere veramente imbattibile, al giorno d’oggi. Perché uno che va forte così a cronometro, e in salita, va più forte anche di Dumoulin, perciò… Tu t’immagini, se tu arrivi coi primi in salita, e poi li batti tutti a cronometro…». 

- Tanti mi dicono che Visentini è stato sfortunato perché gli disegnavano i giri duri quando c’era Baronchelli, e poi nel ’77 l’ha vinto Pollentier; poi sono arrivati gli sceriffi, trenta secondi di abbuoni; poi quando ricominciato a farli duri, Visentini ormai era andato. 

«No, no: è vero. È vero perché gli anni forse più belli che lui poteva veramente vincere erano disegnati totalmente per Moser e Saronni. Che erano forse “più campioni” di lui, sulla carta, per il pubblico, per i tifosi, hai capito? Visentini diventava un incomodo per tutti e due, hai capito? E spesso è stato proprio disegnato così». 

- Un po’ l’ha pagato questo suo essere il terzo (o quarto…) incomodo, uno che comunque non te le manda a dire, magari si è fatto nemici gli sceriffi del gruppo, s’è fatto nemico Torriani, perché lo accusa di aver annullato lo Stelvio per favorire Moser? Queste cose qui le ha scontate, o è un po’ esagerata questa cosa? 

“Probabilmente lui… No, no: diciamo che un po’ esagerata perché a quei tempi là c’eran, secondo me, anche più giornalisti che eran sul pezzo. Adesso i giornalisti, secondo me, guardano più… – Scusa eh, tu sei un giornalista…». 

- Ci mancherebbe. Devi dire quello che pensi… 

«…guardano di più sicuramente i social per sapere cosa succede, e quando arrivano dopo la corsa sanno già tutto quello che dovrebbero dire, oppure c’è un addetto stampa che gli filtra le cose. Invece una volta era proprio diretto, tu andavi da Visentini, e lui se doveva mandarti per il culo, ti mandava e poi era troppo tardi per tornare indietro. Sicuramente sì, sicuramente è vero. Moser e Saronni erano forse un pochino più furbi di lui, nei momenti che contavano. Specialmente anche dopo la corsa». 

- Quindi un paio di Giri gliel’hanno, diciamo così, “sfilati”, o è troppo dire così perché magari li ha persi lui? 

«Un paio di Giri no, ma sicuramente gli hanno tolto – forse – la popolarità che poteva essere un protagonista di quell’epoca là. Perché se tu parli adesso con le persone che sono di ciclismo ma parli di Visentini quasi quasi non dico fanno fatica a conoscerlo, però, se tu dici che lottava con Moser e Saronni, magari ti vanno a beccare un Hinault, ti vanno a beccare un LeMond e passa…». 

- Hai citato Cunego e Simoni, allora, da direttore sportivo, tu come ti saresti comportato al posto di Boifava con due galli nello stesso pollaio, anche se non si era mai visto – prima – attaccare la maglia rosa attaccare da un co-capitano nella stessa squadra. 

«Ma a me, ti dico la verità, mi è anche capitato perché un anno con Cunego e Simoni mi è anche capitato quindi ti dico che non è una bella cosa. La fortuna che ho avuto io quell’anno lì è che avevo Cunego che volava e Simoni che andava un pochino più piano, se avessi avuto due corridori come Cunego, quell’anno lì, non lo so, a un certo punto sarei arrivato al punto di dire: oh, arrangiatevi, fate quello che volete e così...». 

- Ma tu da diesse mettiamo che hai un Tacchella sopra la tua testa che ti dice: oh, io il Giro lo devo portare a casa. O di qua o di là, l’importante è che ci sia la scritta “Carrera” su quella maglia rosa all’ultima tappa”. 

«E io credo che sia stato così, poi, alla fine. Perché, secondo me, una Carrera di quell’epoca là, che era la squadra più importante, quasi, del ciclismo mondiale, insieme con la Panasonic e tutti… Perciò io credo che abbia giovato moto anche nonostante che non c’era la serenità in quella squadra lì fino a Milano [in realtà quel Giro si concluse con la crono finale di Saint-Vincent, nda] Però secondo me sicuramente Tacchella ha detto a Boifava: “Senti, Davide, qua, l’importante che lo portiamo a casa. E poi, finito il Giro, ne riparleremo. Però vinciamo il Giro”. Io come mi sarei comportato in quel caso lì, ti dico: quel giorno lì probabilmente non avrei fatto tirare veramente la squadra dietro. Perché a quel punto lì, o avrei fermato veramente Roche davanti, e avrei detto. “Senti, Roche, la maglia è dietro, perciò tu ti fermi e vai dietro…”». 

- Ma ci ha anche provato Boifava, con il secondo diesse Sandro Quintarelli. E c'è chi dice che l'errore di Boifava sia stato andare indietro nel gruppo e dire a Bruno Leali di tirare. E quindi Visentini è andato nel pallone. 

«Secondo il mio punto di vista io, se non fossi riuscito a fermare Roche, non avrei fatto tirar la squadra dietro. Perché avrei messo in condizione gli altri di tirare al nostro posto. E magari non avrei fatto andare... – ma sempre con il senno di poi, attenzione, non lo so… Siccome criticano anche me spesso e volentieri – Ti dico che io non avrei fatto tirar la squadra dietro. Perché avrei messo in condizione gli altri, i secondi, i terzi in classifica dietro Visentini, di eventualmente chiudere il buco e non far saltare di testa Visentini che poteva poi attaccare nel finale». 

- Tu l’anno dopo sei arrivato in Carrera e che Carrera hai trovato? 

«Per me sono stati gli anni con le più grandi soddisfazioni, anche se ho lavorato tantissimo perché vincevamo su due o tre fronti, però si vedeva l’impronta di una squadra importante, uno sponsor di quelli che sei contento di andare in giro con scritto “Carrera”. Hai capito? Ti rispettano in tutto il mondo. E poi vincere, in tutto il mondo. Penso di aver aiutato anch’io un po’ perché ho portato corridori come Pulnikov, ho portato Abdujaparov. Ho portato… di Pantani dicon tutti che l’han portato gli altri, però io personalmente dico che l’ho portato io, hai capito? A scegliere, almeno, di venire…». 

- Quindi la famosa frase che si attribuisce tra Boifava e Marco, quando lui ha preteso il premio se vinceva il Giro. Pantani hai fatto un affare, l’affare l’avete fatto voi… 

«No, è vera. È vera. È di Boifava. Io al limite l’ho portato fino sotto l’ufficio per fare in modo che andasse su per firmare il contratto. Questo, sicuramente c’entro io. E io con Boifava ho un buonissimo rapporto perché mio figlio ha corso con le biciclette Carrera, perciò non ho niente da rimproverare a Boifava nei miei confronti. Però…». 

- Diamo a Martino quel che è di Martino. 

«Ci ho messo del mio per fare in modo che Pantani scegliesse di venire alla Carrera». 

- È una maglia iconica quella, no? Perché Chiappucci ha detto: la nostra era una maglia, non un giornale. Intendendo dire che non era piena di piccoli sponsor attaccati dappertutto. Ed è una delle maglie storiche di quell’epoca lì. Si può dire, forse forzando un po’, che la Carrera era una specie di Team Sky con trent’anni di anticipo? Perché eravate all’avanguardia nel look, nei trasferimenti, alberghi e viaggi dove possibile in prima caso per recare meno disagio possibile ai corridori, avevate un marchio internazionale, perché non era il mobilificio tal dei tali per la corsa del paese, avevate un marchio globale, andavate a prendere corridori stranieri perché Roche che fa terzo al Tour nell’85 poi viene da voi… 

«Mächler, Zimmermann, Da Silva, cioè… Anzi, la Carrera andava proprio a cercare i campioni e più possibili europei perché a loro interessava… Io mi ricordo addirittura un anno [nel 1991, nda] avevamo messo tutte le bandierine di tutte le nazioni con i corridori che avevamo da Christian Henn che era in Germania a Hervé Meyvisch che era del Belgio e a tutta una serie di… Avevam preso corridori di tutta Europa praticamente. Mi ricordo avevamo un colombiano, anche [Henry Cárdenas nel 1992, nda]». 

- Solo che voi a differenza del Team Sky… [non mi fa finire la domanda, nda] 

«Secondo me era meglio del Team Sky di adesso». 

- Spiegami perché. 

«Perché secondo me adesso c’è veramente troppa programmazione. Il Team Sky secondo me è una macchina da guerra. Invece là c’era ancora – c’era ancora – una certa libertà… libertà di azione». 

- C’era spazio per la fantasia. la Sanremo vinta dal Chiappa in quel modo lì? 

«Sì. Io mi ricordo che la Carrera, quella vittoria lì del Chiappa è nata il giorno prima sapendo che era bagnato il Turchino a scendere. E abbiamo attaccato noi con Bontempi. E nella fuga c’era Sørensen, c’era Kelly. Una fuga buona, e l’abbiamo programmata veramente il giorno prima, senza radioline, senza tutta una serie di cose. Io sono pro-radioline al centodieci per cento. Io sono uno…». 

- Ah sì? Sei uno dei pochi della vecchia guardia, nella tua veste, a pensarla così. E perché? 

«Perché secondo me non toglie l’inventiva del corridore, assolutamente no, perché io non ho mai detto a un corridore devi scattare qui, devi scattare là, però con la sicurezza che serve al giorno d’oggi, con le strade del giorno d’oggi, con quello che succede al giorno d’oggi – in corsa, con le macchine che sfrecciano da una parte, rotonde, non vedo…». 

- Non si può tornare indietro. 

«No. Il giorno che toglieranno le radioline, secondo me, succederà un finimondo». 

- Ma è uno scenario verosimile secondo te? 

«Io spero di no però non siamo molto lontano dal toglierle, te lo dico io, perché troppa gente ormai è convinta che tolgono la inventiva del corridore». 

- Cioè loro non hanno ancora capito che… 

«Serve per la sicurezza al giorno d’oggi. Il direttore sportivo è difficile che possa cambiare strategicamente la corsa solo con la radiolina. Perché io la mattina faccio una riunione e già imposto la mia corsa, poi c’è la variante, sicuramente. Che se io dico oggi cerchiamo di correre in quel senso qua poi dopo cinquanta chilometri c’è un vento bestiale, è normale che cambia, cambio tattica, non mando in fuga qualcuno e poi nel vento mi rimbalza. Però adesso so anche che “dopo 48 chilometri c’è il vento” e da che parte arriva e come si muoverà…». 

- E che intensità ha. Eccetera… È un altro mondo. 

«Al giorno d’oggi… È per quello che ti dico che questo giornale [lo alza dal tavolino, nda] non esiste più. Adesso vado su una app che mi dice che cosa cambierà il vento da qua a… Palazzolo». 

- Questa cosa qua è molto “pericolosa” perché il Team Sky sai che il plan è sacro. Loro hanno il plan. Qual è il punto: che se c’è un granellino che s’incastra, il meccanismo s’inceppa e loro vanno nel pallone. Invece forse ancora i direttori sportivi diciamo della vecchia guardia o comunque del ciclismo vecchia maniera riescono ancora a reagire agli imprevisti, chiamiamoli così… 

«Sicuramente io credo che alla Sky del giorno d’oggi manca proprio un direttore sportivo vecchia maniera – che non è che sono io o un altro – però uno che sappia tatticamente inventare ancora, o cambiare eventualmente in corsa, hai capito? In base a non a come si muovono gli altri ma a come ti vuoi muovere te. Hai capito? Perché secondo me, al giorno d’oggi, io un attacco al rifornimento mi piacerebbe qualcuno lo facesse, e io sarei pronto. Però al giorno d’oggi tutti hanno paura di fare un attacco al rifornimento, perché se poi va male, senti delle critiche. Invece una volta, con Ferretti, si poteva fare. L’ho fatto poi anch’io. Anzi, più di una volta l’ho fatto. Oppure ho fatto muovere dei corridori e poi quando li hai davanti, fermare e bla-bla-bla… Questo, secondo me, manca in questo momento alla Sky. Per improvvisare, e eventualmente anche rovinare i piani di quello che fanno gli altri. Invece con loro è molto “facile” [leggere] la corsa». 

- Però sai loro ti mettono sette-otto corridori che sarebbe capitani o quasi in ogni squadra, li tengono lì a tirare per 45-50 allora per tot km. 

«Sì, sì, sì… Non è tanto [quello]… Loro la corsa la fanno in salita. Loro sanno che a 420 watt in salita chi scatta torna indietro. E quando tu vai a 400 watt e ti tira Diego Rosa o ti tira Mikel Landa o ti tira un altro…». 

- Ma quando un ex campione del mondo come Michał Kwiatkowski ti fa quel lavoro lì… Uno che a inizio stagione lotta per la Sanremo e alla fine è competitivo fino al mondiale, e nel mezzo fa il cavallo da tiro al Tour… 

«Sì, quando uno ti mette lì a 460 watt che già ti stacca i campioni e rimangono magari... Ti giri indietro e son rimasti in quattro-cinque, e dice: dai, tira ancora un chilometro, tira ancora un chilometro…». 

- Ma è "ciclismo" questo, Martino? Il ciclismo di oggi… 

«È il ciclismo moderno, è il ciclismo di oggi. È il ciclismo di adesso. Forse sì è vero, forse non è più bello come una volta. E tante volte io mi arrabbio perché mi dicono: Ah, in salita non ci son più gli scalatori. No, non ci son più. Non è che in salita non ci son più gli scalatori, è che adesso - in salita - [tutti] vanno troppo forte. E anche lo scalatore, quando lo scalatore è a tutta-tutta-tutta, come fa a far la differenza? O uno salta, e allora si stacca. E allora prende un minuto, due minuti, tre minuti… Oppure se non salta, limano lì all’ultimo chilometro e ci son dieci secondi di differenza». 

- Ma quindi tu, che guidi squadre che il Team Sky lo devono contrastare, le tappe come le imposti, come le prepari

«Io aspetto sempre che sbagli qualcosa». 

- Quindi giochi di contropiede, fai la corsa su di loro? 

«Sicuramente non puoi correre al loro pari, assolutamente no. Praticamente io l’anno scorso, ti dico, con Fabio [Aru] avevo quasi la certezza di andare sul podio, poi han cominciato a dire non c’è più Kwiatkowski, non c’è più Richie Porte – Kwiatkowski faceva il gregario, Porte è caduto –, non c’è più un [altro] paio di corridori... Così, ho detto, se lottiamo con Romain Bardet più che con Warren Barguil – anche se c’è ancora una tappa, e viene dentro anche Barguil, hai capito? – Landa, anche lui doveva fare il gregario, io credevo di andare veramente sul podio, capito? Poi invece si è ammalato e…». 

[Fabio Aru, nonostante la bronchite, chiuse quinto, a 3'05" dal vincitore Froome e a 45" dal terzo posto di Bardet, nda] 

- Hai parlato di Landa, mi hai fatto venire in mente due flash: Tour 2012, Chris Froome e Bradley Wiggins. Froome gli scatta davanti per far vedere che ha più gamba e potrebbe vincerlo anche lui il Tour, lo aspetta platealmente. Landa e Froome, 2017, per tornare ai due galli nel pollaio. Quindi mi stai dicendo che oggi - nel ciclismo delle radioline, dell’srm, dei wattaggi - una "Sappada", e quel colpo di mano, non sarebbe più possibile? 

«No. Sarebbe difficile, allora sarebbe difficile secondo me per tanti motivi ma quello più importante è che due corridori così in una squadra non ci sono più. Sì, mi dirai: l’anno scorso Landa con Froome sicuramente, però landa veramente s’è mangiato il fegato per non andare sul podio al Tour». 

- Ma forse anche con te al Giro all’Astana. 

«Io gliel’ho “fatto” perdere il Giro dico la verità però non pensavo mai di avere in mano un Landa del genere, e era il primo Landa. Se l’avessi avuto adesso, sicuramente non me lo sarei mai fermato sul Mortirolo. Mai. Non l’avrei mai fermato sul Mortirolo. Non tanto ad aspettare Aru, ma per fare la corsa per Aru. Perché quel giorno lì non è che ho fermato Landa a dire: oh, torna indietro, vai dietro dove… No. Landa era già davanti da solo, avrebbe staccato tutti. Contador sarebbe arrivato su Fabio e sicuramente non avrebbe mai preso Landa, perché Landa volava quel giorno lì. Io ho fatto in modo che Landa… di tener lì Landa, a ruota di Contador e dire stai lì, stai lì a ruota di Contador, tu fai la corsa a ruota di Contador a me interessa Fabio». 

- E il tuo capolavoro invece quale è stato? Uno dei tuoi capolavori. Magari quando hai mandato in fuga Scarponi e poi l’hai richiamato per fare arrivare Vincenzo? 

«Per me il migliore in assoluto sicuramente è stato quello di Falzer con Cunego, con Cunego perché Cunego io sapevo che veramente era forte ma nessuno avrebbe… se lo sarebbe aspettato così forte. Poi l’ho fatto con Simoni a Imola. L’ho fatto con Fabio alla Vuelta con Dumoulin. Però erano tutte repliche, secondo il mio punto di vista la migliore, la più bella che m’è rimasta dentro, sicuramente quella lì. E poi quella di, come hai detto te, a Risoul, di Vincenzo». 

- Te l’ho citata perché ero lì e ce l’ho ancora negli occhi. 

«Lì è stata la caduta, lì se non c’era la caduta dell’olandese [Kruijswijk, nda] quella storia lì non saremmo qua a raccontarla perché probabilmente…». 

- Però fa parte di quegli imprevisti del ciclismo dei quali parlavamo prima. E magari chissà invece il team sky forse sarebbe andato nel pallone. 

«Sì, sì ma io ho detto proprio, mi ricordo benissimo, il giorno dopo la crono di…». 

- Ti ricordi? Vincenzo aveva avuto anche il problema alla bici, era nervosissimo. Quasi la butta via… 

«Bravo. La sera stessa sono andato in camera di Nibali quella sera lì ho detto: guarda io che sono sicuro che si può ancora vincere il Giro, però noi dobbiamo fare in modo di correre per il terzo posto. Lascia perdere il primo posto. Primo posto, se questo [Kruijswijk] va così, non lo battiamo. Però corriamo per il podio. Che se andiamo sul podio, abbiam fatto già un bel Giro. Questo per fargli capire che tante volte bisogna correre anche per quello che si è. E non pensare sempre…». 

- Cioè, mi stai dicendo: per obiettivi alla portata in quel momento.

«E il giorno dopo lui, che ha attaccato e poi s’è staccato di nuovo – perché poi s’è staccato di nuovo – la stessa cosa gli ho detto: Guarda, se davanti a te ci fossero, non so, tanto per dire, Froome, Quintana e un altro, direi: qui adesso è dura. Ma aveva davanti Kruijswijk che non ha mai vinto una corsa a tappe, secondo c’è questo che non ha mai vinto una corsa a tappe, terzo c’è questo che non ha ami vinto una corsa a tappe, figa, tu ne hai vinte quattro. Ma vuoi che non riusciamo a batterli se… Se facciamo le cose fatte bene? È stata veramente… Poi sai ci vuole anche fortuna nella vita…». 

- Ha inciso nel senso emotivo, per Vincenzo Nibali, la morte per incidente di quel ragazzo [il 14enne Rosario Costa, investito nel 2016 durante un allenamento, nda] della sua squadra giovanile di Messina? 

«È un ragazzo molto sensibile. Sotto quell’aspetto lì, è uno dei più bravi. È uno dei più… Come si può dire? Non sembrerebbe ma è…». 

- “Sensibile” dice già tutto. 

«Sì, bravo. È veramente…». 

- Prima parlavi anche dell’aspetto organizzativo. Tu hai gestito tante squadre anche dal punto di vista economico la forbice era meno ampia tra le fuori categoria, quella che poteva essere la Carrera allora e il team sky oggi, e le piccole-media. Oggi una Bardiani e il Team Sky quindici volte forse anche di più la differenza. 

«Quasi il doppio di tutte quelle del World Tour». 

- Sono due “ciclismi” diversi all’interno dello stesso quindi mi racconti invece com’era alla Carrera e come ti sei ritrovato oggi alla Astana o altre potenze statali o parastatali come quelle di oggi. 

«Secondo me la Carrera la prima cosa che aveva, okay, era una potenza a livello... Però i corridori andavano alla Carrera anche perché sapevano che avrebbero trovato molte più cose che negli altri…». 

- Come organizzazione, intendi? 

«Come organizzazione, perché avevamo, faccio per dire, avevamo già il bus, e gli altri avevano ancora il camperino». 

- Quindi voi dopo la PDM e in Italia la Supermercati Brianzoli del team manager Stanga che dalla PDM lo comprò usato, siete stati i primi ad avere il pullman. 

«Sì, noi avevamo praticamente, noi lo chiamavamo un van, un van rispetto agli altri che avevano ancora… io son venuto via dalla Carrera e sono andato alla Mercatone, ho vinto il Tour ancora col camper, rispetto a…». 

- Nonostante i quattrini del patron Romano Cenni… 

«Là c’era veramente anche il fatto di andare nella squadra dove potevi avere veramente… Potevi vincere. Portevi – come si può dire? – avere dei compagni di squadra per poter vincere anche te. Adesso invece, secondo me, molti corridori scelgono proprio solo l’“economicità”, cioè il fatto di andare nella squadra dove prendono di più, dove vengono pagati di più». 

- Roche perché ha voluto – a tutti i costi – tornare in Carrera [nel 1992], anche se c’erano state delle burrasche, no? 

«Perché, secondo me, ha capito che la professionalità che si vedeva in Carrera si vedeva in pochi altri posti. Lui ha provato a essere in Francia e in Francia non c’è la professionalità che c’è in Italia, e mi dispiace che non ci siano squadre in Italia però da una parte mi piace che ci siano molti tecnici e molti chiamiamoli meccanici, massaggiatori o preparatori o che nel ciclismo mondiale che sono italiani, e sono di prim’ordine». 

- Ci sono invece delle figure che faccio fatica a tratteggiarne i contorni. Per esempio, che ricordo hai di Patrick Valcke, che era un uomo di fiducia di Roche e se lo era portato dietro dalla Peugeot alla La Redoute e in Carrera e poi alla Fagor… 

«Valcke è stato una persona che se n’è approfittata della bontà di Roche. Quell’anno lì era il suo meccanico di fiducia, l’ho sempre visto un po’ come, sì, uno che se n’è approfittato, ha fatto la sua breve carriera, ha dimostrato che da meccanico è diventato direttore sportivo ma valeva tanto un meccanico però alla fine… Sì, come dici te son delle figure che son state un flash. Se fosse stato bravo veramente, forse Roche lo avrebbe riportato ancora in Carrera, anche se alla fine sapevamo che un po’ del traditore ce l’ha più lui che gli altri. Perché secondo me lui era proprio in combutta con…». 

- Sai che c’era la cosiddetta Trinità del male: il Ribelle, Giuda e il Diavolo… Roche lo chiamavano il Giuda, Valcke addirittura il Diavolo e Schepers il Ribelle era il terzo di quel cosiddetto “Team Roche”? 

«Ci può stare., ci può stare che abbiano dipinto giusto». 

- Ti risulta che in gruppo circolasse questa battuta. Roche dopo Sappada aveva paura di sabotaggi eccetera, c’è stata anche una brutta del “tifo” italiano, gli sputavano addosso vino rosso e riso, gli tiravano dei pezzi di carne come per dire ti facciamo a brandelli, e c’era una battuta in gruppo tra corridori che diceva: cosa ha mangiato Roche a colazione? Le frittelle perché è l’unica cosa che passa sotto le porta. Tu di queste cose avevi sentore, le hai viste, vissute? O... 

«Mah, io penso che siano cose un po’…». 

- …romanzate? 

«Sì, un po’ troppo, veramente… Mi dà l’impressione che sia veramente, che non siano… Sicuramente, quell’anno lì, dalla fine del Giro ad arrivare al Tour e compagnia bella, non avrà avuto vita facile. Però, secondo me, la Carrera era una squadra dove – faccio per dire, non voglio paragonare alla Sky perché della Sky si sa veramente molto poco – poi io una Carrera la metto come quello che è la Juventus nel mondo del ciclismo [da titolo: Carrera, la Juventus del ciclismo] dove c’è un filtro, dove c’è persone che parlano e sanno cosa dicono e che possono pensare anche che se dicono una cosa poi si ritorce contro. Cioè secondo me c’era anche una professionalità molto importante. A partire da Boifava ma ancora più in alto che erano, veramente, la famiglia Tacchella che a quell’epoca là arrivavano con l’elicottero, qua a Rovato. Mi ricordo che abbiam fatto un aereo privato per andare magari a San Sebastian quando tutti eravamo in un casino per tornare da San Sebastian, cioè… Erano persone che gli piaceva vincere ma sapevano che per primo era l’immagine della squadra. L’immagine dell’azienda-Carrera, perciò non si sarebbero mai svenduti per una polemica o per un… Per quello, era chiaramente romanzato». 

- Era un ciclismo, non c’era l’addetto stampa che ti preleva e ti porta all’antidoping evitandoti il contatto con i giornalisti. Lui all’arrivo era scortato sempre da due carabinieri, Roche, questo te lo ricordi? 

«Mi ricordo vagamente però mi ricordo. Mi ricordo perché per me era tutto più alla luce del sole, hai capito? Fosse stato adesso, secondo il mio punto di vista, passato il giorno, sarebbe, sì, sarebbe andato su tutte… su tutti i social, avrebbero fatto una battaglia mediatica due giorni poi alla fine passava tutto in fanteria. E magari avrebbero parlato di qualcos’altro come succede spesso e volentieri che è successo, quello lì ha parlato con quello là, quello là lo mandano via, cioè… Sarebbero andati molto più in là di quello che era quel momento lì». 

- La figura di Sandro Quintarelli. 

«È stato sicuramente un buon direttore sportivo, rapportato - secondo me - a quei tempi là. Cioè: era un direttore sportivo. Più che un direttore sportivo “vero”, era un amico dei corridori. Era “fratello” di Boifava, anche se non era apparentato. Eravamo un bel trio. Io son arrivato… Son rimasto lì nove anni, perciò non è che son rimasto due giorni, però… Io credo che la fortuna di Quintarelli sia stata quella di essere veramente molto amico di Boifava. Boifava credeva molto in Quintarelli. Però se Quintarelli fosse nel ciclismo di adesso, è uno di quelli che  si troverebbe più in difficoltà. Più di tutti. Perché adesso bisogna veramente cambiare marcia. Non c’è niente da fare. Se vuoi stare nei tempi moderni, devi fare dei passaggi che per lui sarebbero stati troppo grandi». 

- Fammi qualche esempio pratico per capire a cosa alludi. 

«Per dire, non so, adesso bisogna… Twitter e Facebook e compagnia bella, anch’io ho fatto fatica all’inizio però, alla fine mi devo “immedesimare”, cioè… “aprire” un computer, imparare a fare dei programmi. Una volta avevi la segretaria, adesso, se non sei capace da solo, non puoi aspettare che arrivi la segretaria. Perché la segretaria, a un certo punto della giornata, non ce l’hai. Perciò ti devi arrangiare da solo. Ecco. Quintarelli lo vedo proprio fuori dai tempi». 

- Anche lui è fuori dal ciclismo. 

«Ovviamente. Perché? Perché non è riuscito poi a seguire... Secondo me, sì. Direttore sportivo lo è stato, e anche bravo. Però quando è stato il momento di cambiare marcia, non ce l’ha fatta. Perché lui, quando la Carrera ha smesso, ha fatto un anno, due, ancora in giro di qua e di là, però dopo… Io avuto, lo dico sempre, e lo dico sempre anche ai miei corridori, io ho avuto molta fortuna. Però spesso e volentieri ero dove è passata». 

- Cioè hai fatto in modo che… 

«Io aspettavo. Aspettavo. Son stato anche capace di cercarmi le mie opportunità, hai capito? Perché non sono arrivato per caso all’Astana. Ti dico, io son arrivato all’Astana perché un giorno, guardando una tappa del Tour, hai capito, ho visto come Bruyneel parlava dell’Astana, male naturalmente – e che gli dava due milioni di euro di stipendio – e che gli dava venti milioni per fare la squadra, io cosa ho fatto? Io ho chiamato un direttore sportivo dell’Astana, che era Alexandr Shefer, che avevo avuto io da corridore e gli ho detto: “Ma come si permette, quello lì? Ma cazzo sta dicendo?! Ma, [impreca, nda], cosa aspettate?! A cambiare uno così? Eh, ma come fai, come non fai… Cavoli, ma... [stessa imprecazione in bresciano, nda] Prendi me, dio caro, ti costo dieci volte meno, dio caro, lavorerò per te. Poi, se devo lavorare per fare in modo che questo dica meno cazzate, io sono qua a disposizione. Ci siamo incontrati, bam-bam-bam, presentato Vinokourov, bla-bla-bla e son andato. Così. Cioè, se io invece quel giorno lì stavo guardando il Tour e…». 

- Johan Bruyneel, da quel che ho letto nella sua autobiografia, alla fine – come il suo pupillo Armstrong – ormai aveva deliri da onnipotenza… 

«Sì, ma guarda che, quando io sono arrivato in Astana, Bruyneel, mi avrà chiamato cinquanta volte, eh, dicendomi di non andare mai, assolutamente no. Io dicevo: Guarda, Bruyneel, che se mi pagano quello che mi ha detto che mi danno, col cazzo che non ci vado. Poi, magari fra un anno ti dirò: Ma chi m’ha detto di andare… Io intanto ci vado. Dopo, ho detto, tra un po’ di anni, eventualmente ti dirò che avevi ragione». 

- A proposito di questa “internazionalità” che ciclicamente ritorna per la Carrera ma anche per te, c’è questa battuta di Roche che diceva che “Visentini appena vedeva il cartello Chiasso si perdeva”. Perché Visentini era fissato solo con le corse italiane e invece paradossalmente magari per tanti Tour erano forse più adatti a lui rispetto al Giro? 

«Sai, lui, era il classico corridore italiano». 

- Nella testa dici? Nel bene e nel male… 

«Sì-sì-sì. Ma penso anche nel bene perché lui fondamentalmente t’ho detto non era uno stupido. Lui era opportunista per se stesso. Io mi ricordo una volta, faccio per dire, perché Roche ha detto la verità dicendo così, cioè anche se dovessi incontrare Visentini in questo momento non potrei dire che non ha ragione Roche. Perché ti dico un anno mi ricordo stavamo andando a fare il Gran Premio di Camaiore, no: il Trofeo Matteotti. E la settimana prima c’era il Gran Premio di Camaiore. Allora il suo papà lo viene a prendere a Desenzano, metto la bicicletta nel baule, va a casa. Questo era la domenica sera. Il giovedì partiamo per Pescara, era il sabato, il giovedì andavamo giù, perché sai il venerdì, primo agosto, un casino della madonna, arriva suo papà, carica Visentini, apre il baule, Visentini dice: ma, cazzo, ma la bici. E io l’ho tirata giù domenica. Ma come, cavoli, cioè non era andato in bicicletta! Quindi quattro giorni aveva detto: tanto ce l’ho lì, la lascio lì. E quando ritorno… Cioè, hai capito? E io ho detto. Ma come è possibile. A Roche fosse successo una cosa del genere o a un altro corridore, cioè vuol dire che lui era… Ha ragione [Roche] quando dice che [Visentini] arrivava a Chiasso, non sapeva dove andare. E probabilmente era proprio così, cioè…». 

- Poi, sai, Roche aveva anche un altro percorso perché lui era andato in Francia, di notte ha dormito all’aperto a febbraio, era anche un’altra formazione… 

«Roche aveva tre case, due fidanzate, la moglie, cioè già a quell’epoca lì era avanti un pezzo, hai capito? Aveva due cellulari, tre telefoni in camera. Quando c’era Roche in camera, non si telefonava più nessuno nell’hotel, eh. Era sempre lui, perché stava facendo i suoi lavori…». 

- Questa roba qui nel bene e nel male perché anche Roche ha avuto una vita un po’ difficile, complicata. E invece può bastare l’episodio di Sappada per non volerne più niente a che spartire con l’ambiente del ciclismo, nel caso di Roberto? O c’è qualcos’altro? Tu come la vedi? 

«Nooo. L’avrebbe fatto ugual. Io, Visentini, se tu parli con chi correva quell’epoca là, con Leali, con Bontempi, con Perini, ti direbbe che Visentini, quando scendeva di bicicletta, avrebbe fatto tutta un’altra cosa. Cioè non sarebbe entrato [rimasto] nel mondo del ciclismo perché lui, per lui il ciclismo è stato un passaggio della sua vita, come uno cambia lavoro, come uno che dice faccio l’imprenditore e a un certo punto ho guadagnato tot per fare qualcos’altro e non ci penso più, faccio altro». 

- A Roberto piaceva sciare. In camera studiava il libro per diventare maestro di sci… 

«Lui gli piaceva tutto quello che gli veniva facile, hai capito? Cioè quello che… per me lui nella sua vita il ciclismo l’ha preso come un passaggio proprio della sua vita, un passaggio… un pezzo della sua storia, ha fatto il ciclista». 

- Che cosa ti aspetti che posso raccontare in questo libro col senno del poi di trent’anni dopo? Cosa ti piacerebbe vedere che magari non viene approfondito nei media di oggi, perché c’è un po’ di superficialità, cosa ti piacerebbe raccontare non soltanto di Sappada, di Roche, di Visentini ma proprio di “quel” ciclismo là? 

«Mah, non è facile perché, sai, io sono arrivato, io già da corridore pensavo di fare il direttore sportivo, ti dico la verità. Perché non dico mi scontravo con i vari Pieroni, con i vari Franchini, hai capito? Mi ricordo con Pieroni che mi diceva: fai questo. E io gli dicevo: No, secondo me, Piero, te sei un buon ds ma secondo me…. ‘scolta me, non si fa così. E mi ricordo che una volta, mi ricordo a un Paesi Baschi che era secondo in classifica Beccia e io ero lì a fare diciamo il gregario di Beccia e mi ricordo una riunione aveva fatto una riunione che…». 

- Aspetta, ma non ti riferisci ad aspetti organizzativi, ti riferisci a cose di corsa? 

«Io ero un corridore e lui era un direttore sportivo della Santini-Selle Italia…». 

- E ti riferivi a cose di corsa o ad aspetti organizzativi? 

«No, no, di corsa. Di corsa…». 

- Perché lui come organizzatore invece era abbastanza avanti. 

«Molto bravo, molto bravo. Però come direttore sportivo quell’anno lì che lui faceva il direttore sportivo io ero già immedesimato nel fare il direttore sportivo. Mi ricordo che aveva fatto una confusione nella riunione della mattina. E io avevo detto. Ma, Piero, secondo me non è così proprio oggi la tappa [sorride, nda], secondo me. Ma come cazzo, cosa fai, il direttore sportivo? Io non voglio fare il direttore sportivo, però, Piero, non è così. Secondo me, tu hai visto un’altra corsa. Cioè… Questo non è così». 

- Era però bravissimo a preparare la valigia. Ho visto il prospettino con la lista plastificata delle cose che il corridore doveva ricordarsi di portare. 

«Sì, sì. Guarda che io ho fatto un anno con lui, attaccato alla valigia c’era tutto quello che c’era da metter dentro, eh». 

- Plastificata. 

«Sì, sì, sì. Ce l’ho ancora, io, eh. Ce l’ho ancora la valigia, con scritto dal cappellino da corsa alle mutande, faccio per dire, che aveva fatto con la squadra. C’ho ancora un asciugamano con…». 

- Il colpo di genio, secondo me, è plastificarlo o farlo plastificare... 

«Dicevo, rapportato a quel ciclismo là, mi piacerebbe che ci fosse qualche non direttore sportivo però veramente qualcuno del ciclismo – dentro, nel ciclismo - che parlasse di quei tempi là, ma proprio della naturalezza di come c’erano le corse, di come si correva con cento corridori. Perché io mi ricordo, al Giro partivano cento corridori. Dieci squadre da dieci corridori. Quando io parlo con mio figlio, e che gli dico che io facevo dal Laigueglia al Lombardia, questo non ci crede. Ma dal Laigueglia al Lombardia, Martinelli, Visentini, Roche, Bontempi, Ghirotto, Moser, Saronni, Knudsen, tutti. E ci trovavamo tutti ai Paesi Baschi, tutti alle classiche in Belgio, tutte le prime classiche… Io facevo, come dire, non so, venticinque giorni in Belgio, dalla Tre Giorni di La Panne fino all’ultima corsa in Belgio, tornavo a casa, andavo dall’Amstel [Gold Race]… sono andato ancora alla Vuelta [che allora si correva in aprile, nda], e dalla Vuelta al Giro, hai capito?». 

- Pensa a Giovanni Battaglin, che nell’81 – in 48 giorni – ha fatto la doppietta Vuelta-Giro. Fra le due corse quanti giorni sarà stato a casa, tre? 

«Eh, sarà stato a casa tre-quattro... Io mi ricordo una Vuelta e un Giro d’Italia con un giorno – un giorno… Un giorno. Si partiva da Genova, e la Vuelta…». 

- Oggi, sarebbe improponibile. 

«Sarebbe improponibile perché: perché vogliamo troppo tutti. E invece una volta io sapevo che andavo al Laigueglia per vincere. Però non andavo all’Amstel Gold Race per vincere, andavo per essere… per fare l’aiuto a qualcuno che poteva vincere. Invece al giorno d’oggi si va sempre per vincere. Sempre per vincere». 

- Però, sai, se il campioni del mondo Peter Sagan, quando c’è il Giro, va invece a correre il California, allora vale tutto, no? 

«Certo. Non andrebbe a fare il California, “deve” venire al Giro d’Italia, questo sì. Secondo me son diventati anche, cioè non c’è quasi più la differenza tra… Guarda, faccio un esempio, ho un giornalista, forse lo conoscerai anche, bresciano, quest’inverno mi sono incontrato a una cena, c’era anche lui e mi fa: Certo che però, cavoli, oh, quattordici corse ha vinto Jakub Mareczko. Io ho detto: che, quattrodici? Quattordici corse ha vinto Mareczko. No, fermati: io credo non ne abbia vinta neanche una. Ma se tu confondi le corse in Cina con una tappa del Giro d’Italia di Marcel Kittel o di Fernando Gaviria, ma dove cazzo sei? Ma dove cazzo sei, ho detto? Ma sai che non vinceva neanche da dilettante quattrodici corse?». 

- Ma la colpa non è [tutta] sua perché oggi in questo pastone dei social 

«Guarda oggi stamattina la pagina su Ganna, c’era un corridore a correre ieri, lui e il campione del mondo under 23, a cronometro, terzo arrivato Rafał Majka che in una corsa a tappe Majka arriva trentesimo a cronometro, cioè non puoi fare una pagina così sulla Gazzetta. Certo, a me piace. Voglio che si faccia, però il giorno dopo devi fare totalmente il contrario, però. Cioè tu non puoi fare una pagina con Filippo Ganna che è maglia al San Juan». 

- Questo la dice lunga su un sacco di cose però… 

«Cazzo, perché sminuisci molti corridori e in quel caso qua io mi incazzo quando qualche volta mettono “Martinelli Davide” potrebbe essere protagonista solo perché è mio figlio. Mi incazzo. Mi arrabbio. L’ho detto, spesso, anche alla Gazzetta. Davide deve conquistarsi il suo spazio, a “svantaggio” di “Martino”, tanto per dire». 

- Vale anche per Nicolas Roche, ’sto discorso. Perché lui da ragazzo non correva come Roche correva come “il figlio di Stephen”, nel bene e nel male. Ma più nel male che nel bene, perché poi… però questo la dice lunga anche sui social, sulle troppe corse, sulla preparazione – e competenza – della mia categoria e non solo della mia. Oggi, hanno lo stesso peso ma non possono avere lo stesso peso… 

«Ma no, ma nooo. Un Gaviria che stasera vincerà sicuramente la tappa di San Juan, ma sicuramente che Gaviria vince con facilità magari davanti a Bonifazio, davanti a un altro. Ma vale poco la vittoria di Gaviria e vale ancora meno il piazzamento di Bonifazio. Anche se t’ho detto per me i corridori italiani li difenderò sempre, tutti. Perché se Ganna ieri vinceva ero più contento che fare secondo però devi sempre dare il giusto peso perché altrimenti tu veramente fai confusione». 

- Il problema è che non interessa a nessuno. 

«Bravo, quello è il problema. È quello il problema…». 

- Tu il 30 settembre sei andato a Caldiero per quella giornata-amarcord, trent’anni dopo. C’erano tutti gli ex “Carrera”. Tutti o quasi. Tutti tranne…? 

«...Visentini. Avevo sentito due-tre giorni prima Cassani, che m’ha detto: Guarda, lo sto convincendo, vedrai che, vedrai che… Ho detto: Guarda, mangio un gatto col pelo, se c’è… Hai capito? Perché già due o tre volte, qua nei dintorni, l’hanno chiamato delle persone, suoi amici, e non ci va uguale. Non ci va neanche a mangiar la pizza. Non lo so, non riesco a capire perché. Naturalmente, non è venuto. Ma non è venuto perché – sicuro – non sarebbe venuto, ma ancora di più perché c’era Roche. E sapeva che Roche c’era, perché non poteva non esserci Roche. E secondo me, non ti dico che avrebbero litigato però sono anche capaci di litigare davvero, perché… Lì invece è stata bella cosa perché Roche ha detto delle cose abbastanza “inedite” ed è stato anche, è stato un po’ anche al gioco, secondo me, Roche…». 

- Ma tutti gli chiedevate di ’sta Sappada-Sappada-Sappada? 

«No, è venuto fuori ancora perché Beppe Conti l’ha tirato ancora in ballo, hai capito? Roche però… Per me, Roche dice la verità: Io volevo vincere il Giro, e per vincere il Giro ho dovuto far così. E in quel caso lì, io ti dico, anche se sono amico di Visentini quanto lo sono di Roche, io quel giorno lì sono convinto che Roche non ha proprio rubato il pane di bocca a Visentini. Roche ha fatto la sua corsa per vincere il Giro d’Italia, poi Visentini s’è fatto infinocchiare, hai capito? È saltato di testa per tutta una serie di altre cose; che non era poi la prima volta e non è stata neanche l’ultima, hai capito? Perciò io direi che: il furbo, e quello che s’è fatto infinocchiare». 

- Eppure, Davide Cassani però ci aveva provato sul serio perché poi Visentini è vero che non vuole più saperne dell’ambiente del ciclismo però ogni tanto magari quando qualcuno lo chiama. 

«Con Boifava passava fuori, eh. Boifava passava fuori, quando lui aveva già smesso, e io lavoravo lì da Boifava, qualche volta è passato fuori Visentini, magari aveva un morto nel furgone, però passava fuori… [sorride, nda] E si fermava lì a chiacchierare». 

- Sai, il mondiale di Bergen [2017] gli azzurri l’hanno preparato in ritiro al lago di Garda, e Visentini è andato lì a trovare Cassani. Cassani poi gli ha telefonato: Dài, vieni. Alla fine però Roberto non ci è andato. Che cosa gli ha fatto schifo dell’ambiente, secondo te? 

«Secondo me lui crede e pensa che il mondo del ciclismo non dico tutto un po’ corrotto, però tutto un po’… che tutti parlano ma alla fine ognuno fa quello che vuole e si gestisce un po’ il suo orticello. E invece, secondo me, non è tutto così. Ci son persone oneste che fanno il loro lavoro. Io tante volte mi incazzo, perché vengo anch’io da problemi di doping, di… Ma io mi sono anche arrabbiato, un giorno, proprio con qualcuno d’importante del ciclismo, dove gli ho detto: Scusami, se io quell’anno lì, ero nel mondo del ciclismo e sono stato coinvolto perché negli anni Duemila c’era… Cosa dovevo fare, il muratore, intanto? Dovevo prendermi uno spazio per dire: no, io non accetto questo lavoro perché in questo momento è corrotto, c’è il doping e compagnia? Io non ho mai portato niente a nessuno per nessun modo al mondo. Però se io in quel momento là lavoravo, cosa dovevo fare? Qualcos’altro? E adesso, perché è pulito, allora rientravo? Come rientravo? Chi è andato fuori è andato fuori, chi era dentro ha cercato di gestire…». 

- Sai questo è un aspetto che la gente spesso non considera. Però sai ci son tanti direttori sportivi che… Allora cosa rispondi ai corridori che mi dicono: ah, guarda, i direttori sportivi non ti dicono fai questo, prendi quello, però ti dicono: C’è questa corsa, arriva preparato. E tu sai cosa vuol dire, “arriva preparato”, no? E quindi dopo il direttore sportivo anche in tempi recentissimi, dice: ah, ma chi li controlla i corridori a casa loro? A casa loro fan quel che vogliono, ditemi voi come li possiamo controllare? Capisci bene che c’è questo meccanismo di ipocrisia: da una parte devi “arrivare preparato” ma poi sono cavoli tuoi. 

«Guarda, io ti dico che… io non voglio essere né il più bravo né il più asino. Io ti dico: io ho lavorato in tante epoche diverse del ciclismo, io cancellerei veramente e terrei buono quando io ero corridore e sapevo cosa facevo io per me stesso e sapevo che non ho mai rubato, hai capito? E quello che è gli ultimi cinque anni di questo ciclismo. Il resto, ti dico, che a me, personalmente, non è che non mi piacesse, però se potessi in questo momento cancellarlo, lo cancellerei. Veramente. Perché quel ciclismo lì era veramente un ciclismo difficile. Dove veramente tutti abbiamo fatto degli sbagli. Chi più, chi meno, tutti abbiam fatto degli sbagli. Però purtroppo quello era, è stata, un’epoca. Un’epoca che è stata così». 

- Dove, o quando, è stato il bivio, uno di quelli di cui parlavamo prima che dici da qui in poi abbiamo imboccato un’altra strada? Il passaporto biologico nel 2008? 

«Per me, sì, dal 2009, 2010, si è imboccata la strada giusta. E adesso tutti gli anni andiamo sempre meglio e ti dico adesso si vince veramente puliti, e te lo posso garantire al cento per cento. Io ho avuto corridori che hanno vinto, vinto grandi corse a tappe, senza assolutamente… Ma non doping, senza nulla. Nulla. Pane e acqua. A pane e acqua. Con l’allenamento, con la preparazione, con la performance, con tutta una serie di modi di allenarti, di recuperare, di integrazione, di…». 

- E qual invece la tua posizione su casi-limite come possono essere quelli delle prescrizioni mediche. Adesso il caso-Froome è quello più eclatante però ci sono anche tanti altri piccoli casi Froome e soprattutto due pesi e due misure, cioè se ti chiami Ulissi o Petacchi, finisce in un modo. Se ti chiami Froome… 

«Io credo che Froome, secondo il mio punto di vista è giusto che se ha sbagliato, e purtroppo ha sbagliato, debba non dico debba “pagare”, debba essere giudicato come gli altri, uguale agli altri. Poi, se la Sky è talmente brava di dimostrare il contrario, okay, che lo dimostri, però non può dimostrarlo fra sette mesi. Perché nel frattempo credo che Froome fra dieci giorni comincerà a correre e credo che anche lui stesso correrà, a meno che si sia bevuto il cervello, non si ricorda più niente, correrà con una, con la testa che non è… e poi come lo giustifichi nei confronti degli altri, la mattina alla partenza, la sera dopo all’arrivo, la premiazione, perché poi vincerà anche, perché son sicuro che vincerà anche…». 

- E infatti Bardet già si è fatto sentire… 

«Io credo così. Dall’altra parte son convinto che le prescrizioni mediche o se uno ha veramente un qualcosa, in questo caso io parlo spesso con dei medici e mi dicono sì è vero il ciclismo in questo momento, per quanto riguarda il Ventolin, per quanto riguarda l’asma, così, veramente sta passando un periodo difficile perché, oh, tu ti alleni sulle strade, mangi dalla mattina alla sera, noi facciamo delle ricerche e vediamo che il ciclista che ha problemi li ha veramente, però migliorare la prestazione per stare meglio è un conto, migliorare la prestazione per vincere secondo me è diverso. E Froome, secondo me, ha sbagliato. Ha sbagliato qualcosa». 

- O chi per lui, sì. Mi hai fatto tornare in mente il secondo periodo di Roche in Carrera. Quando nel processo di Ferrara è venuto fuori che c’erano tre pseudonimi riconducibili a lui. Cosa ti ricordi di quel secondo periodo di Roche in Carrera? 

«Quello che stai dicendo adesso me lo ricordo vagamente, veramente cioè perché. Noi, è inutile negarlo che noi eravamo a Ferrara e ci seguiva il dottor Ferrari e Grazzi e così e lavoravano e tuti e due hanno avuto grandissimi problemi, dopo. Però io che abbia… t’ho detto, era un periodo così… Era un periodo così». 

- Io ho provato a contattarlo, il dottor Giovanni Grazzi ma preferisce non rilasciare interviste.

«Grazzi, per me, è una bravissima persona, io ho avuto…». 

- Anch’io ho avuto questa impressione, ma al telefono ho avuto come l’impressione che si sentisse ancora ostaggio di quegli anni brutti, perché poi nel ciclismo lui ha lavorato solo con la Carrera nel ciclismo, poi ha fatto tutto altro tipo di percorso professionale come medico. Ma ti assicuro che è un luminare nel suo campo, ha un curriculum che non finisce più però anche lui si è staccato appena ha potuto dal ciclismo. E non ha piacere, ha preferito rispondere via e-mail e non rilasciare interviste. 

«L’ho visto lì e ci siamo messi a parlare un po’». 

- E invece sarebbe interessante sapere, non rivangare quelle robe lì, ma conoscere il punto di vista del medico sociale della squadra, soprattutto quella sera lì in albergo a Sappada. 

«Sì, ma lì il problema sarebbe… Quello sarebbe interessante e sarebbe molto bello. Però, sai, chi è uscito dal ciclismo ne è uscito con le ossa rotte per certi versi perché… io credo che faccio fatica anch’io, cerco anch’io tante cose di dimenticarle, oppure di passarci sopra, oppure di dire, vabbè, stata così. E me ne dispiace però non potevo fare nulla. Hai capito? Oppure si poteva fare molto ma magari saresti rimasto un paladino là in mezzo a…». 

- Certo non si può andare in guerra col fucile ad acqua, o a tappi… 

«E alla fine però credo che devo ringraziare anche quel periodo là perché se sono qua ancora è perché ho passato anche quello là. Come ho detto prima, a uno proprio, a un giornalista gli ho detto: scusa [impreca in bresciano, nda], se io avessi potuto staccare, forse avrei anche staccato, ma tu oggi non saresti qua a intervistare Martinelli ma saresti qua a intervistare un ex direttore sportivo». 

- Che cosa ti rimane invece di bello di quei ricordi? Dico Carrera ma non per forza Carrera, anche più in generale: di quel ciclismo lì? 

«Eri un pochino più sereno. Andavi alle corse, partivi da casa, prendevi l’ammiraglia... Invece adesso hai... Devi fare il planning, anche addirittura delle macchine: dove ce le hai... Una volta avevamo cinque macchine, le avevano in mano cinque direttori sportivi e andavi sempre in macchina. Ti dico: adesso ho un planning di venti macchine. E tante volte, dall’ammiraglia numero uno all’ammiraglia numero 17, devo pensare dov’è, per farle incastrare. Perciò spesso e volentieri guardo più quelle cose lì che guardare veramente il corridore, se vado alle corse con un gregario in più o un gregario in meno. Questo è quello che mi manca in questo momento. Quello magari di pensare come muovere il corridore in corsa. Invece devo pensare a quante macchine devo portare per far tornare indietro tuto quel materiale». 

- Dammi una chiusura, Martino: perché trent’anni dopo siamo qua a un tavolino di un bar a parlare di Sappada? 

«Perché il ciclismo è fatto un po’ anche di questo. E vive di ricordi. E questo, nonostante che sia non tutto un bel ricordo, ma è sicuramente una pagina di ciclismo importante». 

- Quindi mi hai detto tradimento non è stato. 

«Per me è stato non un tradimento sicuramente vero però è stato un corridore intelligente che ha messo in difficoltà un altro che s’è fatto infinocchiare». 

- La tua scelta di campo: Stephen o Roberto? 

«Mah, il cuore mi direbbe Roberto. Però, siccome sono un tecnico, dico Roche». 

CHRISTIAN GIORDANO

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