Mario Chiesa, l'Anti-divo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

Niente paura: questo è quello buono. È solo omonimo del «mariuolo isolato» (copyright craxiano), alias «L’uomo del 10%», assurto agli oneri (con la e) delle cronache come il primo arrestato di Mani Pulite, l’inchiesta poi sfociata in Tangentopoli.
Il nostro Mario Chiesa, quello buono, è di tutt’altra pasta.
Bresciano DOC (17 novembre 1966), anzi rezzatese trapiantato a Polpenazze del Garda, è stato per un decennio (1988-97), la sua intera carriera nei pro’, fidatissimo gregario alla Carrera.
Così leale che, pur di rispettare lo sponsor fornitore, gli occhiali da sole se li portava in testa, perché indossarli sugli occhi, allora come oggi, gli provoca(va) emicrania.
Il mal di crapa invece lo faceva venire lui a chiunque cercasse di insidiarne i capitani, che fossero via via Visentini, Bontempi, Mächler, il Roche cavallo (bolso) di ritorno, Chiappucci o, infine, Pantani.
A curriculum un countdown di partecipazioni nelle tre maggiori corse a tappe (sei Giri, cinque Tour e quattro Vuelta). E nel palmarès due vittorie da pro’ – la crono-coppie svizzera di Bad Zurzach ’88 con il local boy Stefan Mutter e il Matteotti in solitaria nel ’90 (battendo Franco Ballerini e Stefano Giuliani) – e tre da dilettante: il GP San Rocco-Isorella ’84, la Vicenza-Bionde ’85, la sesta e ultima tappa (da Saint-Christophe ad Aosta) al Giro della Valle d’Aosta ’87.
Cresciuto nel vivaio di Davide Boifava, l’ha avuto come chioccia anche da terzo diesse (dietro Serge Parsani e Pietro Turchetti) nel 1998 alla Asics-CGA, la squadra in cui l’anno precedente Chiesa aveva chiuso da corridore prima di specializzarsi nella sua seconda, definitiva passione: la logistica. 
Giancarlo Ferretti, che mai era riuscito a prenderlo da corridore (contribuendo così a fargli lievitare il rinnovo in Carrera), l’ha tenuto con sé tre anni alla Fassa Bortolo. 
Dopo i quattro in ammiraglia con Roberto Amadio alla Liquigas del patron Paolo Zani (e Giro 2007 vinto da Danilo Di Luca), dal 2010 al 2014 è stato nel ProTour con i russi della Katusha, poi ha collaborato con la IAM Cycling (due anni), la neonata Bahrain-Merida capitanata da Vincenzo Nibali e infine la startup Israel Cycling Academy.
Dopo la chiamata alla Bahrain, è stato eletto segretario della Adispro, l’associazione italiana dei direttori sportivi di ciclismo\ professionistico. 
Meglio chiarirlo subito: a questo Mario Chiesa è impossibile non affezionarsi, già a prima vista. 
Vado a trovarlo a casa a Polpenazze (questi ex corridori bresciani hanno un debole per la vista-lago: come dargli torto?) in un raro momento in cui è rimasto senza squadra. 
Momento che durerà poco. Farsi sfuggire – magari per due soldi – uno così, con quell’esperienza e lealtà, sarebbe troppo. Anche per il nostro amatissimo e masochistico ciclismo.


Polpenazze del Garda (Brescia), martedì 13 febbraio 2018


- Allora, Mario Chiesa, sono quarantuno gli anni che hai passato – anzi: stai passando – nel ciclismo. Ho fatto bene i conti?

«Giusto. Quarantun anni, sì».

- Per chi non ti ha visto correre, che corridore sei stato?

«Un buon gregario, discreto gregario, che ha dato tutto per i capitani. Avrei potuto fare qualcosina di più, di risultati. Ma penso che alla fine non sarebbero serviti a cambiare la mia…».

- Non è vero che hai ottenuto solo una vittoria, il Matteotti a Pescara nel ’90. Nel 1988 hai vinto la crono-coppie di Bad Zurzach con lo svizzero Stefan Mutter, giusto?

«Sì». 

- In quali corse avresti potuto ottenere di più, se avessi avuto maggiore libertà d’azione?

«Sai, purtroppo… Non ero un grandissimo scalatore ma quando avevo una buona condizione mi difendevo abbastanza bene. Però ne rimanevano sempre venticinque davanti e allora… In volata non ero un mostro. Su percorsi un po’ ondulati, ho vinto un Matteotti – e il Matteotti sappiamo che percorso è…».

- L’hanno vinto dei bei corridori.

«Sì, quello sì. In quegli anni lì. Adesso, è andato un po’ a perdersi, purtroppo. Perché questo nuovo World Tour ha “ammazzato” parecchi organizzatori, e anche il Trofeo Matteotti».

- Hai parlato di capitani, e tu ne hai avuti fior di campioni. Ti butto lì qualche nome: Roberto Visentini, Guido Bontempi, Stephen Roche, Claudio Chiappucci, Marco Pantani. Per quali ti sei speso più volentieri, al di là dei risultati?

«No, più che “speso più volentieri”, tutti miei grandi amici. Però quello con cui ho passato assieme più anni è Chiappucci. Perché sono “passato” nell’88 e ho smesso nel ’97, e tutti i dieci anni li ho fatti con lui. Bontempi è stato, diciamo, un mio “professore”, quando ho iniziato». [sorride, nda]

- Un po’ burbero come “professore”...

«Sì, all’inizio era molto… Con me, soprattutto. Sai, con i giovani c’era non dico un bullismo ma…».

- …un po’ di nonnismo sì. Me l’hanno ammesso loro stessi: c’era, c’era… [sorridiamo, nda] 

«E lì ti trovavi un po’… Visto che ti trovavi con dei campioni... Io però ho sempre portato grande rispetto».

- Tu com’eri? Non eri uno che alzava la cresta, quindi non avrai avuto problemi come invece può averne avuti, magari, lo stesso Claudio, specie con Guidone.

«No, io con Guido anzi… Magari i primi anni, anche con [Bruno] Leali, c’era un po’… Così, eri giovane, magari volevano forse un po’ farsi “intendere”. Però, alla fine, io stavo sempre al mio posto, facevo il mio lavoro. Penso di averlo fatto bene e onestamente. E alla fine mi hanno sempre… E tuttora mi apprezzano».

- Della Carrera che ricordi hai? Tu hai corso per tutta la carriera nelle squadre di Davide Boifava. E con lui hai anche iniziato quella post-corridore, da diesse.

«Sì, prima avevo anche fatto tre anni nel vivaio. E dopo, tre anni da diesse. Ho fatto sedici anni col gruppo-Boifava e penso d’averci passato gli anni più belli. È normale: più belli perché, alla fine, son sempre stato in un’unica squadra. Un po’ perché, come ti dicevo prima, era una bella famiglia e poi perché era una grossa squadra. Quando andavi alle corse eri sempre il benvenuto da tutti, anche se non eri un grande corridore».

- Cioè: avevi – sempre – la percezione di far parte di una grande squadra?

«Sì».

- In che cosa avevi questa percezione?

«Mah, la gente... Tu vai in Belgio, vai in Francia, anche in Italia, ci son talmente tanti appassionati che dici: Come fanno a conoscermi, qua? Non ho ancora vinto niente. Sei al primo o secondo anno, non hai i risultati, arrivi là con le cartoline: “Mario Chiesa, mi fai un autografo?”».

- Per il fatto stesso di essere in Carrera, per loro eri già un signor corridore…

«Precisamente, sì. Ai tempi lì c’erano delle scelte, dei punteggi, delle selezioni per poter “passare” [pro’] in determinate squadre. In più [la Carrera] era una delle squadre più forti al mondo e già essere lì… Magari noi eravamo un po’ avvantaggiati, perché avevamo questo vivaio. qua a Brescia. Magari sono stato un po’ avvantaggiato, però penso di non aver rubato niente a nessuno».

- Mi racconti un po’ di questo “clan” (in senso buono) dei bresciani? La Carrera era un ambiente familiare anche perché in gran parte – il nucleo di corridori ma anche lo staff, massaggiatori, meccanici, lo stesso diesse Boifava – eravate tutti bresciani. Quindi non dico che fra voi parlavate tutti in dialetto, però un certo tipo di affinità c’era, no?

«Sì, poi il gruppo… Quello che veramente manca oggi al ciclismo è questo affiatamento, e che c’era anche in altre squadre italiane. Perché non c’era solo alla Carrera. E non c’era solamente in Italia. C’era anche all’estero. Erano tutte strutture “localizzate”. Tipo la Carrera, che qua a Brescia prendeva quasi tutto il personale qui in zona. Ex corridori, tutta gente che conosceva l’ambiente. Tutta gente con cui bene o male ci si conosceva. E si instaurava veramente un rapporto di amicizia, di confidenza. Ma se qualcuno sbagliava veniva anche richiamato. Per migliorare. Sempre per migliorare».

- Veniva richiamato dai “vecchi”, quelli che erano lì da più anni?

«Sì, però… Più che altro i “vecchi” magari ti dicevano il contrario… E dopo, alla fine, invece vedevano che quando bucavano ti fermavi, andavi a prender l’acqua, cioè facevi veramente un lavoro… C’era da tirare per la volata per Bontempi, tiravi per Visentini o per Mächler o per Zimmermann. Eri sempre disponibile. E da lì, dopo, si è iniziato a instaurare…

- ...un certo rapporto. Ti sei guadagnato in qualche modo il loro rispetto?

«Il rispetto».

- In tutte quelle Carrera c’erano un po’ queste due anime: il nucleo dei bresciani (vecchi e nuovi) e il blocco straniero, magari a forte connotazione svizzera. Il famoso “un corridore per nazione” che i Tacchella volevano per diffondere all’estero il marchio Carrera. Chi non si uniformava, mettiamola così, doveva uniformarsi? O meglio: “integrarsi”, che forse è il termine più appropriato.

«No. Io non penso. Io non direi uniformarsi, io direi “utilizzare la stessa mentalità”. Prendi il caso Quick-Step. I “Quick-Step” hanno una mentalità che, secondo me, è una delle migliori che ci sono. Loro, van via due corridori, integrano due corridori ma più o meno li inseriscono con la più o meno stessa mentalità, e si vede dai risultati. Ci sono degli anni che magari si vince un po’ meno, ma la mentalità è questa qua. Cosa che una volta era così».

- Quindi ha fatto bene Elia Viviani a calarsi in quel tipo di realtà?

«Secondo me, sì. Perché là [al Team Sky, nda], magari si trovava ad avere più difficoltà, o magari a fare la corsa dove portavano anche qualche scalatore o qualcuno che faceva classifica. Invece lì [alla QuickStep] quando vanno alle corse…

- ...ci vanno per vincere. Nel tuo caso invece che cosa ti ha convinto a non cambiare mai? Non hai mai avuto la tentazione di dire: sì, okay, la Carrera è una grande squadra però magari provo a… Per esempio, ho letto che piacevi a Giancarlo Ferretti. Non ti è mai venuta la tentazione di andare da lui?

«Ferretti nel ’90 provò a prendermi. E diciamo che è stata un po’ anche la mia fortuna, che mi ha fatto rialzare un po’ il mio stipendio, perché magari, forse, neanche sarebbe stato…».

- ...confermato? La concorrenza quindi fa bene…

«La concorrenza – ogni tanto – fa bene. A lui piaceva la gente che attaccava, che non mollava mai. E m’ha fatto veramente piacere che si sia interessato a me. Da lì ho capito che non ero proprio l’ultima ruota del carro. E dopo, sai, con Boifava, Martinelli, Quintarelli, Chiappucci, la squadra era una signora squadra. E tante volte il nome era abbastanza per non farti cambiare. In più ero a quattro-cinque chilometri da casa. Ero anche un po’ un privilegiato, sotto questo aspetto, l’aspetto logistico: c’era da andare in aeroporto, mi si rompe la bici, ero subito qua. Tante cose… E poi, come ripeto, era una famiglia. Era veramente una famiglia».

- Tu sei arrivato nell’88, l’anno dopo quella vicenda di cui avrai sentito parlare. Hai corso con Visentini. E poi con Roche quando, nel 1992-1993, è tornato in Carrera. Mi parli del tuo rapporto con Stephen e con Roberto, al di là delle corse, come corridori e come persone?

«Due corridori che avevano più o meno caratteristiche simili: forti a cronometro, forti in salita. L’unica differenza è che Roche era un po’ più… potremmo chiamarlo “egoista”? Era molto calcolatore, tutto quello che faceva…».

- …era per arrivare dove voleva? In senso buono, anche. Per esempio, sapeva leggere le corse come pochi.

«Sì, sì. Quello, sicuramente. Ti faccio un esempio. Chiappucci era in maglia ai Paesi Baschi [nel 1991, nda], la prima salita [Roche] ci ha attaccato subito. Cioè: con la squadra improvvisava alcune cose… Ci ha fatto su un casino: c’è rimasto su Chiappucci con venti corridori, Chiappucci ha rischiato di perdere il Paesi Baschi. Noi abbiam tirato come scemi e non siamo riusciti a rientrare. Roche era anche questo… Con Visentini io ho fatto un anno. Però ci siamo visti veramente poco e lui era quasi a fine carriera. Roche con noi aveva iniziato a vincere nell’87. Però, fino al ’93, che è rimasto con noi, non ha fatto dei grandi risultati».

- Roche è diventato ed è rimasto amico di Chiappucci. E lo stesso Chiappucci ammette che Roche, tornato alla Carrera, lo ha molto aiutato in quella fase della carriera.

«Io questo non lo so. Se stai parlando di quando correvano insieme alla Carrera, sì, io penso che l’ha aiutato, magari con qualche consiglio. Però loro sono molto amici. E infatti quando Roche è ritornato e al Tour che Claudio ha fatto secondo, c’era lì anche Roche, che è andato fortissimo, ha vinto anche una tappa [la Saint-Étienne-La Bourboule, nel 1992, nda]. Chiappucci, lì al Sestriere, Roche può averlo consigliato e avergli dato dei buoni input. Anche per stimolarlo, sotto l’aspetto psicologico e tutto. Io son stato in camera diverse volte con Stephen, lui appena finiva la corsa si metteva in camera, chiudeva tutto, dormiva. Non voleva mai essere il primo a farsi fare i massaggi, perché diceva che prima doveva recuperare e dopo voleva il massaggio. Anche perché il massaggiatore, all’inizio dei massaggi, aveva appena finito il viaggio e magari non aveva ancora la mano…».

- …calda.

«Precisamente. Roche lo vedevi che era sempre uno molto maniacale, soprattutto quando preparava degli appuntamenti per cui era “mentalizzato”. Guardava tutte queste cose qua. E mi diceva sempre: “Mario, te, finita la corsa, è più importante dormire subito una mezzora che tutta la notte. Il recupero che hai in una mezzora dopo la corsa è come dormire tutta notte”».

- E tu ce la facevi?

«Sì. Ti mettevi lì, tranquillo. Magari andavi in camera, ti mettevi là, cercavi di dormire. Poi magari te eri il primo o il secondo: “Mariooo, vieni” [ride, nda] Son delle cose che ti rimangono impresse. Rolf Sørensen, anche lui, appena arrivava chiudeva tutto. I massaggi li faceva, eh, ma il massaggiatore, per farglieli, doveva fare il cieco di turno. Oggi, purtroppo, vai in camera dei corridori, son là che si fan fare i massaggi e son lì col cellulare. Io tante volte glielo prendo il cellulare e gli dico: Dai, ragazzi, almeno questa mezz’oretta che vi fate fare i massaggi, state tranquilli».

- Tu da diesse hai provato, e stai provando, a mettere in pratica quei consigli?

«Io a tanti glielo dico: “Vi dico solamente un esempio di Roche o di Sørensen, di quello che facevano. E son campioni che hanno vinto quello che hanno vinto. E allora, soprattutto oggi come oggi, che questo recupero è importante, soprattutto nelle corse a tappe: cercate di dedicarvi quell’oretta tranquilli, magari anche per parlare con il massaggiatore”. Questi qui addirittura neanche parlavano o dormivano. Si mettevano lì, muti. Tu entravi, “scusate”, e uscivi. Però alla fine avevano ragione [Roche e Sørensen], alla fine non sbagliavano». 

- Caratterialmente, legavi di più con Roche o con Visentini?

«Mah, io ho legato con tutti e due. Quando correvo Visentini era il mio idolo. Sai, Visentini, di Brescia, ha vinto il Giro d’Italia, una volta secondo, era un bel personaggio qui nella provincia di Brescia. Però quando sono “passato” io, nell’88, iniziava a declinare. Roche l’ho trovato, nel ’92, che era quasi a fine carriera anche lui, però aveva ancora qualcosa da dare. E infatti abbiamo visto anche al Tour che ha vinto una tappa. Visentini, dal mio punto di vista, era un bonaccione, uno che... [sorride, nda] ...che se c’era qualcosa che non andava, ti mandava anche a ’fanculo. Cioè, non è che stava lì a contare fino a dieci come invece faccio io… Roche invece magari…».

- …era un po’ più politico?

«Un po’ più politico: bravissimo. Più diplomatico».

- Anche in corsa. Bravissimo a tessere alleanze…

«Precisamente. Infatti, lui e Visentini, quando le cose non andavano, andavano a destra e a sinistra a dar parole. E alla fine magari diventi anche un po’ non dico antipatico, perché alla fine Visentini non è stato antipatico a nessun corridore, lo ricordano tutti come una brava, una buona persona, che col suo carattere ha buttato via dei Giri d’Italia. Però…».

- Li ha buttati via lui per limiti caratteriali suoi? O magari gli han fatto pagare quel suo essere troppo diretto, troppo brusco, col patron Torriani, con gli sceriffi del gruppo? Anche se con Saronni, invece, è sempre stato amico, no?

«Sì, sì…».

- Sai, Visentini se vedeva magari qualche spinta, qualcuno in scia delle moto o aggrappato all’antenna, non è che se le risparmiava, anzi…

«Infatti con Moser, vedi il caso del Giro d’Italia [’84]: lui ogni tanto lo racconta. E dice che veramente ci sono state scorrettezze e ingiustizie. Però purtroppo Moser era Moser, ai tempi. Eh eh…». [ridacchia, nda]

- Perché il Visenta correva sempre in decima posizione a destra o a sinistra e mai in pancia al gruppo?

«Aveva paura, non riusciva a stare in mezzo al gruppo. Infatti vedevi che era sempre là, tanta aria... E anche questo è un grosso limite, perché inizi a prendere aria e vento…».

- Orlando Maini dice: Gran cronoman, Roberto… Eh, ci credo: per lui ogni corsa era una cronometro…

«Sì, è vero. E ti trovi, ancora prima di prendere una salita, che ti sei già fatto magari quindici chilometri al vento».

- Altro aspetto: cadeva spesso. Il Giro dell’86 lo vinse iniziando con lo scafoide destro rotto. L’anno dopo il Ghiro non lo finì, cadde alla penultima tappa salendo verso Pila: altra frattura, sempre allo scafoide destro.

«Sì».

- Infatti tutti mi han detto: Eh, però, ne aveva sempre una. Il che vuol dire che, come corridore, aveva quel tipo di limiti lì, no? Non può essere solo un caso, o sempre sfortuna, se…

«Sì, sai, il problema è che era uno che non era a suo agio in mezzo al gruppo, no? E tante volte, quando ti metti là che c’è da affrontare, faccio per dire, un Poggio, una Cipressa e vieni in mezzo che non sei proprio sicuro, freno o non freno? E succedono queste cose qua, quando sei vicino…».

- Però quando lui aveva la giornata, aveva la giornata. Vero?

«Quando aveva la giornata, non ce n’era per nessuno. E io penso che sia stato uno… Uno dei migliori».

- Una tua caratteristica: perché tenevi gli occhiali sopra la testa?

«Mia moglie ogni tanto mi dice: Mario, ma metti su gli occhiali. Io metto su gli occhiali, dopo, come ti posso dire?, dopo una mezz’oretta mi fa mal la testa. Allora, mi mettevo gli occhiali. Il problema, allora, era che uno sponsor ci dava... Come in tutte le cose, che sia cinque, che sia dieci, tutti gli sponsor che avevamo facevano parte dei nostri stipendi. Era giusto conoscere anche queste cose qua. Io tuttora non porto occhiali. Mai portato occhiali da sole, mi danno fastidio. Infatti mia moglie ogni tanto mi dice: Ma metti su... Con tutto quel sole, non ti dà fastidio? Sì, mi dà fastidio però…».

- Però ti dà più fastidio portarli.

«Eh sì».

- Mi parli anche degli altri personaggi che hanno fatto parte di quel mondo Carrera? Penso a Sandro Quintarelli, allo stesso Boifava. Gente di cui magari mi puoi raccontare cose che sai solo tu, perché ci hai vissuto assieme da corridore e poi anche in ammiraglia.

«Allora: Boifava, i primi due anni che sono stato professionista, solo i primi due anni, era abbastanza presente. Dopo, quando la squadra ha iniziato a diventare veramente grande, curava di più, diciamo, come manager, visto che è arrivato anche Martinelli. Quintarelli c’era già, era più… Era un ciclismo un po’ diverso da [quello di] adesso. Alle corse c’era undirettore sportivo. Adesso, nei grandi giri, te ne trovi tre, di direttori sportivi, se non quattro col preparatore».

- E quindi, anche in questo senso, la Carrera era all’avanguardia. Perché ai tempi c’era la famosa struttura a piramide di cui mi parlavi prima. C’era il Ferretti della situazione, ma penso anche a Bruno Reverberi, insomma queste figure qua. Invece nel vostro caso avevate Beppe Martinelli, che è arrivato nell’88, Quintarelli che era reduce dagli anni precedenti…

«Poi c’era [Pietro] Turchetti…».

- Ecco. Quindi voi siete stati tra i primi ad avere più direttori sportivi.

«Sì, ma noi avevamo più direttori sportivi perché, avendo 20-22 corridori, eri “obbligato” a fare sempre la doppia attività. E, automaticamente, eri “obbligato” ad avere più direttori sportivi. Il calendario era veramente tosto anche per noi, eh».

- Tu, dopo, come direttore sportivo, sei stato anche alla IAM, sei stato al team Bahrain-Merida. Quindi puoi anche farmi un confronto tra la tua epoca di corridore e quella attuale. Sei stato corridore di grandi squadre allora e diesse di grandi multinazionali oggi. Perché è di multinazionali che parliamo, i grandi team di oggi questo sono. Che cosa ti senti di dire in proposito, cosa hai visto, cosa cambieresti? E che cosa invece manterresti?

«Sì. Allora, io ho iniziato nel ’98 a fare il diesse. E, diciamo, era ancora un’epoca abbastanza “abbordabile”, come sponsorizzazioni e tutto. Una cosa abbastanza “familiare”. Mentre adesso, col discorso World Tour, ha cambiato completamente tutto il sistema. Non c’è più il personale, diciamo, “localizzato”. Ci sono italiani, polacchi, belgi... C’è un insieme di persone con mentalità diverse, soldi “diversi”. Ci sono strutture che hanno veramente tantissimi soldi. E che hanno la possibilità di avere sei-sette-otto direttori sportivi, quattro preparatori – cosa che anche l’UCI adesso ci obbliga [ad avere]... C’è stato veramente un grosso cambiamento. Una volta, ti allenavi un po’ a sensazione. Sì, avevi qualcuno che ti preparava un po’ col cardio-frequenzimetro, facevi i tuoi allenamenti, le tue tabelle di allenamento. Adesso però è tutto con l’srm, con tutti questi misuratori di potenza. E sono quasi, diciamo, quasi “telecomandati”, i ragazzi. Cioè: “Oggi devi far questo, mandami il file. Ah no, aspetta: cambia l’allenamento perché vedo che sei un po’ affaticato… Fai così”. Cosa che prima... Andavi molto a sensazione».

- E quindi così si uccide un po’ la fantasia nel ciclismo? Mi stai dicendo – anche – questo?

«Se uno ha la personalità può andare oltre l’srm, le indicazioni dei preparatori... Tu guarda Nibali. Io penso che Nibali sia ancora uno di quei corridori che ancora ti inventa qualcosa. Io penso che lui è ancora qualcuno che ti può cambiare una corsa all’ultimo momento, con il suo estro, la sua classe… Le sue doti, e anche il suo talento. Perché, alla fine, se non hai certe doti non ti puoi neanche permettere di fare questo. Io l’ho visto anche in Fassa Bortolo, è “passato” con noi nel 2005, io l’ho visto, gli raccontavi delle cose... Guarda, Vincenzo, c’è da fare così e così. Aspetta, facciamo una buona selezione e quando c’è una buona selezione, prova ad attaccare. Così... Radiocorsa, appena puntata la salita: “...attacco di Nibali!”. [ride, nda] “Ma se ti ho detto di aspettare, cavolo…”. Cioè: lui era uno che all’inizio e in alcune occasioni anche tuttora... Lui è così. lui quello che vuole fare, gli piace... Prima, magari, sentiva solamente... Ragionava solo con le gambe. Era uno con la gamba buona, adesso li stacco tutti, gli faccio male. È bello. Era bella questa sua mentalità, il suo modo... Con gli anni è cambiato. E ha fatto tutto quello che sta facendo tuttora».

- Pensi però che se lo possa permettere appunto perché è Nibali? Per esempio, un corridore come Mario Chiesa oggi farebbe fatica? O troverebbe comunque il suo spazio anche in questo ciclismo?

«Mario Chiesa penso che farebbe la stessa cosa che ha fatto negli anni Novanta, lavorare, fare il gregario, portare borracce, fare il lavoro che fanno tanti gregari. Il problema è che la dote del campione, e non ce ne sono tanti... Bisogna cercare di essere umili, e dire: Okay, voglio fare il professionista, voglio farlo per parecchi anni, so qual è il mio limite, è giusto che io faccia al 100 per cento quello che so fare bene. Come in tutti i campi, in tutti i lavori. Ci sono dei lavori che te dici: io faccio questo qua, perché sono più portato… Alla logistica. Io son più portato per andare alle corse. Io sono più portato per parlare col corridore. Io sono più portato… Io penso che quando tu hai un gruppo di direttori sportivi, o massaggiatori, meccanici, che tu riesci ad accontentarli e trovi il posto giusto, qui fai la differenza».

- Prima parlavi di queste grandi squadre di oggi. Tu sei stato in una grande squadra dell’epoca e, in un’altra veste, in grandi squadre di oggi. Mi parli della differenza fra la forbice che c'era allora tra le grandi e le medio-piccole e quella che invece c’è oggi? Hai appena detto: un Mario Chiesa farebbe oggi quello che ha fatto negli anni Novanta. Ma il problema – se di problema si può parlare – è che nel ciclismo di oggi a fare i Mario Chiesa sono dei campioni che potrebbero essere capitani ovunque e invece fanno i gregari nei Team Sky della situazione. Questo intendevo...

«Sì, ma posso? Ho detto così perché so che io non sarei mai potuto diventare un grande campione. In un arrivo, se mi andava bene, vincevo una gara in un anno. Però, magari, in squadre come potrebbe essere la Bahrain con Nibali, la Sky con Froome o la Movistar, andresti a creare uno scompenso, un “disguido”, se tu vuoi far la tua corsa. Ci son delle regole da rispettare, il capitano è unico. Se c’è Nibali, è normale che Mario lavora per Nibali. Perché se a dieci a chilometri dall’arrivo gli scatto in faccia e Nibali se si stacca o buca… Io mi ricordo ancora, con Chiappucci nella tappa di Fiuggi: ero stato l’unico vicino lui, a otto-dieci chilometri all’arrivo, gli ho dato la bicicletta. Cosa che oggi tanti neanche arrivano a capirlo, con tutto quello che vedono, con direttori sportivi con l’esperienza che hanno sulle ammiraglie. Invece di dargli la bicicletta lo lasciano là a cinque chilometri dall’arrivo, sennò… Se non è un altro di un’altra squadra, suo amico1, che gli dà la bicicletta [in realtà la ruota, nda]... Cioè: io, a venti dall’arrivo, ero l’ombra. Bucava, si fermava, cadeva... Gli davi tutto. C’era da tirare, scattava qualcuno, c’era da chiudere, dai-dai… Io chiudevo. Ma questo anche se Claudio [Chiappucci] non me lo diceva. Ti veniva spontaneo. Cioè: eri più naturale, più… E tante volte c’era Bontempi: Mario, basta tirare, cosa vai a tirare?! Ci sono anche le altre squadre... Sì – ho detto – ma se questi qua mi vanno a dieci minuti, è meglio che ci mettiamo lì, a un passo, come fanno adesso, per non fargli prendere tanto… Ma era già magari nella mia mentalità di dire: il mio ruolo è questo qua e voglio farlo al meglio».

- Nel caso invece di un capitano non particolarmente riconoscente – non facciamo nomi, ma uno che magari fatica a dividere i premi con i gregari, no? – che cosa cambia nella testa del gregario? Se qualcosa cambia… Perché, tu mi insegni, ci sono anche corse importanti perse per un caffè non pagato e così magari l’anno dopo ti han corso contro… O perché magari non sei stato generoso con chi invece ti ha dato tanto.

«Allora, io di questi casi qua, nelle squadre dove son stato io… Forse c’era quello un po’ più brillante, quello meno brillante, no? Una volta io, una volta te. Però il fare dispetti, se succede, sicuramente invece di dare il centodieci per cento, gliene dai il cento, gliene dai il novanta… Come è successo magari, nel caso di Chiappucci, l’anno che dopo è andato via il gruppo... E che lui magari ha anche perso il Tour, dice qualcuno, anche per una… non una gelosia, un’antipatia... Però… Si sarebbe potuto fare di più…».

- Ecco: diciamo così.

«Si sarebbe potuto fare di più per salvare… Di più... per vincere un Tour de France».

- Ecco, in questo, per esempio, Roche era maestro.

«Sì, sì…».

- Tu hai conosciuto bene Roberto e siete amici. Secondo te perché ha la nausea dell’ambiente? Non della bici, perché in bici ci va ancora, né del ciclismo, perché alcuni ex ancora li frequenta. Che cos’è allora che lo ha allontanato?

«Noi ci vediamo spesso. Ha preso una bicicletta qui da un mio amico, una mountain bike. Però lui è uno che anche quando si allenava era quasi sempre da solo. Non diciamo un solitario, però era quasi sempre da solo. Partiva prima perché lui a un certo orario voleva essere a casa a mangiare».

- Quindi è vero che lui a mezzogiorno e mezzo voleva «avere i piedi sotto il tavolo»?

«Sì, sì… [sorride, nda] Infatti noi magari uscivamo alle otto e mezza, alle nove. E lui alle nove magari aveva già fatto sessanta chilometri. Per farti un esempio...».

- Come punto di ritrovo vi davate appuntamento all’edicola di Rino Boifava alla Fossa2?

«All’inizio era così. Dopo, negli anni, dall’88, quando son “passato” io, ci trovavamo sempre a Brescia perché c’era Bontempi, c’era Rosola, c’era un gruppo…».

- Ti allenavi con loro anche prima di passare pro’?

«Qualche volta sì, da dilettante sì. Da dilettante, quando eravamo lì. Infatti era successo anche un “fattaccio”, e mi hanno fatto un po’ il mazzo. Siamo andati a fare una salita qua, e siamo rimasti io e Bordonali e dopo, abbiamo tirato io e Bordonali. Ho tirato a tutta-tutta e loro si son staccati». 

- E quindi è una balla che è stato per “Sappada” che si è allontanato dall’ambiente? O non è stato per “Sappada”...

«Nooo. No…».

- Probabilmente è perché a lui non piace il baraccone che c’è intorno, eh?

«Precisamente. Lui è sempre stato uno abbastanza solitario».

- Ma non ti danno fastidio tutte quelle balle? «Troppo bello», «arriva alle corse in Ferrari»…

«Noi, tante volte, quando andiamo a cena…».

- ...su queste cose vi fate due risate?

«Sì…».

- Perché lui la vita d’atleta la faceva eccome. E ancora oggi dice: Certi miei colleghi potevano permettersi di venirci in elicottero…

«Dopo il Giro d’Italia sicuramente lui tirava un po’ il freno a mano. Non era magari così “professionista” come altri, come Guido Bontempi. Bontempi “andava” dall’inizio alla fine. Lui era più… Lui, al Tour, preferiva magari andar più tranquillo…».

- Disse davvero quella frase: «Io a luglio me ne sto con le balle a mollo», a seconda delle versioni, al mare o al lago?

«Probabilmente è “al lago” [ride, nda], però… Sai, ci sono corridori a cui il caldo non piace, o che [col caldo] non rendono come dovrebbero rendere. E allora preferiscono prepararsi e dicono: Io vado lì meglio per il Giro d’Italia e mi preparo per il Giro. E al Tour, son sicuro, anche se mi preparo, per il caldo, una giornata di crisi o quello che è, io perdo tutto il mio lavoro. Preferisco andare qua. Poi allora erano i primi anni che si andava al Tour. Perché si può dire che la prima è stata la Inoxpran, poi la Del Tongo».

- Eravate una delle poche squadre italiana ad andare.

«Decisamente. E poi la Bianchi. Erano due le squadre italiane che andavano. E in più pagavano. Mi ricordo bene. Boifava una volta mi ha raccontato che loro, per andare, dovevano dare cento milioni di lire. Perché così almeno si pagavano gli hotel, si pagavano tutte queste cose qua. Invece adesso loro pagano, ti danno un rimborso. Nel ciclismo, rispetto al calcio, quello che un po’ manca a queste squadre qua, per potere un momentino tirare un po’ il fiato, sono i diritti televisivi. L’unica cosa. Però l’organizzatore dice: Come? Organizzo io, cerco io gli sponsor, faccio tutto io, faccio io i contratti e a voi do… Si potrebbe mediare un po’. Però capisco le due parti. Decisamente».

- Prima mi dicevi che una volta che sei andato al Tour, poi non sei più lo stesso corridore. Perché a te, da corridore, il Tour ha cambiato la vita?

«Sono degli sforzi disumani che magari in altre competizioni non fai. Forse il periodo stesso, il caldo e tutto. Io ho notato che quando ho fatto il Giro di Francia, io, dal mio punto di vista, come resistenza, forse anche come testa, è scattato un qualcosa. Ero più... Avevo più fiducia in me stesso. Vai al Tour e ci son tutti i migliori al mondo, lì è la corsa che in assoluto… Anche al Giro d’Italia, che per me è la corsa più bella, anche se manca qualche protagonista. Come percorso, come tutto, il Giro d’Italia…».

- Anche come imprevedibilità, ci sono insidie in ogni tappa, a ogni angolo…

«Precisamente. L’unica “sfortuna” del Giro d’Italia è il periodo della stagione. Se il periodo fosse stato a luglio per il Giro e a maggio il Tour sarebbe cambiato tutto, saremmo noi i “migliori”. Perché il Tour de France porta la gente che è in vacanza, porta più spettacolo e tutto. Perché la gente è già magari riunita sui bordi [delle strade] al mare, o in montagna. E le scuole sono terminate. Tutto un insieme di cose. E questo, secondo me, ha influenzato molto».

- Aiuta...

«Sì, aiuta. In più guardo la televisione in Francia, e in Italia è completamente diversa. Anche se non ci lamentiamo, ché la televisione fa vedere parecchio di ciclismo. Però io vedo... Mia moglie [Laure Villacampa] è francese, abbiamo la televisione francese, io al novanta per cento, quando lo seguo, lo seguo alla televisione francese. E vedi i programmi. Vedi il prima e vedi il dopo. Già un mese prima, dieci giorni prima, iniziano già a pubblicizzarlo. Cosa che qui in Italia... Passa il Giro d’Italia, c’è l’amico che abita qui vicino: Ma che casino c’è? C’è traffico. Eh, ma passa il Giro d’Italia… Come, passa il Giro d’Italia?!».

- È una cosa culturale, prima ancora che un fatto di date o altro. Perché qua lo vedono come una rottura di scatole invece di capire – e apprezzare – il significato, l’importanza dell’evento.

«Precisamente: dell’evento».

- Là, è davvero la “Festa di luglio”.

«Veramente. Là è una festa che a noi manca, nella nostra mentalità. E, se vedi, là proprio si ferma completamente tutto. Passa il Giro di Francia, e là si fermano completamente. E anche questa è un po’ la differenza. Ma perché tu vedi che tutti gli anni vengono... da Sarkozy a... Tutti personaggi che da noi o non li invitano o proprio del ciclismo gliene frega veramente poco».

- O gliene frega solo quando qualcuno vince, e per farsi vedere vicino.

«Bravissimo. Esattamente. Hai già capito…». [ride, nda]

- In questo libro c’è una cosa che vorresti trovare e che nessuno ha mai raccontato prima? Qualcosa che ti faccia dire: Oh, ci han messo trent’anni però alla fine… Che cosa ti piacerebbe venisse raccontato? Mi rendo conto che è una domanda molto generica.

«Sì, è molto generica. E passando degli anni tante volte fai quasi fatica, perché come è come veder crescere un figlio: Oh, cavolo, com’è diventato grande tuo figlio… Ah sì... Te magari non te ne rendi conto... Vedo una cosa che forse era più bella una volta. Non voglio metterla ancora sul “familiare”, perché sarei ripetitivo, ma era molto più “amichevole”. Adesso i ragazzi son tutti “seri”, sembrano tutti incazzati, tutti… Li vedi, a parte qualcuno... Ma una volta era un modo più... Più scherzoso. Una cosa che mi piacerebbe di più è che sia un po’ più questo… Che poi, alla fine, è uno stress che ti porta per la vittoria, per un risultato. Tutto un insieme di cose».

- Anche per il sistema di vita. Io non so se voi, alla vostra epoca, avreste accettato di vivere come vivono – così controllati – i corridori di oggi… Non mi riferisco solo ai controlli antidoping, ma al dover far sapere sempre – col sistema Adams – dove sei, dove vai.

«Anche per questo dico che, ogni anno che passa, te ne rendi sempre meno conto. Perché inizi a vivere, ogni giorno, il giorno della vita. Il giorno della vita».

- Ma tu ti rendi conto che un Bontempi, per dire un nome-simbolo della tua generazione, oggi dovrebbe compilare l’Adams per far sapere agli ispettori dell’antidoping che alle ore tot si trova nel posto tot. Quasi una sorta di “libertà condizionata”, se mi passi l’espressione…

«Allora, da un certo punto di vista, io penso: è bene. Da un certo punto di vista dico: Cavolo, ma perché siamo gli unici pirla a farlo? O fra i pochi pirla a farlo? Io dico che il ciclismo ha vissuto degli anni veramente tartassato dal doping, ed è stato preso come capro espiatorio. Io continuo a dire, vai nei bar e ti dicono: “Eh, i ciclisti, tutti dopati…”; sì, ci può stare, ma non devi mettere solo il ciclismo. Adesso escono anche queste cose qua dei dilettanti, e io penso sia una cosa…».

- Quando di mezzo ci sono anche i genitori, siamo al punto di non ritorno. Non puoi più dire: c’è il diesse truffaldino o il corridore che, poverino, non ha studiato, non ha arte né parte e cerca l’ultima chance perché altrimenti…

«Hai visto, in Puglia, così successo ieri? Questo qua, un vicepreside gli ha rimproverato il figlio, il papà è andato là e gli ha dato due cazzotti3. Io, se facevo una cosa che mi rimproveravano, andavo a casa e le prendevo anche. Qui vanno a picchiare... Due settimane fa, la professoressa, l’hanno sfregiata4. Vedi che è cambiato tutto, no? Però io dico che nel ciclismo è un buon segno, questo qua. Perché vedi che, sì, lasciamo stare i dilettanti, perché è una cosa che non guardo neanche, come negli amatori. Io, nel ciclismo, considero i professionisti. Dopo, che ci siano i dilettanti che fanno uso di doping e purtroppo non fanno né Adams né controlli, e anche i genitori che istigano al doping, questo non lo puoi seguire. Io però mi metto nei panni del ciclismo professionistico: io penso che quello che il ciclismo ha fatto in questi ultimi dieci anni, non c’è nessun altro sport che l’ha fatto».

- Diciamo dal passaporto biologico in poi.

«E anche “troppo”, sotto certi aspetti. Però, per l’opinione pubblica, son tutti dopati. Ma io dico: “son tutti dei dopati”, con tutti i controlli che fanno, col passaporto, con la reperibilità... Cosa devono fare questi ragazzi? Con tutti i controlli che fanno, oggi come oggi, con la ricerca che c’è al giorno d’oggi? E “son tutti dopati”… Altri sport, dove la reperibilità non c’è, dove non fanno il sangue, dove girano milioni e miliardi di euro... Su alcuni sport non fanno i controlli, è normale che non trovino la gente positiva. Giusto?».

- Tu sei passato professionista nell’88, quindi a cavallo o subito prima che cominciasse il periodo di cui tutti sappiamo. Che sensazioni avevi su quelli che “Lucho” Herrera chiamava i “culoni”? Gente di 75-80 kg che magari staccavi al primo cavalcavia e da un giorno all’altro te li ritrovavi che in salita andavano su come razzi? Che cosa provavi, da corridore, in quei momenti?

«Eh, sinceramente lì puoi capire qualcosa. E puoi dire: cavolo… Son mica il più stupido, io. Sono il più stupido? E, dopo, è stato dato anche un po’ di quello che non si doveva. Decisamente».

- L’avvento degli stregoni.

«Lì, dopo, chi più ce n’era e più… C’era gente, farmacisti, che non c’entrava niente. Lì veramente s’è sputtanato bene il ciclismo. Il problema è che lo facevano anche gli altri sport. Io vedo che ancora qualcuno non ha ancora capito – non ha ancora capito – e spero che questo nuovo ciclismo che stanno facendo... Io dico che il passaporto [biologico] va bene».

- Il ciclismo ti diverte ancora?

«Sì. Mi diverto, anche se vedo questo grosso cambiamento nelle squadre, e potrei dire anche molto professionale da parte dei corridori. I corridori son veramente, oggi come oggi, quasi computerizzati. Devi fare questo, devi far quello, alimentazione molto… Seguono tanto. E magari, da alcune parti della dirigenza, un po’ meno professionale rispetto a qualche anno fa».

- In che cosa?

«Forse anche la mentalità, sai. Direttori di nazionalità diverse, modi diversi, magari con meno stress e “meno”... In tutte le squadre dove sono stato è come se la squadra fosse stata la mia. Io davo il cuore e cercavo di dare tutto al meglio, anche sacrificando la famiglia. E per cercare di dare il cento per cento, anche il centodieci per cento, perché tutto riuscisse al meglio. E tante volte, se succedeva qualcosa, la prima colpa la davo a me stesso. Solo che, tante volte, succede: Ah, è stato lui, è stato quello là, ma quello là è stato… Invece, tante volte, bisogna anche farsi un esame di coscienza: è successo questo qua, ma può essere che sono stato io la causa di questo problema qua».

- Posso fare uno spot per Mario Chiesa l’Antidivo? Il prototipo dell’uomo-squadra ne troverà presto una…

«Ma io… [tira un sospirone, nda]. Spero di sì. In tutte le squadre in cui sono stato penso di aver portato qualcosa. In positivo. E spero di rivedervi presto sulle strade».

CHRISTIAN GIORDANO


NOTE

1. Chiesa si riferisce forse alla decima tappa del Giro d’Italia 2015, la Civitanova Marche-Forlì. A passare la ruota anteriore all'australiano Richie Porte, capitano del Team Sky, che a sette chilometri dall’arrivo aveva forato, fu l'amico e connazionale Simon Clarke della Orica-GreenEDGE. Il regolamento UCI lo vieta e la giuria, «per assistenza non regolamentare tra corridori di team diversi» comminò a Porte una penalizzazione di due minuti. In caso di recidiva, Porte sarebbe stato espulso dalla corsa.

2. Piazza Vittorio Emanuele II a Salò. Per i salodiani semplicemente “la Fossa”. Nel 1980 vi aprì un’edicola Rino Boifava, fratello maggiore di Davide e anch’egli ex corridore e direttore sportivo.

3. Il 10 febbraio 2018 Pasquale Diana, vicepreside della scuola secondaria di I grado “L. Murialdo” di Foggia, fu aggredito con pugni alla testa e all'addome dal padre dell'alunno che il giorno prima era stato rimproverato. Trenta giorni di prognosi per lesioni al setto nasale.

4. Il 1º febbraio 2018 Rosario S., 17enne di Acerra, con un coltello serramanico sfregiò al volto la 57enne Franca Di Blasio, insegnante d'italiano nella quarta A dell'istituto Bachelet-Majorana di Santa Maria a Vico. Il taglio di 11 centimetri sulla guancia sinistra fu ricucito con 32 punti di sutura.

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