Roberto “Carube” Lencioni, la coscienza di zelo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

Segromigno in Monte (Lucca), venerdì 20 aprile 2018 

- Roberto Lencioni, il suo amore per il ciclismo: com’è nato? Mi sembra giusto partire da qui. 

«È nato correndo in bicicletta nella categoria quella che adesso è chiamata “Giovanissimi”. Una volta non erano Giovanissimi. Erano le prime corse sperimentali che c’erano. E io, facendo le prime quattro corse di queste qui, le ho vinte tutte e quattro. Per cui era “regolare” che, l’anno dopo, si cominciasse a correre con la leva dell’esordiente, a quel tempo». 

- “Carube” è un soprannome che lei ha ereditato. Mi racconta com’è nato? Lei è nato in una famiglia di ciclismo, no? 

«“Carube” è un soprannome che aveva mio papà, che aveva mio nonno. La corte dove abito – l’han costruita negli anni ‘910-’915 si chiama Corte Carube. Non so, dai “risultati” di una mia cugina, di un albero genealogico, c’è un Carubino nel Settecento, roba così. Però i miei nonni lavoravano coi cavalli, con mangimi, questa roba qui, per cui le carrube…». 

- Ho letto in una sua intervista che in Toscana si fa presto a perdere una erre… 

«Sì, si fa presto a perderla. Per cui a passare dalle carrube a carube si fa in un attimo, no?». 

- I nomi di suo nonno e suo papà? 

«Il nome di mio nonno era come il mio, Lencioni Roberto». 

- E suo papà? 

«David». 

- La prima svolta quando arriva? 

«Io comincio ad andare alle corse nel ‘78. Qui, a cinque chilometri da me, ci abita Pieroni Piero. A quel tempo lì, aveva la squadra della GiS Gelati e c’erano dentro Franco Bitossi, Marino Basso, tutta gente emergente – cioè: a fine carriera questi due e altri più giovani…». 

- È vero che doveva arrivare anche Roberto Visentini, ma poi subentrò il gruppo Saronni e fecero altre scelte? 

«No, quello è dopo ancora. Lì era la GiS Gelati dei primi tempi, quando dopo arrivò invece Roger De Vlaeminck. E io un po’ cominciai da lì. E l’anno dopo, io conoscevo Carlino Menicagli e Carlino Menicagli mi porta alla San Giacomo». 

- Siamo nell’80? 

«Siamo nel ‘79. Alla San Giacomo[1] con Fausto Bertoglio, Giuseppe Martinelli, Giuseppe Perletto, poi chi c’era… Il primo anno c’era Francesco Masi, c’era Cipollini (Cesare), Ruggero Gialdini, insomma tutti questi…». 

- Era una bella squadretta. 

«Sì, era una bella squadrettina. Però poi, nell’80, fu fatto lo squadrone della San Giacomo-Benotto, che non ottenne quello che poteva ottenere. Però, insomma, a quel tempo lì era uno squadrone. Come adesso ci può essere la Sky…». 

- Ah, a quei livelli lì? 

«Senti: c’erano Visentini, Freddy Maertens, Martinelli, Bortolotto, Tullio Bertacco. Poi, in quell’anno lì, al Giro del Friuli, ha fatto la prima corsa Moreno Argentin. C’era Hans-Henrik Oersted, quel danese che poi prese il record dell’ora, ha corso diversi anni in Italia. E poi c’era l’australiano Kevin-Clyde Sefton. C’era uno dei primi americani [George Mount, nda]. Di quella lì c’è la foto, tutta la squadra…». 

- Perché non sono arrivati i risultati, che cosa successe? 

«Perché uno squadrone così magari doveva vincere di più, doveva fare di più. A parte che Visentini al Giro d’Italia mise la maglia rosa per quattro-cinque giorni [in realtà sette, nda], Bortolotto tenne per un po’ la maglia verde [la mantenne per tutto il Giro, nda], mancò Maertens. Maertens mancò perché vinse qui a Montecatini[2], cos’era, la coppa… Una tappa, a quel tempo lì si chiamava… [la prima di tre semitappe, la cronostaffetta di Montecatini Terme di 62,8 km, le altre furono vinte da Knudsen e Moser; la classifica generale da Tommy Prim, nda]». 

- È vero che Pieroni era maniacale nell’organizzazione? 

«Mamma mia, una cosa incredibile… C’è delle cose che fanno adesso, che hanno cominciato a fare adesso, lui le faceva là… Gli aveva fatto un nécessaire per la valigia, con… persino il phon era marcato GiS, tutte queste cose… De Vlaeminck aveva le maglie con scritto Roger qui in basso…». 

- E lui plastificava la lista delle cose da mettere in valigia per tutti i corridori 

«Sì-sì, gli faceva un promemoria». 

- Era anche un po’ visto con sospetto, vero? Perché era un po’ di tutto ma… 

«Era un po’ troppo dittatoriale, non era facile lavorarci insieme, eh…». 

- Lei che cosa faceva nella San Giacomo, nell’80? 

«Il meccanico. Eravamo io e poi c’era con me – che poi ora siamo insieme ancora tante volte adesso – Marnati, Daniele. Il papà era un famoso telaista a quel tempo lì, poi ha incominciato anche Daniele a fare poi i telai. Costruiva i telai per la Benotto, il papà [Umberto]». 

- Abbiamo saltato un passaggio, però. Lei un tempo correva e a un certo punto la sua carriera è cambiata. Che cosa successe? 

«Io da junior andavo benino, ero sempre andato bene. E a un certo punto ho dei problemi in famiglia e smetto. Salto due corse. Saltando queste due corse, vado a fare un giro in Vespa e un camion perde un bancale di legno, io lo prendo pieno e mi rompo una gamba. E allora lì smetto di correre. “Smetto”… L’idea era di smettere quell’anno lì, però poi, l’anno dopo, sarei passato dilettante di Seconda». 

- Si ruppe cosa? Perone, tibia? 

«Sì». 

- E quindi non si trattò di un infortunio così grave da pregiudicarle la carriera, o all’epoca lo era? 

«No, non era grave. Però le due settimane, che avevo smesso per miei problemi, un mese di gesso, di riabilitazione, una palla e l’altra, siam a settembre…». 

- Quanti anni aveva? 

«Avevo diciott’anni. L’anno dopo sarei passato dilettante, squadre che ti davano un qualcosa di stipendio non ne trovavi. E i dissi: vabbè, vado un anno a lavorare e poi ricomincio a correre. Perché in casa avevamo bisogno di lavorare». 

- Il militare? 

«Il militare dovevo andarci dopo. Il periodo di militare non l’ho fatto. E allora niente, andai a lavorare e poi mi capitò invece durante l’anno questa occasione di andar via con Pieroni e di cominciare fare il meccanico. A me fare il meccanico mi è sempre… da Esordiente la mia bicicletta la montavo io. Cioè e sempre stato un po’ appassionato della bicicletta, ecco. E dopo lì smisi. Senza rimpianti. Io ho sempre fatto… Cioè, magari io anche con delle persone quando parliamo non sono uno di quelli che ah io correvo, peccato, eh. No. Io ho corso, ho vinto, ho vinto tanto anche quando correvo, però poi basta. È stata una cosa…». 

- …una parentesi. 

«Una parentesi». 

- Che corridore era, con che caratteristiche? 

«Mah andavo abbastanza forte in volata, però non è che magari anche in pianura andavo bene, magari delle volte arrivavo anche da solo. Dipende». 

- E invece come meccanico è sempre stato un fuoriclasse come la considerano? 

«Ma no, sono sempre stato uno… i non mi considero un fuoriclasse però uno attaccato al lavoro sì, nel senso: a me non…». 

- Però se uno come Cipollini la voleva dappertutto, considerando com’è maniacale Cipollini, un motivo ci sarà stato, no? 

«Sì, però, sai, lì s’è creato un rapporto diverso. Allora: con Cipollini eravamo insieme tutti i giorni: allenamenti, tutto…». 

- C’era fiducia… 

«A parte che lavorare con Cipollini a più facile che con altri perché te sapevi i suoi, le sue problematiche e sapevi che quando ti criticava, ti criticava perché avevi sbagliato, anche di un millimetro ma avevi sbagliato». 

- E quindi aveva ragione lui. 

«Aveva ragione lui. Mentre c’era della gente che magari dava la colpa al meccanico e il meccanico non c’entrava nulla, no?, per cui… In più ormai s’era creata una sintonia che per dire delle volte Salutini scherzando mi diceva: [imprecazione in toscano, nda]… Da come arrivava alla macchina a chiedere una cosa, io mi potevo già immaginare quello che voleva. Se voleva, per dire, lo smanicato normale, lo smanicato un po’ più pesante, capito? Cioè, per dire, essendo insieme duecento giorni l’anno con le persone… Poi quello che faceva tanto il gruppo, lì, erano anche tutti quei ritiri che noi si faceva, diciamo, con i suoi “fidati”. Quando andavamo in Sudafrica, quando andavamo a fare queste trasferte, lì praticamente vivevi un mese, due mesi, insieme. E queste cose qui non le puoi dimenticare. Sai un po’ i vizi e le virtù di tutti, no? Perché lì, stando insieme, vengono fuori». 

- Il ritiro azzurro prima di Zolder 2002 è stato diverso dagli altri? C’era un’atmosfera particolare? 

«Ma no, perché prima di Zolder praticamente s’è lavorato tantissimo qui a casa. Tanto-tanto-tanto-tanto. E poi, vabbè, s’è ricominciato andando alla Vuelta e… È che sono stati giugno-luglio-agosto-settembre: sono stati cinque mesi di tensione pura. Lì bisogna dire che lui, come professionista, è stato veramente un professionista». 

- E che cosa si ricorda invece di Visentini, in quella San Giacomo? Perché poi alla fine siete stati insieme non molto, no? 

«Siamo stati insieme un anno. E Roberto era un ragazzo bello, esuberante, piaceva alle donne, timido. Tanto che, quando doveva far delle cose, cercava di “attaccare”, per la sua timidezza, hai capito?». 

- Come per difendersi? 

«Per difendersi, sì. Però, insomma, si vedeva che era un cavallino…». 

- …di razza? 

«…che voleva venir fuori, ecco. Capito? E lui, quando siamo stati alla Vuelta, ha preso subito al prologo, ha vinto il prologo ha preso la maglia gialla [allora la maglia di leader era amarillo, nda] e anche invece al Giro ha preso la maglia rosa e poi l’ha tenuta fino a che non l’ha presa Panizza a…». 

- …l’ha presa a Orvieto alla settima e l’ha persa a Roccaraso alla quattordicesima, una settimana dopo… Poi Panizza l’avrebbe lasciata a Hinault a Sondrio, alla terzultima. 

«Roccaraso, sì. Poi l’ha presa Panizza». 

- Non male, 23 anni aveva, eh. Qualche aneddoto in particolare di Roberto, in corsa e fuori, se lo ricorda? Qualcosa che mi aiuti a ricostruire un po’ il personaggio. 

«No… Ma il personaggio, sai, era… Cioè, c’era un doppio personaggio: quello che la gente pensava, un ragazzo coi soldi, col Ferrarino, eh… Che poi, Ferrarino: era un duemila, era uno di quelli che insomma, fra un po’ se uno comprava una macchina nuova, potevi comprare quella lì usata, no?, Okay, però… Però era determinato e voglioso di fare. Perché un ragazzo come lui, che poteva aver tutto, senza tanti problemi, fare i sacrifici per fare il corridore, cioè, vuol dire che era…». 

- E quindi la passione ce l’aveva, Invece si son dette e scritte tante stupidaggini… 

«Sì. Un corridore quando ottiene quei risultati lì, a parte vincerlo o perderlo il Giro d’Italia, potrebbero dire… Anche Moser, che non era un corridore da corse a tappe: tutti gli anni arrivava secondo terzo o quarto, allora? Cioè: era da corse a tappe o non era? Perché se uno arriva secondo terzo o quarto, vuol dire che delle predisposizioni ce le hai, no? La stessa cosa era un po’ lui, no?». 

- Roberto l’ha pagata questa cosa di essersi sempre messo contro gli sceriffi del gruppo, Torriani? O magari aveva lui dei limiti caratteriali? 

«No, non penso. Sai, il suo carattere un pochino l’ha... Per dire, un anno è andato a fare i campionati italiani in pista. Al primo impatto gli dava noia quello dall’altra parte della pista. Perché lui era un po’ anche in gruppo era un po’… Non era uno che, come si può dire, che guidava senza la bicicletta, era difficile trovarlo nel mezzo a gruppo. Lui era sempre a destra o a sinistra però era sempre sui cigli delle strade, no?». 

- Sempre vento in faccia. 

«Sì. E perché? Perché non era molto sicuro, molto… Questo». 

- E invece dal punto di vista di un meccanico? Com’era? Era esigente. Prima abbiamo parlato di Cipollini, un confronto? 

«No, anche lui era esigente. Stava molto attento. Mi ricordo che la tappa dello Stelvio che si doveva far lo Stelvio, avevamo preparato due biciclette normali, quelle che aveva lui, due bicilette una per correre e una di scorta coi rapporti per fare solo lo Stelvio». 

- Quindi avrebbe dovuto cambiar bici. 

«Avrebbe dovuto cambiar bici. E poi in cima allo Stelvio ricambiava bici per avere i rapporti da discesa e andare all’arrivo. Cioè era uno che già vedeva un po’ delle cose che, a quei tempi lì, ancora non si vedevano, capito?». 

- I "Contador" e i "Nibali" che lo fanno oggi, no? 

«Sì, sì. I rapporti, queste cose qui, capito? Perché una volta c’avevi sei rapporti, non è che ne avevi undici come adesso, e non avevi la scelta che volevi, capito? Se volevi partire, e magari in pianura volevi una certa “elasticità” di rapporti, non li potevi avere per lo Stelvio, no? Infatti, mi ricordo che per lo Stelvio si fecero la bicicletta con due ruote che praticamente sarebbero i rapporti da allievo: dal 16 al 25, capito?». 

- Peccato però che nell’84 lo Stelvio non si fece… 

«No, ma quella lì era nell’80. La tappa Hinault la fece vincere a Jean-René Bernaudeau. Lasciò la tappa a Bernaudeau». 

- I corridori a cui lei è più legato? O non per forza campioni, può anche essere il più umile dei gregari.. 

«Vabbè, Mario. Lombardi. Scirea. Questi che si viveva sempre. Sono ancora in buonissimi rapporti e ci sentiamo spessissimo con Fondriest. Anche se io [con] lui ci ho lavorato solo l’anno che era campione del mondo, alla Del Tongo però insomma… poi è naturale che Calcaterra, Scirea, Lombardi, questa gente qui si stava insieme a parte alle corse sei mesi anche nell’anche l’inverno, si stava due mesi l’anno insieme dalla mattina alla sera per cui…». 

- Lei ha vissuto anche l’anno dopo che Fondriest ha vinto il mondiale nell’88, Cipollini ha vinto il mondiale nel 2007, l’anno dopo cosa cambia nella vita di un corridore con quella maglia addosso? Gli impegni… 

«Mah, a parte gli impegni poi sai una maglia che si vede. È un’evidenza, no?». 

- Gli impegni fuori corsa, ti cambia un po’ la vita e ti rovina un po’ l’inverno… 

«Sì, Mario non ha fatto tantissime cose a parte che ari subito dopo il mondiale ha dovuto… era tanto che ci soffriva e aveva proprio anche per il mondiale e c’aveva una cistina sotto e dopo il mondiale se la levò. Per cui, sai, anche quella cosa lì l’anno dopo parti con un pochino di ritardo. Comunque, dopo, anche lui non è che ha fatto moltissimi circuiti, moltissime feste, lui è stato abbastanza… Ha continuato a fare il Cipollini della situazione, ecco. Però, sai, con quella maglia lì, sei più un faro, sei più…». 

- Sei più marcato… 

«Sei più marcato. Un conto, per dire, era Mario [Cipollini] che, vabbè, si chiamava Cipollini ma era un velocista, un conto Maurizio [Fondriest], che aveva vinto un mondiale giovanissimo. Era uno che, anche lui, non è che stesse molto zitto. Voleva “entrare”, ma a quel tempo lì, era sempre un po’ un mondo abbastanza chiuso dai capitani, di qua e di là, no?». 

- E aveva cominciato a guadagnare bene presto, quindi forse un po’ d’invidia… 

«Sì. Allora, sai, era un po’ più… quando magari provava in finale era più tenuto d’occhio, era più… infatti diciamo che la prima corsa sua l’ha vinta al Giro di Toscana no?, con la maglia di campione del mondo. Poi magari ha ottenuto più risultati dopo andando all’estero infilandosi dentro uno squadrone come la Panasonic e lì ha avuto il suo exploit, no?». 

- Che ricordi ha di quel “suo” ciclismo, diciamo da trent’anni fa fino ai giorni nostri? Come ha visto che si è evoluto o, forse, involuto? 

«Mah, io penso che il ciclismo come professionismo si sia involuto. Perché da quello che sto vedendo adesso, quel po’ che va in giro, fra un po’ sono più importanti gli addetti stampa che i corridori». 

- Bella ’sta riflessione. Mi spieghi bene cosa vuol dire, cosa vuol far capire. 

«Cioè: che vai a vedere una squadra ci sono nove corridori e ci sono cinquanta persone intorno. Cinquanta persone intorno per un motivo o per l’altro non creano un qualcosa, no? Io ho fatto un ciclismo grazie a dio dove tutte le squadre e forse ho avuto la fortuna che a me mi si è prolungato stando con Cipollini perché Cipollini faceva una squadra nella squadra, capito? Facendo una squadra nella squadra noi non si sentiva il cambiamento dal ciclismo di prima. Perché nel ciclismo di prima normalmente una squadra era fatta da dodici-tredici corridori, due meccanici, due massaggiatori e un direttore sportivo. Alla Tirreno-Adriatico e al Giro d’Italia veniva al dottore. Finito. Per cui… Succedeva anche che magari un meccanico si doveva trova’ a dà l’olio ai corridori prima di parti’. Perché per motivi vari o i massaggiatori dovevano andar via perché sennò non facevano in tempo a fare rifornimento. Che poi a quel tempo lì c’erano anche due macchine, non ce n’erano venticinque come adesso. Te, quando arrivavi che trovavi il cartello “12 km al rifornimento” la giuria ti faceva sorpassare il gruppo e andavi al rifornimento. E cosa succedeva? Succedeva che alla guida delle seconde ammiraglie c’era sempre o un massaggiatore o un meccanico. E dovevi saper guidare anche, e stare in corsa. Dovevi sapere come si faceva a sorpassare un gruppo. Dovevi sapere come [comportarti]… Cioè, praticamente sia il massaggiatore sia il meccanico, a quel tempo là, erano un mezzo direttore sportivo, capito? Forse sapevano far meglio loro, di quelli che adesso arrivano e dicono: Io faccio il direttore sportivo. E hanno corso fino all’anno prima, no? E quello stando insieme, cioè. coi corridori partivi All’inizio dell’anno e stavi sempre insieme. Tutti i fine settimana andavi a correre qui in Italia, facevi qualche trasferta all’estero, il Giro d’Italia. E vivevi… Magari poi uno si faceva male, cadeva, e allora veniva preso uno di quei due-tre che erano a casa e così andavi avanti. Ma erano famiglie, capito? Anche perché io, per dirti, anche nei primi anni io ho cambiato due o tre squadre da quando sono andato dalla San Giacomo, no? Però se uno elimina il nome della squadra e va a vedere i direttori sportivi e i massaggiatori e i meccanici, eravamo sempre i soliti per sette-otto anni, capito? Erano più “famiglie”, capito? E anche dei corridori o degli altri massaggiatori, eh, eri… cioè: eri uno di famiglia. Cioè, c’avevi un massaggiatore, dormivi più con lui durante l’anno che con la moglie. Invece oggi vedo tanto… Vanno. Ho visto delle squadre che corridori scendono a mangiare, uno scende a mangiare, mangia, riva’ via, poi arriva un altro, mangia, non stanno neanche insieme a mangiare. Oppure sono insieme a magiare e c’hanno il telefonino, il tablet e queste cose qui… una colta a tavola parlavi dei problemi che c’erano stati il giorno in corsa, di quelli che ci potevano essere il giorno dopo, capito? La tavola era sacra. Nessuno di noi poteva stare a tavola con i corridori. Stava solo il direttore sportivo proprio per queste cose, no? Perché dovevano aprirsi e parlare con… adesso invece nelle squadre c’è.. i corridori sono numerati. C’è otto nove dieci massaggiatori, sono numerati anche quelli. I meccanici sono sette otto sono numerati. I direttori sportivi sono numerati. E quando fanno [la riunione]… c’è un manager che dice: il massaggiatore 3 e 4 , il meccanico 5 e 6, il direttore sportivo 1 e 2 vanno col corridore 3, 5 8, vanno a fa’ quella corsa là». 

- Ho capito cosa vuole dire. E invece un aspetto negativo della sua epoca che oggi vede migliorato c’è? E se c’è qual è? Uno o più aspetti… 

«Devi pensare che noi, che io… Va bè, anche alla San Giacomo si aveva, eh… Alla San Giacomo s’andava a fare una corsa a tappe come la Vuelta, o il Giro, e avevamo un Fiat 242. Capito? Lì, voleva dire - tutte le sere - trovare un posto in albergo, mettere le biciclette, chiuderle e, quando avevi scaricato le biciclette, caricavi le valigie, eh. Adesso ci sono… Chi ha poco ha un camion di dodici metri e un pullman. Io mi son trovato, nella San Giacomo, a una tappa che si arrivava verso Pavia e poi si andava in albergo subito fuori Milano. Lì c’è anche l’uscita dell’autostrada, al “Corona” di Binasco. Io mi son trovato a fare trenta chilometri sul portapacchi della macchina, fuori, perché dentro non c’era lo spazio [sorride, nda] Cioè, per dire, capito? Oppure: una volta, in Francia, siamo tornati in albergo io, Bertoglio, Pizzini e Masi, lì vicino Narbonne, Carlino Menicagli s’era sbagliato, c’aveva detto… - lui faceva la premiazione, perché aveva vinto Martinelli mi sembra - "Se andate in albergo son quattro chilometri....". Erano quaranta. E siamo andati in bicicletta! [ride di gusto, nda] Capito? Cioè erano cose un po’ più…». 

- …pane e salame, eh? 

«Eh. Capito? Adesso, anch’io gli ultimi anni, cioè da quando… per me… io ho smesso di fare il meccanico nel ‘93 e ho riiniziato col discorso di Mario [Cipollini] che mi chiamò lui per ricominciare, ho ricominciato nel ‘97, ecco. Lì…». 

- In quei quattro anni lì ha visto che è cambiato il mondo? 

«Tutto. Tutto era cambiato, tutto. Infatti, sono andato a prendermi la patente del camion, la patente del pullman, perché prima non c’erano. E lì è cambiato tutto. S’è ricominciato, io ho ricominciato con la Saeco e han fatto il nuovo pullman con la Cannondale, c’erano due camion grossissimi, c’era un camion più piccolino, c’erano venticinque corridori. E lì è proprio era cambiato, per me, il mondo completamente del ciclismo». 

- E ha avuto difficoltà a reinserirsi in quel mondo così cambiato, poi? 

«No. Due mesi. I primi due mesi per capire un po’ le nuove, e poi dopo… T’ho detto: il mio unico difetto era proprio questo: che io son sempre stato attaccato troppo al lavoro. Io, per dire, se io domani mattina devo partire con la squadra, dovevo partire con la squadra alle sei, alle sette cl camion e andare, che ne so io, a Milano oppure in Francia, cioè io stasera non mi muovevo da casa». 

- E perché è un difetto? 

«È un difetto perché c’è per dire tanta gente si gode la vita, vanno fuori, vanno qui, vanno là, e io…».

- Vita da atleta anche per il meccanico, questo mi vuol dire? 

«Sì, cioè non-vita da atleta. Oppure, per dire: se io qualche volta andavo a sciare... Io andavo a sciare gli ultimi giorni di novembre e poi non ci andavo più. Perché un conto se ti fai male… Se a fine dicembre ti fai male, e devi partire con le corse, come fai? Capito? Cioè, mi son sentito un po’ sempre la responsabilità. Capito? E delle volte questo può essere un pregio ma anche un difetto». 

- Questo ha avuto anche un costo magari nella vita familiare, personale? 

«No, grazie a dio, no. Però io ho avuto una moglie… io mi sono sposato prestissimo, mi sono sposato che avevo vent’anni. E mia moglie diciassette. E praticamente l’anno che mi sono sposato, il 27 ottobre del ’79, e la mattina che è nata mia figlia, che è nata il 6 di gennaio dell’80…». 

Ah, quindi prima di partire con la stagione con la San Giacomo? 

«Io ero a... Mia figlia è nata alle nove, a Barga [provincia di Lucca, nda]. Siccome avevo portato mia moglie all’ospedale, però la mattina la domenica era… Era di domenica, sì, perché era il 6 di gennaio di quell’anno lì, che poi "smisero" di far la Befana [era il 1977, nda]. Io son partito alle 4 con un mio amico di qui. Sono andato a Donoratico [in provincia di Livorno, a 116 chilometri da Segromigno in Monte, nda] a portare tre stufette di quelle elettriche, le coperte e i lenzuoli perché nel pomeriggio arrivava Freddy Maertens con la famiglia a una casa del presidente, che il nostro presidente aveva lì. Per poter tornare indietro e andare poi a vedere mia figlia, cioè mia moglie che partoriva». 

- Perché Freddy Maertens poi iniziava qui il ritiro pre-stagionale? 

«Il pomeriggio stava lì per venire via da… era il 6 di gennaio, noi in ritiro ci si andava a fine gennaio. Però per uscire dal Belgio, dove era freddo, aveva deciso di venir via con la famiglia prima, capito? Però ecco la mattina che è nata mia figlia son partito alle 4, sono andato a Donoratico, ho scaricato le cose, sono ritornato a casa col furgone, ho preso la macchina e sono andato a Barga, sono arrivato lassù [da Donoratico a Barga sono 136 km, nda] e mia figlia era nata da cinque minuti. Capito? Però ecco ho sempre avuto la fortuna che per dire io andava le corse, andavo in giro di qua e di là, mia moglie o le mie figlie, fin che son state piccoline, erano a casa e magari andavano a vede’ le corse degli allievi o degli esordienti». 

- Avevo letto questa cosa qua della sua famiglia. - E sua moglie anche è entrata nel progetto giovanile, no? 

«Mia moglie è il presidente. 

- E invece cosa mi racconta di Freddy Maertens? Anche dei suoi problemi extra bici? Quando è arrivato con voi era già nella fase declinante, no? 

«No, ha rivinto un mondiale dopo…». 

- Quello dell’81? Prima ha fregato Moser a Ostuni e poi Saronni. 

«Io posso dirti che per me Freddy è sempre stato, come ti posso dire? Lui è venuto qui a Montecatini a far le visite mediche queste cose qui e siamo stati insieme tre quattro giorni, portalo di qui portalo di là… questo succedeva i primi di ottobre subito dopo il Lombardia, poi ci siamo salutati eh, il giorno del mio matrimonio a me m’è arrivato un mazzo di fiori così, con una lettera e un fermaglio d’oro. Il fermaglio d’oro da Interflora che mi faceva gli auguri per il mio matrimonio. Cioè un corridore ce l’hai conosciuto tre giorni e che dopo venti giorni che senza… magari l’ha saputo tramite altri e ha un pensiero così, cioè non è una cosa... capito? Questi… Il campione per un motivo per l’altro ma qualcosa di diverso l’ha, sennò non sarebbero campioni». 

- E che corridore ricorda invece? 

«Sai, con noi c’è stato poco però aveva delle doti, una potenza… per dire lui non poteva correre coi pedali, la campagnolo a quel tempo lì aveva fatto dei pedali vedi come quelli lì neri? Con l’alluminio, no? Ecco lui con quei pedali lì non poteva correre perché li spezzava». 

- Da quanta potenza aveva? 

«Sì. mentre doveva correre con i pedali in ferro. Mentre invece quelli in ferro erano più robusti, quelli in alluminio erano un materiale un pochino più leggero, erano una cosa eh… Lui correva con gli altri, quelli vecchi che son sulla biciletta gialla. Quelli lì in ferro». 

- Questa non la sapevo. 

«E come Mario, quando presero la Cannondale, non poteva correre con le pedivelle Coda». 

- Perché, spezzava anche quelle? 

«Una volta, lui correva sempre con le pedivelle Shimano, no? E un giorno per fare una ripresa televisiva, si uscì con una bicicletta che aveva le pedivelle Coda. E, a parte che anche le pedivelle in sé per sé, le Coda erano “accoppiate”, erano in alluminio accoppiato, via via qualche cedimento ce le avevano, no? Però avevano le corone in alluminio. Andò tutto bene, le riprese tutto bene, s’andava in albergo, qualche cazzata andava sempre fatta, gli venne in mente che dovevano fare, lui e [Gianmatteo] Fagnini, una volata partendo da fermi col 53x11, no? Partì, e la moltiplica si girò. Quella lì della Coda… ». 

- E lui che fine fece? 

«E lui niente: lo dicevo io che questa roba qui non la dovevo adoperare». [ne imita la voce, nda] 

- Però non è caduto? 

«No, no, non è caduto. Ce l’ha fatta a stare in piedi. Però la moltiplica gli s’è girata, eh sì». 

- Che cos’altro mi può raccontare: son andato a rivedermi trasmissioni e giornali dell’epoca, ci sono un sacco di inesattezze e pregiudizi di Roberto, cosa vorrebbe trovare in questo progetto lei che c’era con corridori cose che magari i giornalisti le dicono e lei sa un’altra verità, capisce cosa voglio dire? Cioè il lato umano di questi corridori molti volte vene travisati, non raccontato o raccontato in modo sbagliato. Tipo: la gente pensa che e invece le cose stanno in un altro modo… di Maertens e Visentini abbiamo parlato ma magari mi può raccontare del Cipollini meno pubblico, televisivo e pubblicitario, quello più vero… 

«Ma sai ci sono delle cose che… io penso che il Cipollini “vero”…». 

- Per esempio, quello che ha sofferto per il papà in coma dieci anni e gli ha portato la maglia iridata… 

«Sì, però io posso sapere il Cipollini che ha sofferto per me quando mi è arrivata la telefonata che gli è arrivata a lui che mia figlia aveva fatto un brutto incidente. E la telefonata l’ha presa lui e poi è venuto a parlarmi a me. E lui sapeva le verità e io no. E so quello che ha sofferto per me. So quello che ha durato fatica perché abbiam fatto decine e decine di migliaia di chilometri. Mi fa male quando si scrive che cipollini a luglio prendeva e andava in vacanza al mare. Si ritirava dal Tour e doveva fare il bel figo al mare. È vero. Ma è anche vero che la settimana prima del Lombardia, tutti gli anni succedeva che Cipollini cominciava a far dietro macchina con me per l’anno dopo, per cui se uno pensa che Cipollini cominciava mettiamo pure il primo d’ottobre, va be, il primo d’ottobre, e faceva ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno e luglio: poteva andare a luglio in vacanza a Viareggio? Dopo dieci mesi che avevi fatto per prepararti per la Sanremo, per la Tirreno-Adriatico, per il Giro, un po’ di stop per il Tour, perché al Tour magari a lui gli bastava andar là una settimana-dieci giorni…». 

- Era un po’ diverso: oggi già nella prima settimana… 

«Capito? Allora, come si fa a dire… A parte il fatto che questo suo preservarsi l’ha portato anche a fare quindici anni di professionismo sempre ad alto livello. Sempre ad alto livello. Allora come si fa a incolparlo di questo? C’è gente che non aveva ancora finito la stagione dell’anno prima, e lui cominciava ad allenarsi per l’anno dopo». 

- Questo si può dire anche per Roberto? O magari con lui lei ha avuto una frequentazione meno assidua e…? 

«Roberto io non… Roberto, io me lo sono trovato di novembre del ‘79 per le misure per queste cose qui e ci son stato insieme fino a settembre dell’80, non posso dire… Posso dire che il ragazzo e a parte quello che diceva la gente ma era un serio, che si allenava e che faceva i sacrifici. Perché se non fai queste cose qui, nel ciclismo non riesci a far niente». 

- E Maurizio? 

«Maurizio è un altro esempio che io ho conosciuto giovanissime poi l’ho continuato a frequentare in squadre diverse e tutto però era un altro esempio di una serietà incredibile. Perché: anche lui senza la sua serietà, senza la sua perseveranza, con i problemi della schiena e tutto… Se non fai il corridore al centodieci per cento, non riesci a far niente». 

- E di Freddy invece cosa mi può dire? Le facci io una domanda: le fa male vederlo così, sapere della situazione difficile? Sì, lavora lì al museo del ciclismo però… 

«So che ha uno stipendio, ha il suo museo, diciamo che è quasi un dipendente comunale… capire quello che era e le possibilità che aveva fa male, fa male. Però sai bisogna anche vedere, il Belgio è un’altra cosa...». 

- Mi spiega questo fatto qua che me l’hanno detto in tanti… Il suo problema è che era belga… Il Belgi ti stritola. È una centrifuga per i corridori belgi, per la pressione che c’è, vero? 

«Sì, capito? Il belgi… e poi quando tu devi far festa, la festa va a finire in birre e birre. Liquori una stria e l’altra e vai a finire che insomma per il corridore non è la meglio…». 

- Lei si è accorto, quando l’ha avuto, che lui aveva dei problemi di quel tipo? Per esempio, per nascondersi che beveva magari andava in una tappa di mare, in albergo, si allontanava dietro gli scogli beveva là e lanciava le bottiglie. Questi aspetti qua? O son successi dopo? Perché lì era ancora corridore… 

«No, io questo no… Un pochino, diciamo, quando lui è venuto qui era il periodo che tentava di uscire da questi problemi. Poi ci sono state delle incomprensioni delle cose con la squadra che lui poi s’è presentato… Ah, ecco: la sua rovina è stata proprio questa. Che lui era uscito da queste problematiche, e lui arrivò quarto o quinto [in realtà sesto, nda] a un Giro delle Fiandre che essendo arrivato quarto o quinto a un Giro delle fiandre, un Freddy Maertens con l’anni prima, diciamo, azzerato, fu un fatto [fece 6° nel 1980, il suo ultimo Fiandre, nda] che i belgi, proprio il discorso dei belgi, era rinato, cioè che era il campione, qui e là. Lui rimase una decina di giorni su in Belgio e lì ricominciarono a far le feste, feste, bere eh… E quando poi lui si presentò per partire al Giro d’Italia, non andava per nulla. Infatti, al Giro poi la tappa di Campotenese che io ho fatto in bicicletta [11ª tappa, Palinuro-Campotenese di 145 km, vinse Baronchelli, con Visentini che mantenne la maglia rosa, nda], questi articoli non li hai trovati, c’è sia sulla Gazzetta che su Tuttosport. Goria, mi sembra eh, che fosse stato Goria, fece l’articolo su Tuttosport…». 

- Ma è stato Amedeo Goria che le ha dato quel soprannome, “il meccanico zelante”? 

«Sì. “Il meccanico zelante”, mi sembra fosse lui. Non mi ricordo se l’avevano fatto su… o sulla Gazzetta». 

- E perché “il meccanico zelante”? 

«Perché… lì successe… buffa. Anche lì non potrà più succedere una cosa così, adesso, perché è un altro ciclismo. Allora, Giro d’Italia dell’80, Visentini in maglia rosa, tappa di Campotenese. Si fa una salita in finale, salita di 15-16 km, discesa, un chilometro all’arrivo. La tappa era disegnata così. Si comincia la salita, dopo tre-quattro chilometri della salita, si ferma l’ammiraglia della San Giacomo, la nostra, non andava più. La seconda macchina era dietro Maertens, a mezzora, però con le radio non ci si sentiva». 

- Ma chi c’era nell’ammiraglia che si è fermata, il direttore sportivo? 

«Il direttore sportivo, Menicagli. Ed io». 

- Nella seconda ammiraglia chi c’era? 

«Nella seconda c’erano il massaggiatore, mi sembra fosse Rino Baron (che non so neanche se era salito), e Marnati con un altro meccanico. Erano però rimasti a mezzora dietro Maertens, che non andava avanti. Anche perché si veniva… Eravamo partiti da Lauria, Maratea, per cui s’era fatto tutto un po’ l’entroterra appennini era tutta una tappa abbastanza dura, impegnativa, insomma si ferma la macchina, c’era una fuga di dieci corridoi e Visentini solo in maglia rosa, cioè della squadra c’era solo Visentini – e che si fa che si fa che si fa io scendo dalla macchina, fermo il medico di gara che c’era, il professor Tredici con una Ritmo cabrio, monto sulla Ritmo cabrio con una bicicletta in spalla, di Visentini, in maniera che se succedeva qualcosa… dopo un chilometro, quando la giuria s’accorse che io ero lì, fermarono la macchina del medico e mi dissero di scendere, perché io non potevo intralciare l’attività del medico. Ed io che feci? Montai sulla bicicletta e cominciai a pedalare, poi mi tiravo a una macchina, all’altra. Noi praticamente avevamo la macchina numero uno, di ammiraglia, mentre la seconda macchina era quella della Bianchi, che c’avevano Contini. E allora pedalavo un po’, poi m’attaccavo alla macchina di Ferretti, “Ferretti via-via” – ancora la racconta ancora – poi ripedalavo, poi restavo lì e… Poi s’arrivò in cima, e io siccome in quegli anni lì era da poco che avevo smesso di correre…». 

- Ma lei non era vestito da… Era vestito normale? 

«Normale, normale. E a quel tempo le scarpe normali, ma ci s’aveva le gabbiette. E avevo la bicicletta di Visentini che per me era piccolina, capito? Comunque, lì niente se succedeva qualcosa lui gli davo la bici e rimanevo lì. Quando si arrivò in cima passai il gran premio della montagna e dissi: Ora non mi staccate più però, eh. In discesa non mi staccate, ’un m’importa ’na storia, no? E invece dopo un chilometro che scendevo, arrivò Carlino che aveva recuperato la seconda ammiraglia e mi caricò lui e s’andò all’arrivo che poi la tappa la vinse Johansson [in realtà a vincere fu Baronchelli davanti a Johansson e Panizza, nda], però, questo me lo ricordo bene, il giorno dopo era sciopero dei giornali, e non uscirono. Allora uscirono il giorno dopo ancora però dovevamo raccontare due tappe. Però l’articolo mio lo misero lo stesso, capito? La Gazzetta fece un quadratino. Tuttosport invece era proprio nei… C’erano i titoli grossi, poi quelli ancora un pochino più… ». 

- Li ha ancora quei ritagli? 

«Ci dovrebbero essere da qualche parte, sì». 

- Ma la giuria non ha fatto niente. 

«No-no, la giuria…». 

- Oggi non… 

«Oggi non succede più, c’è il cambio-ruota, ci sono i telefonini…». 

- Nell’87 lei dov’era, con chi era? 

«Magniflex». 

- Con direttore sportivo Riccardo Magrini. 

«Sì, c’era Magrini, nell’87». 

- Allora lei si ricorderà di sicuro, se era in ammiraglia con lui la prima o la seconda però nella famosa tappa di Sappada c’era Antonio Santaromita in fuga… 

«No, c’era Bianchi quel giorno lì in ammiraglia». 

- Magrini dal finestrino gli gridava: «Antoniooo, vieni qua, stai vicino alla maglia rosa ché almeno ti inquadrano…». 

«Sì…». 

- Che cosa ricorda di quella tappa? 

«Io non c’ero quella tappa, ero andato in albergo perché avevamo dei problemi con delle biciclette, dovevamo... In macchina c’era [Giancarlo] Bianchi, che poi adesso, poraccio, è morto, è morto l’anno scorso [il 4 luglio 2016, nda]». 

- E quindi non si ricorda niente perché in corsa non cera… 

«Non c’ero, io. S’è palato così per scherzo con Riccardo [Magrini] perché praticamente aveva fatto diventa’ un personaggio a Santaromita a stare accanto a Visentini, sembrava lui il gregario…». 

- E lei che ha conosciuto Visentini che idea s’è fatto pur non essendoci lì a Sappada? Per esempio, conoscendo per quel poco obero, è stata Sappada ad allontanarlo dall’ambiente del ciclismo? Sarebbe successo comunque? Perché il carattere suo è quello lì… 

«No, io penso che lui, almeno, conoscendolo così un po’… Per me, è sempre stato uno che quando finiva col ciclismo, punto, finiva. Cioè lui faceva il corridore e stop, non avrebbe fatto altro, no?, nel ciclismo». 

- Non gli interessava… 

«Ma non penso, uno così che la sua attività a casa, di famiglia, e che andava a fare, il direttore sportivo, il massaggiatore, il meccanico? Poi, una volta… Adesso i corridori smettono e fanno tutti il manager e i direttori sportivi ma una volta smettevano e facevano i meccanici o facevano i massaggiatore, eh. Cioè: Gabriele Mugnaini [fratello minore del più noto Marcello] era un corridore e fa il massaggiatore, [Giovanni] Cavalcanti era stato un bel corridore, [Silvano] Davo faceva il corridore…». 

- Prima parlavano di cose che potrebbero succede nel ciclismo di oggi. E nel ciclismo di oggi potrebbe succedere una Sappada? O ormai fra radioline, srm e telecamere… 

«Mah, potrebbe succedere in questi squadroni al momento in cui un corridore decida di far…». 

- Tipo Froome-Wiggins al Tour 2012 o Froome-Landa al Tour 2017. Ma poi c’è il direttore sportivo che… 

«Però può anche darsi che ci sia quello che dice… Che piglia e parte e magari poi dà la colpa a un altro, sai…». 

- Un po’ come Roche? Di Roche cosa si ricorda? Magari da avversari… L’ha sempre avuto da avversario... 

«Sì, l’ho sempre avuto da avversario. Però s’era creato un suo…». 

- Quindi una Sappada può succedere, è difficile ma può succedere. Lei mi ha detto una squadra nella squadra, no? Ed è proprio quello che Roche aveva fatto con il meccanico Valcke, con Schepers, All’interno della Carrera? 

«E la squadra nella squadra sì succede un po’ così, gli anni che io sono stato con Mario praticamente che succedeva? Che noi si partiva a gennaio, eravamo sempre i soliti: Salutini direttore sportivo, delle volte c’era Vicino come secondo, Mugnaini era massaggiatore, io ero il meccanico. E questa tipologia di squadra andava avanti fin al Giro. Al Giro ti fermavi un attimo quei dieci giorni. E poi ripartivi inserendo magari un massaggiatore diverso, uno-due-tre corridori diversi in previsione del Tour, però ricominciavi a lavorare con una squadra che per dire in piccola parte ni c’eravamo sempre dentro: Mugnaini, Cipollini, io, Salutini, che ne so io, al tempo c’era Fagnini, Lombardi, Calcaterra, Scirea, questo qui era un gruppo che rimaneva, capito? Poi magari per il Tour, che ne so, inserivi Frigo, un anno un Savoldelli… E però era quello, capito?». 

- Delle squadre in cui ha lavorato, qual era la più forte? Non tanto nel senso delle vittorie quanto dell’organizzazione. Perché all’epoca c’erano grandi squadre, ma erano tutte più o meno dello stesso livello. Non c’era una grandissima forbice fra le grandissime e le piccole come invece c’è oggi. 

«No, no. Delle squadre dove sono stato io, c’era la prima fase che ho fatto con Carlino Menicagli, dove c’era tanta passione e il ciclismo era quello che era per tutti, a quel tempo lì. E poi, dopo, c’è stata la parentesi con la Magniflex, che quello invece era un progetto che io ho cominciato a lavorarci un anno prima coi dilettanti, e poi abbiam fatti due anni di professionismo che se non c’era quella legge a bischero lì, quell’anno lì dicevano che le squadre che volevano rinnovare in Italia, dovevano rinnovare entro il 31 di luglio, no? E [Franco] Magni, quando, il giorno che poi Franco Ballerini ha vinto la Tre Valli[3]. E lui s’era sbloccato, avrebbe fatto la squadra per altri dieci anni. Che poi bisogna dire che quella squadra lì è andata avanti per dieci anni a grandi livelli perché Ballerini, Bruno Cenghialta, Flavio Chesini, Alessandro Giannelli, Santaromita, Angelo Canzonieri, Enrico Galleschi, cioè tutta gente – Grimani, Massi… – che ha durato a correre altri dieci-dodici anni, capito? …». 

- Ma lei ha chiuso in Mapei, giusto? 

«No, io ho chiuso… Diciamo che io la mia carriera vera e propria l’ho chiusa in Naturino. Nell’ultima parte, anche lì, io ho fatto blocchi, no? Dopo, ho fatto cinque anni di Saeco, quando abbiam deciso di proseguire dando fiducia a Mario Cipollini e cambiando completamente. L’abbiamo fatto io, Salutini e Mugnaini e poi ci ha seguiti, va bene, Scirea, Calcaterra, questa gente qui. Allora io ho fatto cinque anni di Saeco e poi ho fatto cinque anni di… All’inizio era Acqua & Sapone poi Domina Vacanze, poi Naturino pero lì diciamo gruppo-Santoni. Poi ho fatto altri due anni che Salutini era andato alla Caffè Universal ma quelli sono… meglio dimenticarli. Poi avevo rifatto qualcosa con la Garmin. Ma roba di Belgio, Giro di Romandia, delle corse… una trentina di corse, così via». 

- Da avversari come vedeva la Carrera, era un po’ un punto di riferimento? La Carrera di quegli anni… 

«Ma, sai, la Carrera di quegli anni lì era lo squadrone in Italia. Lo squadrone che andava a fare il Tour». 

- Una delle poche. 

«No: la. Perché finita l’èra-Bianchi di Ferretti poi sono stati quattro, cinque anni che ci andava solo la Carrera». 

- Quindi la Carrera era all’avanguardia, non solo come corridori ma anche come struttura, come organizzazione. 

«Era una bella squadra. Poi, sai, Boifava non è mai stato un imbecille: c’aveva il doppio interesse: squadra e attività diciamo delle bicilette che erano le sue, no? a quel tempo lì il far era la Carrera». 

- E invece lei con gli altri meccanici, che rapporti aveva? Ha avuto dei maestri? Qua vicino ce ne sono di “famosi”, per esempio Giuliano Belluomini… 

«Allora, Belluomini per me è sempre stato un avversario». 

- Per questo gliel’ho chiesto… 

«Un avversario ma in senso buono. Gli ho comprato adesso che van di moda le cose d’epoca. Gli h comprato la sua cassetta Campagnolo che ci lavorava. E una delle tre bicilette che aveva Battaglin quando ha vinto il Giro d’Italia [nel 1981, nda]. L’ha venduta a me. Per cui con Giuliano il rapporto è sempre stato, diciamo, buono». 

- E invece la rivalità con chi è stata? Con Piazzalunga? 

«No, la rivalità per noi di Lucca era fra di noi, no? perché lui era appunto alla Carrera, io a quel tempo lì ero alla San Giacomo, alla Selle San Marco, insomma, però era una rivalità sana. Non è che c’era… Io mi sono trovato All’inizio quando io ho cominciato, nel ‘79, ‘78 con Pieroni, c’avevo... C’era un meccanico che a quel tempo lì aveva ottant’anni e che si chiamava Del Serra. Del Serra era uno che faceva anche i telai, era il meccanico che veniva… Aveva fatto tanti anni alla Filotex, insomma era un vecchio meccanico e io ho cominciato con lui. Poi, quando invece sono andato alla San Giacomo, c’era con me, che era più grande di me e faceva lui le vesti del meccanico, c’era un nipote di Franchini, di Primo Franchini, il fratello più grande di Orlando Maini. C’era lui come meccanico. E a me mi avevano preso come aiuto. All’infuori che dopo, era maggio, aprile-maggio, questo Maini aveva si vede dei problemi a casa e decise di non venire più. E allora Carlino mi disse: Roberto, quello là ha smesso, se tu te la senti ti si dà qualcosina di più ogni giorno, però ti devi metter sotto… E io mi sono trovato, a vent’anni, ad aver la responsabilità di una squadra». 

- Quanto vuol dire trovarsi al posto giusto nel momento giusto, no? Nella vita… 

«Sì, però vuol dire anche dove bruciare le tappe. E infatti è successo quello lì». 

- E lei con la nazionale quando e con chi ha lavorato? 

«Con la nazionale io ho lavorato al mondiale lì con Ballerini Ct. L’anno che ha vinto il mondiale Mario. Poi, l’anno dopo, dovevamo andare in Canada, invece all’ultimo è venuto fuori che Mario non sarebbe andato a partire e allora io ho parlato con… Sarei andato anch’io. Poi, dopo, lì si ritorna, come prima, questione di carattere. Ho parlato con Ballerini e gli ho detto: Se non viene Mario, che vengo a fare? C’hai Bettini, ché punti un pochino più su Bettini, porta il suo meccanico. Anche se io c’avevo Lombardi, Scirea, Bennati, capito? Però mi sembrava più giusto, più onesto… Anche se poi io ho fatto l’ultimo mese qui che Lombardi e Scirea venivano a Livorno per allenarsi con Bettini e io li seguivo in allenamento con la Smart e tutto. Però poi è andato il meccanico di Bettini. E poi l’anno scorso c’è stata un po’ un affare “scherzoso” che avevano bisogno, le squadre erano un p’ impegnate per gli Europei e allora mi chiamò Cassani e mi disse: ma te hai degli impegni? Dico: Guarda, no, non ho degli impegni. Io poi venne fuori che c’avevo il camion, hai visto quello lì grosso. Allora dice fai una cosa vieni col camion, vieni te. Però gli dissi che guarda però con me in gir viene anche l Scarselli. Se hai bisogno. Allora vedo, eh. E allora si andò io e Scarselli, anche col camion. Fu “acquisito” dalla nazionale anche il camion. E poi sono venuti furi degli articoli, l’anno scorso, “Carube torna in nazionale”. Quando, il giovedì, arrivò Cassani, mi fece: “Carube, fortuna sei venuto te in nazionale, sennò non ne parlava nessuno. Almeno di te hanno scritto…”». 

- Ma “il meccanico zelante” è una definizione che le piace o ne preferisce altre? 

«Ma no, era una cosa che è rimasta, e ti rimane, nel cuore. Una cosa di tanti anni fa… E invece Mario con… Con quello della Gazzetta, l’altro, quello alto, Bergonzi, come Pier, ha invece tirato fuori il “mitico Carube”. Anche perché quello, delle volte ti trovavi qui che arrivava [Pier] Bergonzi e noi s’era fatto magari trecento chilometri fra macchina, fra Smart e la Vespa, lì, la Vespa è lì… [me la indica, nda] Quante volte si faceva duecento chilometri e lui dietro la Smart e poi tornavi a casa prendevi la vespa e altri sessanta-settanta chilometri… Io penso di professionisti come Cipollini ce ne sono stati pochi… Per la bicicletta, eh». 

- Però forse ci ha messo anche lui del suo. Molte volte, con certi suoi atteggiamenti, certe sue dichiarazioni… Tanta gente magari credeva non fosse serio. E invece era più serio lui di quelli [considerati] serissimi professionisti. 

«Senti ma noi pensi che non si dovrebbero chiedere dei danni al Tour de France…». 

- Ma una volta c’era Leblanc il dittatore, oggi è un po’ diverso… 

«Noi, come Saeco e come Acqua & Sapone e Domina Vacanze, lo sai che noi abbiamo pagato centinaia di milioni [di lire] di multe? Per Cipollini». 

- Ma per il look? 

«Sì. E adesso quel look che Cipollini ha “inventato” lo propongono tutti, vendono le maglie gialle poi i pantaloni gialli, con il body giallo, con il body verde». 

CHRISTIAN GIORDANO


NOTE:
[1] I tredici corridori della San Giacomo-GS Mobilificio-Alan (1979), diretta da Primo Franchini e Carlo Menicagli: Alessio Antonini, Fausto Bertoglio, Cesare Cipollini, Franco Conti, Vito Da Ros, Giuseppe Fatato, Ruggero Gialdini, Orlando Maini, Giuseppe Martinelli, Francesco Masi, Giuseppe Perletto, Leone Pizzini, Mauro Simonetti. 

[2] Freddy Maertens vinse la prima di tre semitappe, la cronostaffetta di Montecatini Terme di 62,8 km, le altre furono vinte da Knudsen e Moser; la classifica generale da Tommy Prim. 

[3] Tre Valli Varesine 1987. Il 23 agosto, in volata sul rettilineo di via Manin, sole il mattino e diluvio il pomeriggio, fino a pochi chilometri dalla fine, davanti allo svedese Kjel Nilsson, Marco Bergamo, Arno Küttel, GB Baronchelli e Marco Giovannetti.

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