Indiana Hoosiers campioni NCAA '81 - Because the Knight


di CHRISTIAN GIORDANO ©

Che anni, quegli anni Ottanta. 

Giocatori straordinari sparsi un po’ dappertutto, e più college minori capaci di affacciarsi ai playoff. 

Nell’80 i Louisville Cardinals di coach Danny Crum, trascinati dai “Doctors of Dunk” – la guardia Darrell Griffith e l’ala Rodney McCray – batterono in finale (59-54) UCLA, numero otto del ranking. 

I Bruins, alla prima sconfitta in dodici finali con John Wooden allenatore, stavolta vestivano i panni per loro troppo stretti di sorpresa, dopo la mediocre regular season e aver eliminato in semifinale la numero uno, la DePaul di coach Ray Meyer, ancora una volta stoppato a un gradino dal sogno.
Sarà stato un caso o forse no, ma a buttar giù il re dalla collina fu proprio Crum, uno dei più grandi discepoli del Mago di Westwood.

Anche nella stagione 1980-81 il college basketball brulicava di stelle, spostate però un po’ più a est.

Indiana aveva in Isiah Thomas una guardia sensazionale, e North Carolina schierava forse la miglior frontline in assoluto: Al Wood, James Worthy e Sam Perkins. E l’anno dopo, nel reparto degli esterni-dietro, sarebbe arrivata una certa qual matricola, Michael Jordan.

A Virginia invece il prossimo Player of the Year, il centro Ralph Sampson, torreggiava dall’alto dei suoi 222 centimetri. Ancor più impressionanti – perdonate l’autoreferenzialità – intervistati dal vivo a Minneapolis nell’hotel della squadra la mattina della storica finale NCAA 2019, la prima con neanche uno ma addirittura due paisà; e vinta poi dalla sua alma mater di cui a tutt’oggi è tifosissimo totem, i Cavaliers di Francesco (Frankie) Badocchi, contro la Texas State di Davide Moretti. 

I Blue Demons di DePaul volavano sulle ali Mark Aguirre (sì, quel Mark Aguirre) e Terry Cummings, idem a Utah con Tom Chambers e Danny Vranes. Mentre i loro cugini mormoni di Brigham Young si affidavano ai miracoli di Danny Ainge, guardia All-American che in questa storia rientrerà, anche se in ben altro ruolo.

In un’annata così ricca di grandi ali impossibile non citare Rudy Macklin a Louisiana State, Antoine Carr (Olimpia Milano ’83-84, do you remember?) e Cliff Levingstone a Wichita State e il futuro detroitiano Kelly Tripucka a Notre Dame.
Tra i centri, menzione d’onore invece per Steve Johnson a Oregon State e Sam Bowie a Kentucky. Segnatevi quest’ultimo, perché suo malgrado – dal 1984 – diverrà un’icona del Draft come scienza inesatta, e dei Portland Trail Blazers (LaRue Martin, Wally Walker, Martell Webster, Greg Oden…) come suoi inarrivabili adepti.


Nella Division I il decennio si era aperto all’insegna dell’equilibrio, e anche nell’80-81 le sorprese non sarebbero mancate. Specie nei primi turni del Torneo NCAA.
La NBC ne aveva ampliato la copertura televisiva, e quando più partite si sovrapponevano il network mandava in onda gli highlights degli altri match che si giocavano in contemporanea.

La storica finale di Salt Lake City del ’79, vinta dai Michigan State Spartans di Earvin “Magic” Johnson contro gli Indiana State Sycamores di Larry Bird, la più televista di sempre (24,1 di rating, 35,1 milioni di audience), aveva aperto la strada. «Quasi due persone su tre davanti la tv guardarono la partita del 1979 – dirà Len DeLuca, direttore della programmazione a CBS Sports – Fu un gigantesco passo avanti per il basket. Lo catapultò negli anni Ottanta».

I diritti tv per trasmettere il torneo NCAA si sarebbero più che triplicati quando, nel 1982, per 48 milioni di dollari la CBS rimpiazzò la NBC. L’accordo triennale, nei due successivi rinnovi, raddoppiò fino ai 96 milioni del 1985 e balzò a 166 milioni nell’88.

E il (più) bello doveva ancora arrivare. Già dal primo weekend della postseason ’81.

Kansas State eliminò Oregon State, la numero uno a Ovest. Nel derby dei presidenti estinti, la James Madison fece lo stesso con la grande Georgetown. E per il secondo anno in fila la numero uno DePaul (nel frattempo passata di conference dalla West alla Midwest) usciva subito, e per appena un punto: 49-48 contro Saint Joseph’s. 

Il vero botto però arrivò da Austin, Texas, col buzzer-beater di U.S. (Ulysses) Reed di Arkansas che da un metro dietro la metà campo spedì a casa i campioni uscenti di Louisville. 

Per farla breve, quando in off-season la CBS acquisì i diritti per trasmettere il Torneo sapeva bene di aver puntato su un purosangue sì caro, ma vincente.

La Division I del college basketball era già un altro mondo rispetto a quello degli anni Settanta. 

Il tetto massimo di borse di studio per ateneo era stato abbassato a 18 nel 1973 e riportato a 15 nel 1977 (oggi sono 13 in DI e 10 in Division II, nda), e anche se a pagare più dazio erano stati i grandi college, certe gerarchie apparivano ancora inscalfibili.

In cima fra queste, per esempio, la spesso dominante Indiana University di coach Bob (mai chiamarlo Bobby) Knight. Nel 1981 però per lui e i suoi Hoosiers la sfida era diversa e, per certi versi, unica. Come la loro piccola, grande stella dal nome altisonante, Isiah Lord Thomas III.

L’estate del ’79 aveva visto due Hoosiers e “mezzo” – Ray Tolbert e Mike Woodson più la prossima matricola Thomas – protagonisti della nazionale USA di coach Bob Knight nella scontata corsa all’oro ai Giochi Panamericani di San Juan, davanti al Portorico padrone di casa e al Brasile di Oscar Schmidt, futuro idolo casertano.


Sulla scia dell’entusiasmo e della rinnovata fiducia, nell’80 era arrivato il primo di due titoli consecutivi di conference (e poi tre in quattro anni, ma con roster molto rinnovati).

Woodson, al quarto e ultimo anno, aveva chiuso a 19,3 punti di media e da MVP della Big Ten. E Knight da Coach of the Year. 

Il titolo di conference era arrivato con un successo-thrilling all’overtime su Ohio State nell’ultima partita. Ma poi in postseason IU si era dovuta arrendere in semifinale dei regionals alla Purdue di Joe Barry Carroll (Olimpia Milano ’84-85, do you remember?), coi Boilermakers di West Lafayette ben contenti di vendicare a Lexington, Kentucky, la sconfitta subita il 21 marzo al Madison Square Garden di New York nella finale del NIT. E arrivata su errore di Carroll, punito dal sorpasso (53-52) della guardia Butch Carter – co-MVP con Tolbert – a quattro secondi dalla sirena.

E così, alla Final Four di Indianapolis, nel cuore dell’Hoosier State, c’era andata la rivale Purdue e non gli idoli di casa, e favoriti, crema-cremisi di Bloomington.
L’amarezza però avrebbe presto lasciato spazio all’euforia, anche questa però tutt’altro che scontata.


Gli Hoosiers dell’81 erano un gruppo giovane guidato da quella point guard al secondo anno che, a parte la stazza (1,84x80 kg), sembrava avere tutto per rifulgere anche nei pro’. A inizio stagione però era difficile prevedere che quel gruppo avrebbe potuto anche solo ambire al titolo, figurarsi vincerlo.

La squadra quinta nella Big Ten l’anno prima, salutato l’MVP Woodson (a 19,3 punti di media), aveva nell’ala/centro Tolbert l’unico senior in quintetto. 

I titolari dell’80-81, sulla carta, non erano certo forti quanto quelli del ’75 e ’76 (quando IU vinse il titolo da imbattuta), ma la squadra era un gruppo unito di specialisti di talento. 

Tolbert era l’MVP (il nono Hoosier di sempre, il quinto in sette stagioni). L’ala al terzo anno Ted Kitchel una sentenza dalla lunetta (18/18, contro Illinois a gennaio). 

E poi c’era Thomas, voglioso di chiudere in trionfo un tumultuoso e turbolento biennio alle dipendenze del “Generale” Knight, periodo del quale “Junior” – come amici e familiari l’han sempre chiamato – mai avrebbe rivelato dettagli. Nemmeno a decenni di distanza.

Sul complicato rapporto si sa per certo, quindi, quel poco – o tanto, a seconda della prospettiva – che si è visto in pubblico. E cioè sul campo.

Quell’anno Knight affrontava una sfida per lui inedita. Profondo seguace di un basket controllato, votato alla difesa e alla paziente attesa di opportunità di tiro ad alta percentuale, doveva affidarne le chiavi alla point guard forse la più creativa del panorama universitario, per di più appena al secondo anno, e che dava il meglio con spettacolari e istintive jam session per sé e per i compagni. Non proprio l’incarnazione del Knight-pensiero.

La difficile partenza, per non parlare delle reciproche asperità caratteriali, aveva frustrato The General al punto da cacciare Thomas da un allenamento.

E poco tempo dopo, contro UNC in un tiratissimo prequel della futura finale di quell’anno, per aver sbagliato due passaggi azzardati lo avrebbe addirittura panchinato fino alla sirena, e al conclusivo -9.

Con gli Hoosiers a 7-5 però, Knight lo nominò co-capitano e gli riaffidò, con maggior libertà, le chiavi della squadra.
Chiusa la Big Ten a 14-4 (26-9 in regular season) con la ripassata per 69-48 di Michigan State (da due anni senza più Magic Johnson, subito protagonista e campione in NBA) che aveva regalato a Knight il sesto titolo di conference, gli Hoosiers si apprestavano a una postseason trionfale.

Allegre scampagnate a +27 di media contro Maryland (99-64), Alabama-Birmingham (87-72) e, in finale dei Regionals a Bloomington, St. Joseph’s (78-46). 

E persino alla Final Four, la quarta per Knight: 67-49 in semifinale sui Louisana State Tigers di coach Dale Brown, 63-50 in finale sulla North Carolina del capocannoniere Al Wood (192 punti), seconda a 29-8 nella ACC. 

Gara giocata la sera del 30 marzo, poche ore dopo l’attentato delle 14:27 al presidente Ronald Reagan: ferito da uno dei sette colpi di arma di fuoco sparatigli da John Hinckley, lo squilibrato texano innamorato dell’attrice Jodie Foster dalla quale – col folle gesto – intendeva farsi notare, all’uscita dal Washington Hilton, l’hotel della capitale dove la mattina si era tenuto un discorso sindacale. 
Mai nella storia della NCAA era saltata la finale, neanche durante la Seconda guerra mondiale o gli scandali-scommesse del ’51 e del ’61. Ci riuscirà la pandemia da Covid-19, e solo nel 2020.

In quelle poche, concitate ore dovevano essere prese almeno due storiche decisioni: con il presidente in pericolo di vita in un ospedale della capitale, l’NCAA Tournament Committee avrebbe consentito di far disputare la finale? E nel caso, l’NBC l’avrebbe trasmessa in prime time, nel pieno bailamme delle notizie provenienti da Washington?

L’aspetto curioso, e letto con gli occhi di oggi ancor più surreale, è che la consolation game per il terzo posto – l’ultima nella storia del torneo – comunque si giocò, e la vinse Virginia su LSU. 

Mentre la finale, nelle concitate consultazioni fra Comitato NCAA, dirigenti NBC e rappresentanti delle due squadre, fino a trenta minuti dal tip-off fu davvero a rischio rinvio.

Il fattore decisivo per l’okay a giocare fu la notizia che il presidente era fuori pericolo.

Show must go on, e da pur mediocre ex attore hollywoodiano forse anche lo stesso Reagan sarebbe stato dell’idea.

E così, contro i Tar Heels di coach Dean Smith, guru dell’attacco Four Corners, e delle stelle Al Wood, James Worthy e Sam Perkins va in scena l’ultimo Isiah Thomas Show collegiale.
Il primo atto però se lo prende subito UNC che allunga sul 16-8 con Perkins e Wood. Knight allora corre ai ripari piazzando l’altro Thomas, il sesto uomo Jim, su Wood e Turner su Perkins. Funzionerà: nel secondo tempo il tridente biancoceleste porterà a casa – insieme – appena cinque punti.

Il resto lo mette un caldissimo Randy Wittman, il cui jumper da fuori sulla sirena dell’intervallo manda Indiana avanti di uno.

Nella ripresa, però, il protagonista annunciato sale alla ribalta già dalla palla a due: recupero, e sottomano in entrata. Poi una serie di assist telecomandati per il povero Landon Turner (che dopo un incidente d’auto in off-season rimarrà paralizzato), un altro paio di palloni rubati per susseguenti punti “facili” e due jumper telecomandati. 

Al quoto: dieci dei suoi 23 punti totali, top scorer della gara, nei primi sette minuti della ripresa, e nel solo secondo tempo quattro recuperi, decisivi per il titolo di campioni NCAA. 

Il quarto e penultimo per gli Hoosiers, il terzo in 29 anni in panca agli Hoosiers per The General.

Tornato in cima cinque anni dopo, nello stesso posto: di fronte ai 18.276 dello Spectrum di Philadelphia. Il palazzetto di Rocky, e ormai un po’ anche suo. 
Prima volta invece ancora rimandata per coach Smith, che l’anno venturo sarà più fortunato grazie al “The Shot”, a 17” dal termine, di una matricola d’eccezione: Michael – ancora per tutti Mike – Jordan. 

Per Thomas, miglior marcatore di IU a 16 punti di media e inevitabile Most Outstanding Player, pure i primati di ateneo per assist (197) e recuperi (74) in una stagione. 

Pur soltanto un sophomore, “Baby-Faced Assassin” era già pronto per il piano di sopra. \E poter così comprare agli otto fratelli e a mamma Mary tutto ciò che, nel ghetto del West Side, era loro sempre mancato. 

Per “Junior”, ormai diventato grande, era ora di tornare. O almeno così sperava.

CHRISTIAN GIORDANO

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