Giovanni Mantovani - Il dramma di "Otello"
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books ©
Guido Visconti (Milano), venerdì 30 novembre 2018
- Giovanni Mantovani, per chi non l’ha vista correre, che bel corridore è stato… Giovanni Mantovani?
«Allora, a una tappa del Giro d’Italia, mi ha fatto molto onore un grandissimo campione che si chiama Bernard Hinault. Io stavo facendo un’intervista – allora c’era Adriano De Zan – e lui, Bernard Hinault, era venuto sul palco per l’intervista, perché era detentore della maglia rosa. E De Zan gli aveva chiesto…».
- Quindi siamo a che Giro?
«Nell’84, mi sembra. E gli ha chiesto, appunto, cosa ne pensava di me e lui gli ha detto che io ero veramente in buon corridore, un bravo corridore. E quindi per me... Io non sono stato un grande campione, però ho avuto i miei risultati. Sono molto contento di quello che ho fatto. E quello che mi ha detto Bernard Hinault quel giorno lì, mi ha fatto veramente molto piacere. È un onore. Son stato giudicato (da Bernard Hinault) un buon corridore, quindi per me è importantissimo».
- Con che caratteristiche? Velocista ma non solo...
«Sì, principalmente ero un velocista però quando io trovavo la mia bella condizione, riuscivo a tenere anche nelle salite. Quindi era difficile anche staccarmi e allora potevo vincere anche delle belle corse, tanto è vero che ho vinto anche un Giro del Veneto. Che all’epoca allora era veramente impegnativo, perché si faceva prima un giro lunghissimo, di cento e passa chilometri, e poi c’erano due giri nei Colli Euganei che erano circa cinquanta e rotti chilometri dove c’erano tutti questi colli, saliscendi, eeehhh… E sono riuscito anche a vincere un Giro del veneto. E poi anche qualche tappa del Giro d’Italia e insomma altre gare, ecco. Quindi mi ritengo abbastanza fortunato».
- Ecco, mi dà un assist perfetto, perché in tanti dicono: Giovanni Mantovani, gran bel corridore ma tanto, tanto sfortunato. Perché?
«Eeehhh… [espira profondo, nda] Bisogna tornare nel 1978. Quindi, io passo professionista nel 1977 alla Brooklyn, con [Roger] De Vlaeminck».
- Una signora squadra, con Cribiori diesse…
«Sì, con Cribiori… quindi e già lì avevo già ottenuto la mia prima vittoria dei gran bei risultati come piazzamenti, ho battuto anche ai Paesi Baschi un [Freddy] Maertens campione del mondo, che tra l’altro aveva parlato con De Muynck dicendogli che l’anno dopo mi voleva in squadra con lui. e io gli ho ribadito che non volevo andare con lui perché volevo batterlo. E lui… [sorride, nda] e da allora comunque quando ci si vedeva, eeehhh… È stato quasi un amico, con Maertens, e ha fatto... Anche lì, mi ha fatto molto piacere, però, purtroppo, nell’inverno tra il ’77 e il ’78 ho avuto una malaugurata idea di allestire una slitta facendola trainare da un cavallo, d’inverno, a gennaio».
- Con suo nipote.
«Nipote, proprio, figlio di mia sorella. Son salito su, e il problema era che il cavallo non era abituato alla slitta ma era da sella, quindi quando è partito io non ho messo le sbarre ma ho messo della corda. Gli è partita, ha colpito le zampe dietro, è partito imbizzarrito praticamente. Io sono riuscito a rallentarlo, in fondo al campo, perché c’era un grande fosso. Ho preso il nipote, l’ho buttato giù, nel momento in cui…».
- Era un bambino, il nipote?
«Sì, avrà avuto cinque sei anni… L’ho proprio fermato, l’ho buttato giù poi ho mollato le redini per saltar giù io. Nel momento in cui ho mollato le redini, è partito e mi ha preso in pieno la gamba sinistra, me l’ha girata. Cioè praticamente mi ha spappolato il femore. E lì per lì mi sono accorto subito perché quando ho guardato la gamba ho visto che non era piegato il ginocchio ma era piegata proprio la gamba centrale. Ho preso…».
- È riuscito a mantenere la lucidità?
«Sì, sì… Ho preso la mia gamba e l’ho raddrizzata subito, dopo… Dopo, è stato un dramma. L’ospedale. Non sapevano cosa farmi. Ho firmato per essere operato e portato lì al “Gaetano Pini”. Mi hanno fatto un intervento dopo circa un mese perché avevo un ematoma talmente enorme che non potevano intervenire. Mi hanno operato. Ho messo una placca con quindici viti. Solo che nell’operazione mancava veramente un bel pezzo d’osso, era tutto frantumato e mi si è allungata la gamba e poi si è anche stortata. Quindi da quel intervento lì’ ne sono uscito però non ero più io. Mi sono accorto che non ero più il Mantovani di prima. Ho continuato la mia carriera, la mia attività. Ho vinto circa venti-venticinque corse. Nonostante il problema che io ho avuto, per la mia costanza. Proprio perché io desideravo,. Volevo a…».
- Come ha fatto in quei tempi lì a sistemarsi in bicicletta con una gamba più lunga e una più corta? Che stratagemma avete usato?
«Eh, allora, "stratagemma"... Per compensare i due centimetri alzavo la suola della scarpa destra e circa un centimetro e mezzo il pedale. Mi facevo fare un pedale…».
- Le pedivelle? Uguali, quindi?
«Le pedivelle erano uguali però era il pedale… Dargli quel mezzo centimetro di spessore e quindi riuscivo a compensare i due centimetri perché sennò avevo sempre problemi».
- In che senso non era più il Mantovani di prima, che cosa era cambiato?
«Era cambiato soprattutto con la forza della gamba sinistra. Perché prima io partivo, mi chiamavano, avevo le gambe "gemelle", allora si utilizzavano determinati termini…».
- È per dire che aveva la stessa potenza in tutte e due le gambe?
«Per dire, partivamo per far la volata, potevo partire sia con il sinistro sia con il destro. E dopo…».
- Una cosa non così comune tra i velocisti…
«No. No… no. Non è semplice perché magari uno mentalmente lo sa che magari con la gamba destra ha più forza, allora… quindi dà la priorità a…».
- Si ricorda magari qualche altro corridore che era simile a lei o invece quelli che andavano più con una gamba, per dire? Se lo ricorda?
«Ecco, questo non me lo ricordo. Ecco in questo momento… Ah, no, ecco: c’era anche Saronni».
- Anche lui era così, destra e sinistra?
«Saronni, anche lui poteva fare sia da una parte sia dall’altra. Io invece dopo non ero più quello di prima, dovevo comunque calcolare».
- Quindi anche mentalmente era condizionato?
«Eh sì. Eh sì… Dovevo sempre calcolare che quando dovevo partire ai duecentocinquanta metri, dovevo esser sempre in posizione col destro. Perché col sinistro avevo più difficoltà anche perché poi il muscolo si era completamente atrofizzato, quindi avevo una gamba che era…».
- Quanto ci ha messo a tornare, due anni? A tornare in gara…
«Io ho fatto una di quelle cose… Io nello stesso anno che mi son rotto il femore, nel ’78, avevo ancora la placca con quindici viti, ho partecipato alla Tre Valle Varesine e ho fatto più di centocinquanta chilometri da solo in fuga. Difatti su dei vecchi filmati ogni tanto mi vedo che sono lì che De Zan rammenta appunto che io ho fatto l’intervento e… e nonostante ciò sono lì, in fuga alle Tre Valli Varesine, da solo, no? E quella sera lì, mi ricorderò sempre, il professore che mi ha operato mi ha chiamato, mi ha alzato di peso, perché probabilmente io non mi rendevo conto. Se io cadevo, mi si spappolava tutto perché avendo dentro quindici viti, nell’osso, non… cioè veramente… ma però era talmente…».
- ...la voglia di…
«La voglia di andare, di fare».
- Strano che l’abbiano fatta idoneo, no?
«Non lo sapeva nessuno». [sorride furbetto, nda]
- Ah, ecco.
«Cioè non sapevano che avevo dentro la placca».
- Oggi non passerebbe neanche… ma neanche in allenamento. L’assicurazione non la coprirebbe eccetera.
«Nooo. Ma oggi, no-no, assolutamente. Ma allora…».
- Altri tempi.
«Erano altri tempi, cioè veramente… Non si pensava a… niente. Io pensavo… Perché per me era la mia vita, cioè la mia passione. Io ero arrivato a diventare professionista e quindi vederla andare in quella maniera lì, mi aveva creato veramente un grosso, grosso dispiacere».
- Ventidue anni, no? Classe 1955, al ’77-78…
«Sì, sì… quindi ho fatto un anno, poi ho avuto un anno di… diciamo… fra l’intervento e la riabilitazione, e il ’79 ero in squadra con Battaglin e… E ho vinto…».
- L’anno di Battaglin buttato giù al mondiale di Valkenburg da Raas e Thurau.
«Sì, sì esatto. E quell’anno lì abbiam fatto il Giro dei Paesi Baschi e ho vinto la prima tappa».
- Non era l’anno di Maertens quello lì?
«No-no, il ’79 però, eh, cioè: era il mio primo…».
- Sì, perché Maertens aveva vinto il suo primo mondiale nel ’76, il primo dei due.
«Sì. E quell’anno lì, nel ’79, son passato all’Inoxpran e ho vinto con una gamba e mezza una tappa lì al Giro dei Paesi Baschi, quindi cioè però… era veramente… È stata dura, ma veramente dura».
- Lo credo.
«Tanti non si…».
- Non si possono neanche render conto di cosa vuol dire, perché…
«No, no».
- Ma soprattutto in quei tempi. È già un miracolo quello che hanno fatto al “Pini” di Milano.
«Ma lui m’aveva già detto che io non so se tornavo a correre».
- Chi era il professore?
«Il professor [Albino] Lanzetta [1]. E il Gaetano Pini di Milano, all’epoca c’era il quinto piano che era riservato solo per gli sportivi, quindi c’erano tutti. Perché c’ero io, poi c’erano i tennisti, i cestisti, quelli dello sci. Era proprio un reparto creato proprio per gli sportivi. E quindi cioè lui mi ha veramente seguìto bene, eh. Perché all’epoca dove ero andato al primo ricovero non sapevano cosa fare. Invece lui m’ha fatto un intervento che m’ha messo…».
- C’è un dettaglio molto crudo m’ha colpito: lei s’è girato la gamba, ma come ha fatto a girare col femore spezzato? [Espira sofferente, al ricordo, nda]. Come l’ha girata?
«Eh, come ho fatto...".
- Non voglio neanche pensare al dolore…
«No-no, ma in quel momento lì non ho sentito niente».
- Era talmente tanta la…
«Mi son trovato la gamba sotto alla schiena. Questa qua sotto…».
- Roba da svenire anche solo per il panico, no? Prima ancora di rendersi conto del dolore…
«Sì, sì. Io quando ho visto che avevo il piede qua dietro e ho guardato ho visto che il ginocchio che era dritto… allora ho capito subito che era l’osso che si è rotto. Allora ho fatto così con la mano e l’ho raddrizzata…».
- E se avesse aspettato che cosa sarebbe potuto succedere?
«Non lo so».
- E Lanzetta che cosa le ha detto, le avrò fatto i complimenti per… Se non altro per la reazione d’istinto, no?
«Sì, sì…».
- Una roba…
«Sì, ma…».
- Mi ha fatto venire in mente il film tratto dal romanzo L’uomo che sussurrava ai cavalli, all'inizio c’è una scena simile…
«Sì, ma lì è stato veramente… Non lo so…».
- Suo nipote, il nome?
«Tacchini Mario…».
- E lui quanti anni aveva all’epoca?
«Aveva cinque-sei anni…».
- E lui ricorda bene cosa è successo?
«Sì, sì. Anche perché lui siccome eravamo nella campagna, gli ho detto corri a casa a chiamare papà perché mi son fatto male, no?».
- E certo.
«Allora, lì lui ha corso a casa han chiamato l’ambulanza. E l’ambulanza, siccome c’eran giù quaranta centimetri di neve…».
- …non riusciva ad arrivare fino a lì…
«No, no, han dovuto riprendere il cavallo, son venuti con la slitta, mi hanno caricato sulla slitta, mi hanno imbragato, caricato sulla slitta, m’hanno portato in paese col cavallo e poi mi hanno caricato in ambulanza, m’han portato via».
- E il cavallo s’era calmato dopo quella…
«Sì, perché…».
- E chi l’ha calmato?
«È tornato in stalla».
- Da solo?!
«Da solo. È ritornato indietro, si è fermato nel cortile della stalla. È rimasto lì».
- Per la serie: tutti Lassù abbiamo una specie di stellone, vero o no?
«Eh, penso proprio di sì».
- Perché sennò queste cose non si possono spiegare.
«No… E lì per me è stata un po’…».
- Le è cambiata la vita, in tutti i sensi.
«Eh sì, purtroppo è…».
- E come siamo arrivati invece al ciclismo? È una passione ereditata da qualcuno, da bambino?
«Allora è iniziata da mio cugino che si chiama anche lui Mantovani, Maurizio, grandissimo corridore anzi forse penso più di me, solo che lui non era un ragazzo… gli piaceva divertirsi».
- Non aveva la testa per far la vita, eh?
«Esatto. Quando era il momento di fare la vita, non… e quindi io ho seguito lui. Seguivo lui, andavo a veder lui a correre perché era veramente ma veloce, proprio veloce-veloce. E da lì ho iniziato ad andare in bicicletta. E ho cominciato proprio a fare tutte le categorie…».
- A sedici anni, quando ha iniziato sul serio.
«A quindici. A quindic’anni. Ho fatto esordiente, allievo, juniores. Due anni . poi prima e seconda, due anni e poi son passato professionista».
- E quando ha capito che poteva avere un futuro nel ciclismo?
«Eh, quando ero passato da juniores dilettante di prima e seconda. Perché io vedevo che non facevo fatica, e vincevo senza problemi. Per me, io andavo e mi divertivo. Per me era un divertimento. Mi allenavo poco, quindi. Eppure arrivavo, quando arrivavo vincevo, non avevo problemi, e allora lì ho..,. però c’è stato uno bravo, un direttore sportivo, e si chiama Toni Bailetti, che era mio direttore sportivo della Lainatese-Brooklyn, che anche lì avevano fatto il vivaio…».
- Perché dalla Lainatese sono usciti Pacho Lualdi, ce n’erano due o tre che poi sono andati tutti alla Brooklyn, che è diventata una specie di società-satellite, no, per la Brooklyn, vero?
«Sì. Alla Brooklyn. Difatti in quell’anno lì siam passati dalla Lainatese alla Brooklyn io e [Carlo] Zoni di Brescia [insieme nella Lainatese nel 1974 e 75, entrambi pro’ alla Brooklyn dal ’77, nda]».
- Ce n’era anche un altro che è durato poco, mi sembra…
«[Alvaro] Crespi, mi sembra».
- Dalla Lainatese ha fatto il salto alla Brooklyn però poi ha fatto solo un anno da pro’…
«E [Carlo] Zoni. Zoni un anno ha fatto». [In realtà quattro: 1976 e 1977 alla Brooklyn, poi il biennio con Boifava: Selle Royal-Inoxpran nel 1978 e Inoxpran nel 1979, sempre con Mantovani come compagno di squadra; nda].
- Ma era così duro il salto nei pro’, proprio un altro mondo? Valerio "Pacho" Lualdi mi ha detto che al primo ritiro, in Liguria, era già al gancio appena uscito dall’albergo…
«Sì, sì. Soprattutto quando proprio il salto vero e proprio avveniva quando passavi i duecento km. E lì fai la selezione».
- Quello anche adesso però eh penso a Elia Viviani, fino ai duecento km ce la fa, ai duecentocinquanta non ce la fa più.
«Esatto. Difatti lì è il chilometraggio che fa la differenza».
- Tra chi ha fondo-fondo e chi no…
«E in più quando iniziavano le salite. Cavoli, magari in pianura andavi a trenta [km] l’ora, iniziavano le salite, andavano a quaranta. Cioè quindi doveva averne nel salto. E allora lì chi riesce a sopperire la sofferenza di tenere quegli sforzi lì e poi piano piano si adegua e riesce ad arrivare fino in fondo».
- Lei come fisico era compatto, sui 69 kg o un po’ meno?
«No, io ero 65-66».
- Per 1,70?
«Io sono 1,70 quindi il mio peso era giusto, 65-66 chili. Però tanti dicevano ma come fai a non andare in salita? Per via della mia statura e del mio peso».
- Eh, mica tutti siamo uguali, dipende anche da… massa muscolare, dalla struttura ossea…
«Eh, però andavo forte in volata, hai capito? E quindi non era non riuscivo nemmeno io a capire. A volte per esempio non mi staccavano in salita…».
- Non per niente si parla di “motore”, no? È il motore quello lì…
«Eh. E invece c’eran delle volte che magari su un cavalcavia mi staccavano. Anch’io non riuscivo a capire, a comprendere, specialmente i primi periodi».
- Com’era avere Cribiori diesse.
«Mah, io mi son trovato bene anche perché era uno che non ti diceva, parlava poco e ti diceva: Guarda che se ti sei allenato, vai meglio per te, se non ti sei allenato è peggio per te. Quindi ti diceva cosa dovevi fare. Poi se lo facevi, bene, se non lo facevi va bè erano cavoli tuoi, eh. Poi io invece no, avevo la voglia di fare e quindi non avevo problemi. E lì…».
- Dalla Brooklyn alla Selle...
«Selle Royal era, Selle Royal. Ed era proprio quell’anno che io ho avuto un grosso incidente. Il ’78 io siccome chiudeva la Brooklyn…».
- Che giorno era quello dell’incidente, se lo ricorderà senz’altro. Era gennaio… quindi poco prima di cominciare la preparazione?
«Era gennaio, allora sì perché io tra l’altro dovevo fare anche la Sei Giorni quell’anno lì».
- A Milano.
«A Milano, sì. Allora c’era anche il Palazzetto che era ancora in piedi».
- Non il Vigorelli?
«No, quello nuovo. Il Palazzetto lì vicino a…».
- Quello che è venuto giù con al neve dell’85.
«Esatto. E perché io il primo anno l’ho fatta con [Ronald] DeWitte, alla Brooklyn. La Sei Giorni di Milano, e l’anno dopo avrei dovuto rifarla con uno che faceva le Sei Giorni, ma uno che andava forte, quindi ero già portato per andare a far la classifica, no? Solo che ho avuto l’incidente proprio penso a metà gennaio. A metà gennaio del ’78».
- Perché aveva lasciato la Brooklyn?
«Perché ha smesso, ha cessato l’attività”.
- E Cribiori non ha pensato di portarla con sé?
«No, perché lui non aveva trovato ancora lo sponsor, quindi ci ha lasciato liberi».
- La Brooklyn era una piccola-grande squadra, con un grandissimo corridore, De Vlaeminck. Erano solo in tre però [a gestirla]: Cribiori, la moglie e se c’era un massaggiatore e il medico che veniva solo per le corse, come faceva a mandare avanti la squadra così, in due.
«No no, be’, lui faceva il direttore sportivo».
- La moglie si occupava degli alberghi, prenotazioni, quelle cose l’…
«La logistica, sì, sì, e poi c’era il medico ma il medico ma il medico non è che veniva sempre. Veniva a certe corse, e basta».
- E anche le altre squadre erano organizzate così.
«È più o meno erano così, sì. Eravamo tutti su quel piano lì. dopo piano pianino, ci siamo evoluti quindi avevamo bisogno di avere un medico sempre vicino. Il direttore sportivo affiancato oltretutto dai massaggiatori, meccanici e poi dopo è arrivato anche quello che faceva il team manager, m insomma… Si è un pochino…».
- Dov’è che c’è stato un primo cambiamento, già all’Inoxpran?
«No, no, più avanti, più avanti… Verso… Secondo me verso gli [anni]… ’86, ’87…».
- Quindi quando Davide Boifava era già alla Carrera che era una signora squadra…
«Sì, sì, sì».
- Perché c’era Belleri team manager [anche se allora non si chiamava così, nda].
«Sì-sì-sì, più o meno sì».
- Ma perché un velocista come Mantovani va in squadra dove c’è De Vlaeminck che tanto si sapeva che si correva per lui, no? O no, non si facevano quei ragionamenti?
«Allora, io venendo dal vivaio e ho visto che comunque numeri c’erano, allora mi hanno preso per avere un qualcosa di giovane visto che poi quell’anno lì è “passato” anche Saronni e io e Saronni ci scontravamo sempre, quindi,. Era una lotta fra noi due. Perché quell’anno lì poi io ho vinto i campionati indoor in pista battendo proprio lui, Saronni».
- Che veniva dalla pista…
«Che veniva… Esatto».
- Ancora più merito quindi.
«Ma poi ci si conosceva. Io e il Beppe poi ci allenavamo [insieme]. Eravamo amici. Però in bicicletta eeehhh, io facevo la mia corsa e lui la sua no? E quindi lui ha visto in me le potenzialità, ma non solo lui, anche De Vlaeminck aveva visto che avevo dei numeri. Ecco, l’unica cosa che mi dispiace che Cribiori non mi ha fatto fare, quello non… è il Giro d’Italia. M’ha lasciato a casa».
- Perché non la riteneva pronto?
«Perché diceva che ero troppo giovane. E invece De Vlaeminck…».
- Perché ai tempi c’era…
«Sì, c’era quella mentalità. E invece il De Vlaeminck gli aveva detto: Portalo. Perché lui non ha fatto il Giro d’Italia, e lui gli ha detto: Portalo, perché quello lì…».
- Quello ti vince una tappa. Almeno.
«Esatto. E invece lui no no no, e m’ha lasciato a casa. È andata così. Sennò io quell’anno lì veramente ero ai livelli di Saronni, veramente. Ci si scontrava sempre. Era uno spettacolo». [sorride fiero, nda]
- E invece l’80 due tappe consecutive, no?
«Sì, sì. Nell’80 è stato…».
- Quella prima di Palinuro.
«A Sorrento».
- Sorrento e poi Palinuro.
«E poi Palinuro, sì. E lì è stato il mio diciamo l’anno che effettivamente ho ripreso dopo quel.. due anni dall’intervento. E lì avevo capito che comunque ero ritornato non al 100 percento ma all’80. E lì difatti ho vinto due tappe».
- Quell’anno lì Hinault strepitoso, è stato l’anno della Liegi della neve, il Giro, Sallanches il mondiale più duro di….
«Che poi io ho perso il mondiale, su pista. Sono arrivato secondo. E lì mi son girate le balle perché l’ho buttato via».
- Perché?
«Perché mi han mandato in confusione, avevo il direttore sportivo, Marino Vigna, cioè il commissario tecnico, poi c’era De Lillo…».
- Domenico…
«Domenico, che uno mi diceva una cosa, l’altro mi diceva l’altra, a un certo punto io sono andato in confusione e ho perso per tre punti, ma proprio buttato via».
- [Col senno del poi] chi aveva ragione, lì? Vigna o De Lillo?
«Vigna. Vigna, sì… Perché…».
- Non gliel’ho chiesto a Nico, sono andato a casa sua….
«Perché… è successo questo: io ho incominciato a vincere… Sai che ogni tre-quattro giri ci sono le volate a punti, e ho iniziato a vincerle quasi tutte, quindi son passato in testa e praticamente dopo una volata ci siam trovati in quattro, davanti, il resto è rimasto staccato. Abbiamo proseguito e stavamo prendendo il giro. Allora uno mi diceva di entrare di entrare, quell’altro mi diceva no, non entrare. Entra, non entra, davanti hanno rallentato, io sono entrato, mentre gli altri tre son rimasti fuori, quindi han fatto altri due traguardi volanti, e uno di quelli lì m’ha messo davanti, per tre punti, io ho cercato – io e Morandi di non farlo più rientrare, solo che cosa hanno fatto? Siccome lui era un pistard, e dopo ho capito, c’era tutto un legame tra di loro che si spartivano, probabilmente, i giochi, no?».
- La torta, sì…
«Cosa hanno fatto? Si sono staccati a uno a uno, uno a uno… quindi questi si sono accodati al primo, l’altro gli ha dato una mano, l’altro una mano, e alla fine mancavano due giri è rientrato».
- E sì che De Lillo ne aveva di esperienza… Dietro motori…
«Eh, ma lì è venuto fuori un casino. E lì ho perso il mondiale, sennò lo avrei… cioè lo vincevo con una gamba. E allora ho detto basta, non son più andato».
- Cioè, basta pista?
«Non son più andato, non ho più voluto andare. Comunque, va be’…».
- Acqua passata…
«Sì, sì…».
- Però con Vigna e De Lillo come è finita, in baruffa?
«No, no… anche perché io ero contento, ero un ragazzo… giù dalla bicicletta per me era già stato tutto dimenticato. Un po’ di rammarico, anzi quando passo c’ho lì la foto, sulla scala, che li guardo mi girano più adesso le scatole…».
- …che allora…
«Perché, dico: quello in mezzo potevo essere io, con la maglia. Me lo dico sempre, quando lo guardo, quella maglia poteva essere la mia…».
- Ma ’sto carattere qua ce l’ha sempre avuto o se l’è formato… O è proprio una roba innata?
«Sì, sì… Cioè, io ho iniziato che avevo quindici anni, ecco ho avuto difficoltà il primo anno, che non riuscivo a stare in gruppo. E continuavo a cadere. Il secondo anno ho preso più…».
- Le misure…
«Più misure, più fiducia in me stesso. E ho cominciato a vincere. Quindi da lì ho cominciato… e poi non facevo fatica. Per me era un divertimento perché andavo, facevo le corse, magari 120 km, vincevo, tornavo a casa, andavo con gli amici, facevo una partita di 90’ al campo. Ma era così, cioè mi veniva…».
- Naturale…
«Naturale. Oppure andavamo nei fossi a buttarci dentro nei fossi a fare il bagno, cioè così… al mattino correvo il pomeriggio ero già là a giocare, a fare…».
- Mi ha fatto venire in mente Visentini, un altro che non sapeva stare in gruppo, sempre defilato. Destra quindicesima posizione a destra. Tutto il vento che prendeva…
«Sì. Sì-sì… Lui sempre o a destra o a sinistra, non riusciva. Anzi io tante volte tra l’altro con Roberto mi son sentito un mese e mezzo fa, che poi tra l’altro m’ha fregato un Giro del Trentino., eh sì a cronometro, l’ultima tappa. E m’han battuto lui e Moser. E io sono arrivato terzo. Io son partito per ultimo perché avevo la maglia, primo in classifica. Solo che da Rovereto andavamo giù a Riva del Garda…».
- A casa sua…
«E quindi.. però loro andavan forte a cronometro, e io… Però sono arrivato terzo. Allora glielo ho ricordato, ho detto. Cavoli, mi hai battuto al…».
- Come mai vi siete sentiti? Vi frequentate ancora?
«Adesso son d’accordo che quando son là in zona lo chiamo, son tanti anni che non ci si vede. E allora ho anche piacere ogni tanto…».
- Perché è una balla quella che lui non frequenta più nessuno dell’ambiente. È una balla.
«No, no… no ma è per quanto riguarda il suo comportamento, veramente aveva paura, io ogni tanto – che lo sapevo – allora quando gli andavo vicino, no quando andavamo forte, eh, quando andavi in gruppo, tranquillo, allora cominciavo ad andargli vicino, no? E lui vedevi che come tu ti avvicinavi piano piano eeehhh poi non c’era più spazio perché c’era il fosso oooeeehhheeeiii! [sghignazza, nda] E io ridevo perché dovevo ma come si fa?! O ma lui…».
- Uno così, no?
«Il vento che ha preso. Lui era sempre all’aria. O da una parte o dall’altra…».
- Maini mi ha detto una cosa bella, Visentini è forte a cronometro, eh ci credo, per lui ogni corsa è a cronometro.
«Era sempre al vento. No, no, è vero, che roba che era, ragazzi».
- Nell’87, al Giro, penultima tappa a Pila, è “riuscito” a cadere in salita…
«Sì, sì. E comunque lui era veramente…».
- Che corridore era, Visentini?
«Era veramente un gran bel corridore. Cioè aveva i numeri, lo vedevi, solo che aveva un carattere un po’… [sbuffa, nda] come si può dire? Che non accettava… Magari anche quando tu facevi delle tattiche, qualcosa che… lui non lo accettava. perché lui era uno spirito libero, non voleva… tanto è vero che…».
- Lo è ancora…
«Sììì. Tanto è vero che quello che poi gli hanno combinato…».
- Eh, vista da corridore, che cosa gli han combinato?
«Eh, gli han combinato che l’han lasciato da solo nel momento…. Secondo me, lì, era studiata».
- Ah sì, eh?
«Sììì».
- Ma da Roche e Schepers? O da mezzo gruppo, tipo Argentin e…
«Ma anche da… Sì, sì, no, lì è stata studiata da…».
- Però lì Roberto è stato ingenuo. Perché uno come Argentin, se tu gli dici: "Eh, quest’anno per prendere il ritardo di Argentin ci vuole la sveglia…”.
«Eh sì».
- Quello te la fa pagare alla prima, no?
«Eh sì. E difatti… ma non solo ma anche dal suo team secondo me c’è stato qualcosa…. E difatti tanto è vero che quando fanno…. Boifava…».
- La festa per il trentennale, l’anno scorso, a Caldiero, il 30 settembre 2017.
«Lui non va. Lui non va perché sa che comunque gliel’hanno tirata».
- Però comunque ha ancora buoni rapporti con Bontempi, con Cassani…
«Sì, sì, coi corridori qua italiani, sì-sì…».
- Roche non vuole neanche sentire nominare.
«No, anche perché è stato veramente un…».
- Quindi lei non ci crede a una cosa nata in corsa, l’hanno preparata a tavolino?
«Secondo me sì. Qualcuno lì l’aveva già studiata perché…».
- Ma qualcuno in squadra o qualcuno… cioè lui e Schepers con Valcke, il meccanico?
«Con qualcuno lì della squadra e qualcuno anche fuori da… Perché gli stranieri…».
- Bagot e Millar correvano per lui, tanto l’anno dopo sarebbero stati suoi compagni nella Fagor…
«Esatto. Quindi c’era la combutta, e gliel’hanno fatta. Poi, didietro, Boifava fa tirare la squadra quando hai là uno…».
- Ma perché? Alla fine non conveniva a nessuno, no? Perché saranno gli altri a dover… Lui era in rosa. Saranno gli altri a sbattersi per andare a chiudere il buco, no?
«Eh, difatti lì non si è capito».
- O è andato nel pallone anche lui, perché…
«Probabile».
- Davanti c’era Quintarelli, nella seconda ammiraglia ma quella più avanti lungo la strada.
«Sì».
- E dietro, Boifava stava sulla maglia rosa.
«Con la maglia rosa».
- Cribiori mi ha detto che anche lui gli ha dato una mano con dei suoi gregari, perché vedeva che sto ragazzo in difficoltà, perché poi Visentini era andato nel pallone, non ha mangiato, perché Sappada è una salita ma non una salita… no?
«No, no ma già lui non era uno che non mangiava. Mangiava poco. Quindi poi…».
- Metti tutto insieme…
«Metti tutto insieme, poi calcola che comunque quando arrivi lì hai già fatto tre quarti del Giro d’Italia, quindi sulle spalle ne hai di fatica, eh. Non sembra ma… a essere là in classifica, a tenere nei momenti cruciali, ne spendi di energie, eh».
- Non solo fisiche ma anche nervose.
«Eh, e soprattutto mentali, anche. Perché, secondo me, ecco, quello che fa la differenza, il campione, è la testa. Che riesce a… in alcuni momenti, i più delicati…».
- A rimanere lucido..
«A rimanere lucido, capire e riuscire a passare magari quegli attimi di difficoltà».
- In questo Roche era un maestro, anzi un mostro.
«Sì. Lui era un…».
- Che ricordi ha di Roche? Era l’opposto di Roberto per certi versi, no?
«Sì, sì, sì… E poi, quell’anno lì, lui ha fatto una cosa incredibile: Giro d’Italia, Tour e campionato del mondo; cioè ha trovato un anno…».
- Prima aveva vinto il Romandia. Ha forato nel finale della Parigi-Nizza, è stato fortunato perché Kelly lo ha attaccato con tutti i propri gregari e non solo.
«Ah be’, Kelly era un bastardo».
- Roche ha buttato via la Liegi '87, lui e Criquielion…
«Questo qua… tun! Li ha seccati».
- Dopo anche lì ci sarebbe un po’ da parlare, eh., però con il dottor Grazzi e compagnia, i conconiani, però va bè…
«Eh, va bè. E lì comunque c’eran già tutte le evoluzioni. C’eran già tutte le evoluzioni…».
- Lei è riuscito a salvarsi, a venir via prima del tempo. Per fortuna. Per fortuna, nella tanta sfortuna, no?
«Sì. Sì… no no, guarda io…».
- Quand’è che è cambiato tutto, nell’89? O anche prima?
«Nell’86-87. C’era stato già l’inizio di tutta questa…».
- E allora i conti tornano…
«Sì, perché…».
- Già all’olimpiade di Los Angeles ’84 erano tutti atleti CONI con Conconi.
«Con Conconi, esatto, sì-sì».
- Ma voi in gruppo avevate questa sensazione del cambiamento? Herrera li chiamava i culoni, che fino al giorno prima li staccavi e poi vedevi che in salita andavano al doppio.
«Eh! Ma io ho visto diversi corridori che dicevi: ma come fanno?!».
- Col polpaccio come una quercia.
«Perché dici: ma cavolo, se si staccavano prima sul cavalcavia, adesso mi stacco io e sono lì ancora?!».
- Anche Argentin si era accorto di…
«Eh. Cioè veramente… C’era qualcosa che stava cambiando».
- E cambiando troppo, rispetto a ciò che si prendeva negli anni Settanta o….
«Troppo, sì. Guarda, io mi ricordo quello che facevo io, prendevo il Levosan, la caffeina, c’eran delle pastiglie di caffeina che ti spaccavano lo stomaco, difatti non riuscivi neanche a mangiarle. Poi facevo le flebo per cercare di reintegrare zuccheri, basta, cioè non c’erano…».
- Però mi ricordo che alle sei giorni, soprattutto i belgi, c’era la famosa – o meglio: famigerata – pot belge [2], la “pozione belga”, amfetamine con…
«Sì, sì… no lì allora bisogna distinguere le due cose, quando tu facevi i circuiti, le sei giorni, così, non c’erano il controllo, potevi afre anche con l’amfetamina. Volendo. Ma quando facevi le corse che contavano, le corse di tutti i giorni, a partire dal Laigueglia, allora c’era il Trofeo Laigueglia, c’era il Giro della Sardegna regolari controlli antidoping, e lì se prendevi l’efedrina, ti beccavano positivo, perché se tu prendi il Bronchenolo, del bambino, c’è dentro l’efedrina, eri positivo. Cioè quindi il controllo c’era, magari non c’era in determinati circuiti, che uno diceva ma sì, va… mi do un aiutino, però…».
- Perché, poveretti, si facevano anche i trasferimenti.
«Anche i trasferimenti».
- Dormivi in dei postacci, era proprio un altro mondo.
«Sì, sì, poi io mi ricordo che ho fatto il Tour nel ’79. Io ho fatto il Tour nel ’79 che avevo una gamba e mezza e ci facevan fare di quei trasferimenti, da sfinimento, eh. Cioè, poi gli alberghi noi avevamo…».
- Chiamiamoli “alberghi”, c’erano dormitori nelle palestre delle scuole…
«Guarda che quando abbiam fatto il ritiro al Tour per la partenza e la punzonatura, eravamo in una caserma eh. Eravamo tutti i corridori del Tour di quell’anno lì tutti in un casermone diviso da panforte, cioè quei pannelli di legno…».
- Quella specie di separé.
«Di separé…e ognuno aveva quelle cose lì, quindi eravamo tutti lì. C’era stato Merckx allora c’era ancora Merckx, ho avuto la fortuna di correre con Gimondi Merckx, Bitossi…».
- Hinault. Insomma lei quattro o cinque buoni ne ha visti…
«Eh. Merckx gli aveva detto a Lévitan e a Goddet che non voleva dormire lì. e loro gli han detto: sì, sì tu vai dove vuoi, ma non parti al Tour. È rimasto lì».
- I corridori contavano zero, vero?
«Ah sì. È dovuto rimanere lì. Perché lui non voleva star lì, perché lì era un marasma. Perché poi io guarda mi ricordo perché poi quando andavi per mangiare, avevi quella mensa e ti dovevi metter là col vassoio, in fila, non è che ti davan la precedenza. Perché tu eri un corridore. No. C’eran giornalisti…».
- Tutti nello stesso.
“Tutti. E tu dovevi rimaner lì, non è che per i corridori c’erano…».
- E dopo che avevi fatto 250 km…
«Eh. Non è che per caso dovevi avere una corsia preferenziale visto che te eri uno che partiva il giorno dopo. No. Dovevi star lì. Portavamo da casa, io mi ricordo Boifava, s’è portato delle forme di grana, pasta, prosciutto e alla sera mangiavamo i pezzi di grana, un po’ di prosciutto, la pasta mandavano i massaggiatori per fargli cuocere la pasta in sei-sette minuti… non volevano prima di tutto che i cuochi entravano dentro nella cucina e continuavano a dirgli: Guardate che la pasta al massimo sette minuti. Era colla. Non so se lo facevano apposta o che roba. Era immangiabile. Perché la pasta ce la siam portata noi, dall’Italia. Perché ci davan il brodo, eh. Il potage, da mangiare».
- Sì, sì, la zuppetta…
«Con un pezzettino di pesce lesso. Dove vai? All’epoca, una volta [era così]».
- Ma perché questo? Perché alla fine Felix Lévitan e Jacques Goddet volevano risparmiare?
«Eh, probabilmente sì».
- O anche perché da loro c’era questo mito di Henri Desgrange che il Tour è perfetto era quello in cui non arrivava nessuno, o uno?
«Esatto, sì, sì- Avevano… ma…».
- Cioè una roba disumana ma fatta apposta.
«Sì, sì”.
- Se un corridore cadeva, la macchina di Goddet passava e neanche si fermava. Quello poteva anche esser morto
«No, no, via. Si arrangiava il medico, didietro, a far l’assistenza…».
- Me l’ha raccontato anche Simone Fraccaro, che ha visto questa scena e ancora se la ricorda.
«No, no, io mi ricordo perché sono caduto anch’io. Mi sono spellato tutto… Posso?».
- Due negrieri, mi vien da dire.
«No, peggio. Peggio. Lo dico dopo perché io sono stato proprio quell’anno lì l’ho vissuto, erano veramente due persone ignobili, eh. Ignobili».
- Sì, quasi sadiche mi vien da dire, che più vedevi la sofferenza dei corridori, più per loro il Tour era riuscito.
«Esatto. Per loro era il Tour era quello che dava la gloria».
- Il Tour fa il campione, e il campione fa il Giro. Ancora c’è questo mito…
«Esatto. Sì-sì».
- Arriviamo alla Hoonved: bella squadra, quella lì, no? Con…
«Sì, era con… avevamo…».
- Si chiamava Dall’Oglio il patron no?
«Era Dall’Oglio. E quindi quell’anno lì io son stato contento perché ho trovato la mia miglior condizione che ho vinto diverse corse, quindi… Con Zandegù mio direttore sportivo». [ride, nda]
- Quello è un bel personaggio, Zandegù direttore sportivo, vino non mancava di sicuro per festeggiare, dico.
«No, quello non mancava, no? Il… era tutto… allora diciamo che nel complesso Zandegù era un casinista…».
- Però c’era una bella atmosfera, vero?
«Sì. Non era…».
- Non era organizzato però…
«La sua tattica di corsa era un disastro. Perché? Perché facevamo le riunioni, no?, prima della partenza in una camera. E quindi, in base alla corsa, se era pianeggiante oppure ondulata oppure con arrivo in salita, allora c’erano i vari corridori che puntavano ad arrivare a quelle tappe, no? Allora lui faceva delle tattiche per dire: io ero velocista e poi c’era il Mario Beccia che era scalatore, no?».
- Non troppo gestibilissimo, eh?
«Allora lui divideva la squadra: la divideva nel senso, sei con lui e quattro o tre con me, per cercare di… allora diceva: allora, tu, tu e tu state vicino al Mario. Tu, tu e tu, vicino a Giovanni. Poi allora tu ti metti in partenza perché partono subito forte, cioè lui già prevedeva la tattica che pronti via partivan già allora tu dovevi star là entrare subito nella fuga, poi passava qualche minuto, allora ricapitoliamo, quelli che davi a me, allora tu, tu, tu devi dare al Beccia, quelli del Beccia me li dava… e allora c’era Santimaria che era forte, no? Mi diceva ma scusa, gli diceva, ma Dino, ma se io dovevo stare con il Mario Beccia adesso devo stare con il Mantovani? Ah sì, vecio, tu sei con lui. [ride, nda] cioè venivamo fuori che… per fortuna che noi sapevamo correre, quindi in corsa sapevamo come fare, perché la tattica che faceva il Dino era un disastro, no? Però alla fine.. era uno che faceva anche.. tirava su il morale».
- Se arrivavi quarto, oh siamo arrivati quarti festeggiamo.
«Sì sì, no per lui era… era festa, no?».
- Con uno come Ferretti magari era un funerale, per dire, no?
«Sì. Ferretti, se non vincevi era un disastro, eh. Invece lui no, lui era uno che tirava su il morale anche quando non… C’erano le giornate che purtroppo non è che potevi arrivare sempre, di conseguenza era così».
- Andiamo alla Famcucine.
«Con Moserone». [ridacchia, nda]
- Com’era avere Moserone in squadra?
«Ma, guarda, tutto sommato, io non posso lamentarmi perché ho sempre fatto, più o meno, quello che volevo. Sapendo che quando ero che potevo “arrivare” facevo la mia corsa, e quando non potevo “arrivare”, aiutavo Moserone. E quindi mi son sempre dato da fare».
- Ma c’è questo… Tutti dicono che Moserone che era uno di parola sicuro, quindi anche con i premi. Però era molto duro anche.
«Oh! S’incazzava, eh. Se lui non vinceva e non veniva aiutato nel momento in cui magari quando lui andava in difficoltà e non c’era là nessuno, lui si incazzava veramente come una bestia. Mi ricordo quando mi ha fatto il… quando lui ha vinto in Francia, perché io quell’anno lì alla Famcucine mi son fatto male al giro d’Italia quindi son venuto a casa subito e non ho…».
- Per recuperare per il Tour?
«No, perché non l’abbiam fatto il Tour. No, più che altro…».
- Che anno era la Famcucine? Ah, l’82, quindi siamo in là…
«L’82, sì, io poi son andato con lui a fare il Giro dei Midi Pirenei, adesso è un altro nome ma più o meno è la stessa, no? Che poi lui ha vinto come classifica finale e alla penultima tappa, son rimasto solo io a dargli una mano, a lui. Tant’è vero che quella sera lì si è incazzato come una bestia…».
- Con gli altri…
«Con gli altri. Perché? Perché quel giorno lì era durissima perché c’eran dentro una marea di salite. Io avevo la condizione, son riuscito a rimanere con lui quindi gli ho fatto vincere proprio quel giuro lì. tant’è vero che quella tappa lì siamo arrivati agli ultimi, guarda, mi ricorso, venticinque, ventisette chilometri dall’arrivo, ero solo io e lui ed eravamo una trentina. E continuavano a scattare, a scattare. E io piano piano li andavo a prendere, li andavo a prendere, son arrivato fino all’ultimo chilometro e gli ho detto: Adesso basta, cioè mi son messo dietro. Mi son messo dietro, tutto ad un tratto facciamo due o tre curve, mi parte uno davanti, io sono a ruota, mi porta all’arrivo e ho anche vinto la tappa. [ride, nda] Infatti, che lui è rimasto… ho vinto la tappa! Ho vinto quella, tappa lì però lui ha tenuto la maglia. E la sera…».
- Pure avendo vinto.
«Pur avendo vinto e avendo mantenuto la maglia. Ma perché? Perché c’erano i furbi. Perché uno che si chiamava Mazzantini, che lo chiamavano l’uomo-ombra. Perché? Perché lui ah, io son la spalla di Moser. Sì, sei sempre dietro Moser non davanti… [ride, nda] quindi noi lo chiamavamo l’Uomo-ombra…».
- Però i premi li voleva.
«Be’, certo, lui correva e… Magari passava davanti due volte, bona. Ha fatto il suo lavoro, basta. E c’erano i furbi anche allora, eh».
- Pacho Lualdi mi ha detto che gli diceva ma Francesco, ma ti pare che se io ne ho ancora, ma noi non ne abbiamo quanto te…”.
«Eh, lo so».
- Quando li hai spremuti, li hai spremuti.
«Eh sì».
- Il campione fa fatica a capire quel passaggio lì.
«Eh sì. Sì, sì».
- Perché lui ne ha.
«Eh, lo so. Lui pensa che anche gli altri siano.. e allora non erano lì. cioè se io ero alla tua pari non ero lì a farti da gregario eh, cioè hai capito?».
- Anche se poi come dicevamo prima ci vuole anche la testa, non è semplice. per reggere la pressione…
«Eh sì… eh sì».
- Non è facile neanche quello, cioè fare il capitano. GiS…
“GiS, è sempre stato il secondo anno con Moserone».
- Però con Scibilia.
«Con Scibilia abbiamo avuto un pochino di problemi verso la fine della stagione».
- Perché lui aveva già deciso di mollare’
«Sì, aveva deciso di mollare, quindi abbiamo avuto anche problemi anche di finanziamento. Però poi alla fine abbiamo ottenuto tutto sistemato però ecco è stato l’anno un pochino più problematico, ma non per noi corridori. Proprio come…».
- …come gestione?
«Come gestione, sì».
- Abbiamo saltato invece con Davide abbiamo parlato… Com’era, alla Inoxpran, coi Prandelli.
«Ah, guarda…».
- C’erano ancora i Prandelli no, lì?
«Sì, c’erano ancora i Prandelli. Erano bravissimi. Era una famiglia eccezionale. E il Davide…».
- Anche loro sfortunati, no?
«Sfortunati».
- L’alluvione gli ha cambiato la vita.
«No, ma poi gli è morto nell’incidente, Achille».
- Angelo era il figlio.
«Era proprio lui l’appassionato che voleva a tutti i costi determinati corridori, quindi è stato veramente un dramma quando ha avuto quell’incidente lì che è morto, no? Però la famiglia ha portato avanti la sua idea, la sua passione, no? E comunque erano veramente una famiglia eccezionale perché erano veramente molto educati, molto riconoscenti, anche se non vincevi a loro non gli interessava niente. Loro…».
- Loro sponsorizzavano anche il vivaio prima ancora di…
«Sì, sì. Avevano sotto…».
- Dai ragazzini. Mino denti in negozio ha tutte le foto.
«Dai ragazzini no no veramente aveva una passione l’Achille che era una roba… indescrivibile. Ma poi era umano, una persona…. Ma poi io ho avuto modo di… perché lui è venuto a casa mia».
- Per farla firmare, di persona.
«Sì, è venuto lui., lui e Boifava. Per farmi fare il passaggio».
- E come… perché volevano Mantovani?
«Perché avevan visto che avevo ancora dei numeri, anche se lì purtroppo avevo avuto l’incidente. E lì il Davide è stato bravo perché quell’inverno lì di ripresa, dal ’78 al ’79, io sono stato là a casa sua. Non a casa sua ma lì all’albergo, a Nuvolento. Mi ha messo lì, ho fatto tutto dicembre e tutti i giorni da lì andavo a Brescia in palestra, il mattino. E al pomeriggio sul Lago di Garda in bicicletta, a girare. Perché qui da noi c’eran le nebbie., freddo, così. Quindi io ho fatto dicembre gennaio e febbraio. Poi abbiamo iniziato l’attività, bona. Però ho fatto quei tre mesi lì, proprio lì da lui, eh. E tutti i giorni in palestra, eh, dal lunedì al venerdì. Per recuperare il muscolo più che altro, perché veramente ero…».
- A zero.
«Sì, non c’era più. Quindi io sono…».
- Quindi è stata una gran stagione quella lì, no, comunque?
«Sì, sì. Perché poi Battaglin ha fatto di quei numeri. Madonna. Lì ha veramente sbalordito un po’ tutti perché è andato fortissimo».
- A proposito di corridori sfortunati, perché anche lui ne ha avute… di magagne.
«Eh sì. Ma lui era molto fragile, eh. Giovanni fisicamente se c’era una giornata piovosa così lui, bon, era già finito e poi gli veniva subito la febbre, si ammalava, poi quell’anno lì ha preso il male dei conigli».
- Quella congiuntivite.
«Quella congiuntivite…».
- Ma lì cosa è successo? Mezzo gruppo ce l’aveva?
«Sì. Probabilmente qualcuno ha preso questo virus e in gruppo si è sparso. Perché passa la borraccia, l’uno con l’altro, io ho avuto la fortuna di non averlo…».
- Perché si chiamava “il male dei conigli”?
«Eh, perché ti venivano gli occhi gonfi così. E il coniglio d’estate quando gli viene quel male lì’ lo devi ammazzare, eh. Perché non… sennò muore ma è infettato, lo devi buttare via. Quindi lo chiamano… almeno… quello era… all’epoca si chiamava così».
- In campagna si chiama così?
«Sì».
- Che storie.
«Eh sì…».
- Malvor…
«Ecco lì alla Malvor ero…».
- Ma c’era ancora Zandegù?
«C’era sempre Zandegù».
- Perché anche Visentini verso fine carriera è andato alla Malvor di Zandegù.
«Sì, con Zandegù. Quando c’era Saronni, anche».
- Eh sì. Ma quello era uno squadrone, sulla carta.
«Sì».
- Pieno di giovani emergenti, di gente a fine carriera: Contini, Ballerini, Allocchio, Piasecki, io mi ricordo quella foto lì…
«Sì, sì. Uno squadrone…».
- C’era Bordonali. Uno squadrone.
«C’era uno squadrone della madonna, però ecco io quell’anno lì’ ero al primo anno alla Malvor-Bottecchia e ho vinto il Giro delle Puglie quell’anno lì, quindi ho vinto diverse corse anche, quell’anno lì, con lui. e a noi c’è andata bene perché effettivamente eravamo sempre… C’era Da Silva con noi, Acacino».
- Mi raccontava Zandegù che…
«Che fenomeno…».
- …che Da Silva non voleva correre finché non arrivava il cash. Ma tu intanto vinci poi stasera i soldi arrivano...
«No, no, quello era un personaggio che…».
- Quello però aveva fatto la fame vera quindi voleva i soldi.
«Sì, sì».
- Giustamente, direi.
«Be’, con me, io ho una… Non nell’84 perché nell’84 ero tranquillo, mentre io nell’85 dopo ti spiegherò un aneddoto, con Da Silva, dopo. Per chiudere con la Malvor, è stato un anno devo dire buono. Purtroppo quell’anno lì non sono andato molto bene al Giro d’Italia. Al Giro d’Italia non avevo la condizione e non riuscivo a dare. Ho fatto, secondo me ho fatto una preparazione sbagliata».
- Quell’anno lì che poi è finito con la crono di Verona, Moser, Fignon…
«Sì…».
- Mi racconta cosa è successo?
«Allora, lì è successo…».
- È vero non è vero, io ho visto tutte e due le versioni, volevo metterle a confronto.
«Allora. L’impressione nostra è che effettivamente l’elicottero un pochino…».
- Tanto è vero che l’anno dopo, ’85, che vinse Hinault, lui non voleva l’elicottero della RAI: se c’è l’elicottero io non parto.
«Sì sì».
- Volevo capire se era il classico francese sbruffone o…
«No no, l’ha dichiarato. L’ha dichiarato, Hinault. Ha detto se si avvicina l’elicottero, io non parto. No no. Mentre l’anno prima cosa è successo? Siccome Moserone aveva perso sulle salite, è rimasta solo la cronometro e quindi lì cos’han fatto? Lì l’hanno fatta bene, eh. Perché quando andavano a inquadrare Fignon, lo inquadravano di fronte e quindi le pale… il vento… gli veniva contro. Quando andavano da Moserone, gli andavam dietro e quindi… Guarda che io ho preso di quelle ventate che ti…».
- Quindi è vera ’sta cosa?
«Sì, sì, è vera. Prendevo di quelle ventate…».
- Gliel’ho chiesto, ancora nega, eh... [ridiamo, nda]
«Ma sì, ma lui, mai…».
- Non lo ammetterà «Mai. Ma nooo… E io ho preso di quelle ventate… Tanto è vero che…».
- Quindi è vero che ’sto elicottero spostava, sul serio, perché arrivava vicino ai corridori.
«Sì, sì. Quando… sempre in quella tappa… Quel Giro lì facevamo mi sembra anche il Gran Sasso, una roba del genere, è arrivato l’elicottero sul gruppetto…».
- L’ha sparpagliato?
«No, ha buttato giù Dell’acqua [Dell’Acqua mai passato pro’, al Giro 84 c’erano due Bevilacqua: Antonio e Leonardo entrambi alla Malvor-Bottecchia, nda], l’ha buttato giù. È arrivata una ventata… che l’ha proprio sbilanciato…».
- Cioè l’ha disarcionato proprio.
«Sì, ma proprio ti faceva saltar via i cappellini, perché non avevamo i caschi».
- E certo.
«Avevi su il cappellino, saltava via dalla…».
- Dallo spostamento d’aria.
«Dallo spostamento d’aria. Quindi che lui ne dica…».
- Tanto voi eravate in gruppo, quindi…
«Che lui ne dica, cavoli, quando arrivava l’elicottero era un casino, eh. Quindi noi a volte che eravamo in corsa, che non sentivi più niente, sai quante volte gli facevamo di andar su, così… Perché tu se sei in mezzo senti solo il motore, le pale dell’elicottero, non senti se ti frenano davanti, tu non te ne accorgi, e vai dentro. C’è una frenata, bum! E sai quanti ce n’erano così? Dopo, han portato – penso un elicottero che era più silenzioso, stava un po’ più in alto e allora le cose si sono sistemate, ma quegli anni lì era un disastro con gli elicotteri».
- Lei ha corso con Moser prima e dopo, no? E Saronni m’ha detto che per lui esiste solo il primo Moser, perché dopo era un’altra cosa. e lui col primo Moser se la giocava, anzi molte volte gli dava anche la paga, no?
«Uuuhhh! Chi, Saronni? Ma Saronni andava a nozze, col Moserone. Perché? Perché…».
- Gli entrava sottopelle, anche come carattere…
«Saronni era talmente furbo che lui lasciava fare la corsa e poi pam! E quello là, si incazzava. Ma cioè se tu corri a quella maniera lì e lui è forte non lo stacchi, e poi alla fine ti mette la ruota davanti, come succedeva».
- E poi con quella lingua glielo faceva anche pesare.
«Sì, perché poi non gli perdonavano…».
- Volevo chiedere se i due Moser voi in corsa li avete visti, la differenza, perché quello lì un Giro non lo vinceva sennò neanche, anche se il buon Torriani gli faceva il tavolo da biliardo di percorsi. Vero o no?
«C’era qualcosa che… Sì. Poi, anche quella volta, quel Giro che lui ha vinto, il Moserone, quel Giro lì…».
- L’84, e prima aveva vinto la Sanremo quell’anno lì, no?
«Sì, sì, dovevamo fare lo Stelvio, è venuta giù la valanga, di notte».
- È vero o non è vero? Perché in tanti sono andati a vedere e si poteva fare. È vero o no?
«Sì, sì… E lì hanno…».
- Nell’88 hanno fatto il Gavia, quel Gavia lì. Però lo Stelvio là, no. C’è qualcosa che non va…
«Quel Gavia lì. No, quella volta l’han fatta propria sporca, che poi tra l’altro ha rischiato di perderlo lo stesso…».
- Infatti, il punto è questo qua: ma allora non glielo mettevano no? Se volevano farglielo vincere “spianato”, non lo metti.
«Esatto».
- Invece di creare tutto ’sto casino...
«Eh, ma secondo me non pensavano che lui in quel momento lì… Era in difficoltà. Era in difficoltà».
- Oppure che potesse vincerlo, non so.
«Oppure che magari non era in maglia rosa. E allora s’è trovato questo escamotage. Venuta giù la valanga, non si può passare, eeehhh… Hanno tirato fuori una storia che poi…».
- Volevo sapere da chi c’era se era vero o no.
«No, no, era così. E poi ha rischiato comunque di perderlo. Perché io poi mi ricordo che…».
- Ma lo meritava o no, Fignon, quel Giro lì? Lo meritava Fignon?
«Sì, sì: lo meritava perché cavoli lui era sempre là davanti, cioè: ha corso bene. Ha corso bene. La cosa che mi ricordo che, in salita, il buon Moserone aveva anche delle persone che…».
- Trentamila persone muovevano quei club lì. quindi erano anche dei soldi
«E poi spingevano. Ogni tanto sai che…».
- La "Compagnia delle spinte".
«La "Compagnia delle spinte". E io a uno di loro gli ho detto: "Io mi auguro che stasera sia secondo o terzo in classifica". Non l’avessi mai detto...». [ridacchia, nda]
- Anche perché si rischiavano ombrellate, sputi, bastoni….
«Sììì. [ride, nda] Mi son corsi dietro, ma me ne han dette… La madonna, cos’è che ho detto?!».
- Roberto lì’ ha avuto nell’84 quell’episodio che ha segato la bici, lui e Battaglin son tornati indietro, a uno Roberto l’ha preso a calci, là dove non batte il sole.
«Quello, non me lo ricordo».
- Lui voleva lasciar perdere col Giro, ha lasciato la bici lì e Battaglin l’ha riportato in gruppo. Sempre per questi qui che gli sputavano addosso…
«È vero sì, sì. Era veramente una roba...».
- Tutti ubriachi.
«Io difatti ho avuto quell’idea di dirgli: Spero che stasera in classifica perda non anche il secondo, anche il terzo posto… Han cominciato a corrermi dietro, ho detto: minchia…». [ride al ricordo, nda]
- E lì altro che spinte…
«Ho cominciato ad andare, ho detto: ’spetta, ’spetta…».
- Ma era solo Moser che aveva quella gente lì o anche altri corridori?
«Sììì… No, no… eran proprio moseriani in una maniera incredibile, eh».
- Ma proprio malati di tifo.
«Sì, sì, loro sì che erano veramente… un qualcosa di diverso dagli altri, loro vedevano lui che era il dio…».
- E c’era questa cosa, si parlava di questo trentinismo... Per loro non era solo una corsa, lui per loro era una specie di idolo, ’sto Moser, un simbolo di appartenenza alla loro terra, quelle cose lì.
«Sì, sì, oh! No, no, era…».
- Magari noni non riusciamo a capirlo perché non siamo di lì, non lo so…
«No, io mi ricordo che aveva un seguito lì del Trentino che era una roba…».
- Ma proprio a livelli di fanatismo, questo volevo dire.
«Sì, sì, vero».
- Supermercati Brianzoli: quindi ancora con Moser…
«No, lui è arrivato dopo».
- Col casino di Baronchelli che al Giro non è ripartito.
«Sì, sì esatto. Col Tista».
- Un anno soltanto lei ha fatto, lì.
«Io fatto l’85 con Baronchelli».
- Sempre con Stanga?
«Sempre con Stanga».
- Com’era con Stanga?
«Eh, con Stanga non è per me stato un gran bel… non ci andavo molto d’accordo».
- Lui era più team manager che direttore sportivo, vero?
«Sì, sì».
- Il lato quattrino.
«Il lato quattrino. Lui guardava solo i soldi, non era un tecnico, lui guardava solo il dio denaro».
- Ma come team manager com’era? Perché comunque aveva anche delle intuizioni, per esempio prese il pullman usato dalla PDM, lui era uno dei primi ad averlo. Per certe robe era avanti.
«Lui era già, esatto, era già avanti. Lui era già avanti come organizzatore, come preparatore, lui prendeva, perché anche quell’anno lì con Baronchelli e Corti, ci faceva andare in palestra, quindi il periodo invernale aveva un preparatore, poi aveva un altro preparatore per l’inizio della stagione, quindi…».
- Perché lui andava a studiare dal nord Europa, vero?
«Sì».
- Come si muovevano in Belgio, Olanda…
«Su questo devo dire che era avanti rispetto agli altri».
- E dove era carente invece?
«Nel parlare con i corridori perché lui non a tutti li valutava come persone, li valutava in base ai risultati. A cosa potevano…».
- A quanto “producevano”…
«Esatto. E quindi anch’io ho avuto dei periodi un po’ di alti e bassi, e ho avuto modo anche di scambiare qualche parola un pochino… Anche se son sempre andato d’accordo, no?».
- Però un po’ pepato?
«Però abbastanza pepata, perché mi ricordo che a quel mondiale che ho partecipato, al Montello, io purtroppo, tra l’emozione, e il mio primo mondiale, eeehhh, ho fatto duecento chilometri poi mi sono fermato, anche perché comunque era impegnativo quel mondiale lì, no? La cosa che mi ha molto dispiaciuto che al posto di venire là da me quando io rientro e veniva a dire, va bene, dai, è andata come è andata, m’ha dato proprio… un corridore così, no?… Ecco io lì non ho reagito perché ero talmente io depresso nel senso che mi sentivo già io il peso del… anche perché allora lì Martini, io ho vinto la Tre Valli Varesine quell’anno lì, ho vinto diverse corse, alle premondiali mi son sempre portato…».
- Quindi Martini…
«Faceva affidamento anche su di me. Per curare determinati corridori. Io quel giorno lì non lo so mi è venuto addosso un qualcosa che… oppure ho sentito la responsabilità, la pressione eeehhh… Ma sai cosa vuol dire non andare?! Ho fatto duecento chilometri da star male in bicicletta. Io mi sono liberato quando mi son fermato. Cioè mi son tolto come un peso dallo stomaco. Comunque ecco, ritornando a quell’85, quando io ho vinto la Tre Valli Varesine…».
- Su Saronni e Gavazzi.
«Su Saronni e Gavazzi. Però c’è un aneddoto: che io non ho vinto in volata, mi hanno preso sull’arrivo. Perché io gli ultimi tre giri, si faceva prima il Brinzio cinque volte, poi si andava Angera e si faceva tre giri. Facevamo tre giri lì all’Angera dove c’era uno strappettino e siamo andati in fuga in cinque, io Corti, Da Silva e altri due che non mi ricordo. Abbiam fatto un giro e mezzo siam rimasti solo io e Da Silva. E il gruppo era sempre lì a duecento metri. Guidato da gli uomini di Saronni, dalla Del Tongo. Però io avevo una condizione talmente eccezionale e gli ho detto a Da Silva: Acacino, ti do qualcosa se mi dai una mano perché io avevo in ballo la maglia, no? La nazionale. E lui mi ha detto di sì. Allora facciamo tutto il giro, arriviamo a un chilometro, mezzo, circa, dall’arrivo, e non mi tira più, si mette a ruota. Io mi son girato e ho visto che stavano arrivando tutto il gruppo dietro, no? Ho detto: ’orco cane, lo sapevo. Allora ho cominciato a tirare da solo, no? A un certo punto c’è una piccola discesa che entri in Angera, ho fatto la prima curva, ho fatto la seconda curva ho detto: ma almeno passami davanti, no? E mi ha passato. In fondo c’era l’ultima curva a destra, prima di prendere quella curva lì, io son partito, l’ho saltato, dietro è arrivato Saronni. Ha trovato Da Silva…».
- …a fargli da tappo?
«Ha frenato. Quindi io sono uscito e mi è arrivato a mezza bici. Sennò non vincevo, perché vinceva lui, no?».
- Eh be’.
«Alla corsa dopo il signor Acacino viene là: eh, i soldi?». [ride, nda]
- Grande Acacio, non si smentisce mai… [sorridiamo, nda]
«È venuto a cercarmi i soldi, e io gli ho detto: Acacino, ma all’ultimo chilometro e mezzo cos’è che hai fatto? Dov’eri? Dietro. Non eri là davanti. E allora arrangiati, adesso. Oh, non ha più detto niente. Perché ha capito di aver sbagliato».
- Però c’ha provato.
«Però lui c’ha provato. E ho detto: Ohé, non son mica un bamba. Cioè: ma scherziamo?! Questo era per… E comunque io, quell’anno lì, poi sono andato al mondiale, insomma. Anche perché comunque alle premondiali, io mi ricordo quella premondiale lì, era dura, ed era quasi duecentocinquanta chilometri. Adesso invece arrivi a duecento chilometri, cioè non è che…».
- Poi è cambiato proprio lo spirito delle premondiali. Adesso si guarda più il circuito [iridato]…
«Esatto».
- E si prende quel corridore lì che poi magari
«Che poi magari non arriva».
- Per le caratteristiche e non magari per lo stato di forma, magari.
«Esatto. E allora la mentalità, i corridori erano diversi. Adesso…».
- Com’era il Ct Alfredo Martini in nazionale? Com’era stare nella nazionale di Martini?
«La nazionale di Martini… Lui ti metteva a tuo agio. Era veramente un padre».
- Quattro-cinque califfi tutti insieme…
«Sì. Ma lui era uno che sapeva muoversi. Quindi se c’era un po’ di attrito, lui ti prendeva piano piano e ti cominciava a parlare, voleva sapere i motivi, perché… eeehhh... E poi piano piano prendeva anche l’altro e ti faceva…».
- Un abile diplomatico.
«Sì, ed era una persona meglio di un padre, io ho avuto la fortuna di averlo e devo dire che è stato per me eccezionale».
- Pian pianino stiamo mettendo insieme queste figure, Cribiori, Martini, mi fa un po’ un quadro con chi si è trovato meglio, con chi invece… con Stanga abbiamo capito che non c’era feeling, per dire…
«Sì».
- Però per capire che tipi…
«Allora, quello più diciamo…secondo me Cribiori, Cribiori lì alla Brooklyn è stato quello che mi ha dato subito delle dritte, però non ti dava, lui ti diceva però tu dovevi essere in grado di capire quello che lui ti diceva, per comportarsi, e come ti dovevi muovere. Quindi già lì c’era…».
- Però lui non era un sergente di ferro, no?
«No. No no era una persona molto…».
- È una persona intelligente e ti trattava da persona intelligente.
«Esatto. Poi anche lui ti veniva, ti parlava al mattino, quando facevi colazione».
- Ma quindi il giro delle camere – come ogni buon diesse – lo faceva?
«Sì, poi quando c’erano le corse che contavano la riunione da De Vlaeminck allora gli diceva a Roger: come stai oggi, puntiamo su di te. Lui gli diceva okay. E quindi tutti per lui. E si sapeva che con lui si vinceva, quindi… Perché se incominciava a dire: Ma… io no, maaa… Basta. Quel giorno lì, era inesistente. Perché anche lui non era… Era…».
- Era un po’ invidiosetto, vero? Come quando si è nascosto nel Giro d’Italia di De Muynck.
«Di De Muynck, sì… Si è nascosto, che è andato a casa. Testa matta, eh. Ma io gli ero simpatico. Mi chiamava Picinin, e io ero piccolino… E allora mi chiamava el Picinin, no? E anche quell’anno lì la prima volta che facevamo la Tre Valli Varesine che ha vinto Giuseppe che si arrivava a Varese, nella pista, allora c’era ancora l’abitudine di attaccarsi. C’erano quelli, tipo Moserone, Saronni, tutti no? E anche lui per salvarsi la gamba, c’era ’sto sappellotto che si attaccava, no? E io tutti i giri ero là vicino a lui. E lui, tun! Faceva magari trecento metri, tun!, e si salvava la gamba. Poi io sono anche andato in fuga. Nel finale con Saronni, c’era Saronni, Lualdi e Edwards. Mi hanno staccato sull’ultimi pezzettino che poi arrivavamo in pista, quindi io sono arrivato quarto. Quando siamo arrivati in albergo, lui è venuto in camera mia e mi ha detto: te sei un bel corridore. Perché? Perché tutto il girono, e poi quel giorno lì pioveva, un’acqua tutto il giorno, tutte le volte che si faceva salita, io ero là. E sai cosa vuol dire portare su uno che si attacca?! Ho fatto nove giri così. L’ultimo eravamo in fuga, e a momenti vado a “rischiare” di lottare con Saronni”. Perché c’era quel sappellotto lì, che era in piedi, e io lì mi sono in chiodato. Però son riuscito comunque andare comunque all’arrivo e son arrivato quarto».
- Come e quando è finita non solo la compagnia delle spinte ma anche quella dei traini?
«Ah, subito, guarda: nell’81-82, eh. Basta. Anzi, eravamo noi corridori che se vedevi qualcuno cominciavi a urlare. E allora lì basta si è finito l’èra delle spinte, ma c’era Gimondone che quasi quasi saltava addosso al gregario, per farsi portar su…». [ride, nda]
- A proposito di gente dura coi proprio gregari, no?
«Maaa… Gimondi, poi era una bestia, mamma mia… io reputo di esser stato fortunato comunque perché ho corso insieme a loro, però… gente che veramente non aveva ritegno eh, con i suoi gregari. Io mi son sempre fatto rispettare. Anche con Moserone, checché se ne dica».
- Beccia mi ha raccontato che delle cose un po’… Anche un po’ brutto no, vero? Che riguardano anche la dignità di una persona.
«Sì, sì, sì…».
- Perché un gregario è una persona, non è un animale da tiro. E loro ti consideravano un po’ un animale da tiro.
«Per quello… No, ma per quello che dico io con Moserone ho un buon rapporto, non ho problemi, ma io mi facevo rispettare».
- Ci vuole una personalità forte per contrastarlo, perché poi ti rispetta, se ti fai rispettare.
«Certo. Ah io sì se mi diceva qualcosa che sapevo che avevo sbagliato, o che non avevo fatto, dicevo: Sì, hai ragione ma, ohé, non ne ho più, cosa dovevo fare?».
- Ma per dire un Beccia che Moser lo prendeva per i pantaloncini…
«Sì, sì, sì. Veramente. Io invece, su quel lato lì, non posso dir niente. Perché mi son sempre fatto rispettare».
- C’è anche un altro aspetto forse che cominciavano già le telecamere, quello era ancora un Giro con i famosi uomini-RAI, la prima parte della tappa c’era ancora tempo per scherzare, la visita-parenti, poi quando si accendeva la lucina della telecamera diventava corsa vera.
«Eh sì».
- E quindi cominciavi anche a farle meno quelle cose lì. Oggi la corsa la vedi tutta. All’epoca, no.
«No, all’epoca la vedevi gli ultimi quindici-venti chilometri. Al Giro d’Italia…».
- Davanti alle telecamere fare i traini era un po’ più difficile. Era un’altra epoca.
«No, no, dovevi farlo prima. Mentre quando “iniziavano” le telecamere non potevi far niente. Perché sennò venivi anche squalificato».
- Andiamo verso la fine. Vini Ricordi e poi arriviamo alla Selca, al Giro ’87. E ci fermiamo un po’ di più anche se per lei è durato poco, quel Giro.
«Be’ diciamo che lì con Riccardo nell’86 alla Vini Ricordi, va bè, anche lì siamo andati abbastanza bene fino all’inizio del giro d’Italia».
- Magrini lì era già diesse o era ancora corridore?
«No, no, correva con me».
- Nell’86, perché nell’87 era già in ammiraglia, alla Magniflex.
«Poi aveva smesso. Quell’anno lì nell’86 abbiam vinto una tappa al Giro delle Puglie, l’ho vinta io, no? Ma lui ogni tanto la racconta in televisione. Perché, quando lui dice abbiam fatto la mossa del fagiano, la fagianata [3], a una tappa abbiam fatto la fagianata».
- Ma che cos’è 'sta fagianata, spieghiamolo per chi…
«Ah, ah [ride, nda] Perché, praticamente, cosa fai? Mentre tutti gli altri si rilassano, rallentano, eeehhh, tu piano piano aumenti il passo no, e prendi quei dieci quindici venti metri, trenta metri e poi cominci andare sempre più forte, no? Ed è quella la fagianata, si allontana…».
- Tu ti sei preso il vantaggio e gli altri non si son resi conto…
«No, lì è successa una cosa, diciamo la fagianata ma studiata. Perché? Perché durante il percorso, dove c’era posizionato il rifornimento, sapevamo che c’era un vento forte. Allora tutti gli altri quando siamo arrivati in gruppo, a prendere il rifornimento, noi ci eravamo già posizionati, quasi tuta la squadra, davanti, no? Come gli altri si sono messi a prendere i sacchetti, che si crea un po’ dio confusione, noi siam partiti, no? E siamo andati in fuga, eravamo in otto fi noi, eh. E avevano fatto un gruppetto di quindici o venti corridori, quindi didietro si… non riuscivamo a organizzarsi perché si sono formati…».
- Per voi era una specie di cronosquadre…
«Sì, perché poi si son formati una marea di gruppetti, no? Tuti frazionati. E non ci prendevano più, perché avevam preso circa tre-quattro minuti, no? Poi a un certo punto è cessato il vento. [pam! Batte una mano contro l’altra, nda] Non c’era più vento, didietro si son riusciti a organizzare e ci han presi, a una ventina di chilometri dall’arrivo. Ce ne han dette di tutti i colori… fortuna vuole che io ho salvato tutta la squadra, perché poi siamo arrivati in volata, ho vinto la tappa. Quindi ho fatto primo io, secondo era Allocchio, che Allocchio quel periodo lì’ era in squadra con Moser. Tanto è vero che il Moser si è incazzato con Allocchio [nel imita la voce, nda]: “Ma comeee hai fattooo a perdere? Questo è stato tutto il giorno in fuga” [ride, nda] Eppure io… Perché mi han tirato la volata, io mi son messo su a ruota, pum! Noi ci siam salvati, non ci han detto niente! Ma se noi, per disgrazia, non vincevamo la tappa, era… Era… difatti ogni tanto Riccardo lo dice… L’azione della fagianata al rifornimento. Ecco… per chiudere un pochino il discorso, poi dopo…».
- Andiamo all’87, Giro (per lei) sfortunato: finisce dopo undici tappe per…? Lì, che cosa è successo?
«Ecco, io praticamente son partito come ho detto in anteprima, son partito alla stagione che non ero in gran forma. E continuavo ad avere comunque febbre-febbre-febbre, non riuscivamo a capire che cos’era. Parto per il Giro d’Italia. Dopo circa… e andavo sempre peggio. Ogni tappa arrivavo sempre in ritardo, ero sempre stanco. Febbre. Facevo fatica a recuperare. All’undicesima tappa dico basta, non sto più in bicicletta. E vengo a casa. Vengo a casa, faccio ancora tutti i controlli, ma non ho niente. E proseguito l’attività, poi finisce il Giro d’Italia…».
- Questa cosa della febbre alla sera continuava? Anche in allenamento quindi….
«Sì-sì-sì. Io al mattino non avevo niente, alla sera…».
- E nessun medico capiva cos’era?
«No, ho fatto gli esami…».
- Sangue a posto, tutto a posto?
«A posto. Faccio ancora altri due o tre mesi e arrivo a fare il Trittico Veneto. E lì a un certo punto m’è venuto un dolore al fegato, un male, un male… ho dovuto fermarmi, m’han caricato in macchina, va be’, mi son fermato, il dolore è passato, son tornato a casa. E ho un amico che si chiama dottor Sturla, che era il medico dell’Atala, che è qui di Pavia. E lui mi ha visto. Quando mi ha visto che mi stavo fermando che, allora, il Cribiori ha rallentato, perché era insieme a Cribiori, era all’Atala. E il Marietto mi fa: vieni a casa mia in settimana, vieni da me. E allora io in settimana sono andato lì a Pavia, no? Mi ha fatto rifare tutti i controlli ematologici, proprio lì nel centro eeehhh, e mi fa, mi chiama subito e mi dice: lo sai che tu sei in via di guarigione. In via di guarigione ma tu ti sei portato avanti tutta la stagione l’epatite virale, con un rischio che se ti spaccava la milza, cioè c’era anche il rischio di saltare…».
- …e di andar Lassù?
«Sì. E allora niente lì ho dovuto smettere in anteprima,. Non potevo più andare avanti».
- Lui perché si è accorto subito e gli altri no? Per il tipo di esami che ha fatto?
«Perché lui… No, no, quando mi ha visto...».
- ...con l’occhio giallognolo, quelle cose lì?
«Sì. Mi fa: Vieni da me perché…”.
- …hai un colore che non mi piace….
«Sì. E lì difatti sono andati lì, lui mi ha fatto fare determinati… Mi fa: Ma come han fatto gli altri a non accorgersi».
- È per quello che… è la prima domanda che ti viene in mente.
«Anche lui mi fa_ come han fatto a non accorgersi che tu hai – in corso – un’epatite virale. Anzi, dagli esami era già quasi verso la fine. E lì ho dovuto fare delle cure… eeehhh… e ho finito la stagione così. Con Reverberi. E mi è dispiaciuto perché mi son trovato bene con loro».
- Com’era (con) Bruno Reverberi?
«Eh, anche lui era un altro che guardava solo al soldo».
- Però lui è innamorato del ciclismo.
«Però lui era un appassionato. Lui era un appassionato».
- Anche adesso. Io ci ho parlato a gennaio…
«Sì».
- Ancora campa per il ciclismo. È proprio la sua vita.
«Lui, è la sua passione».
- Anche Ferretti è così, in questo. Dopo, ognuno ha i suoi, per carità…
«Certo. Lui, ecco, io con Bruno ho sempre avuto… Anche lui non sapeva più cosa dirmi. E quando…».
- Ma quindi è per quello che in queste squadre magari il rapporto durava un anno e poi…
«Eh sì».
- Per quello?
«Sì, perché poi io quell’anno lì, avendo quel problema lì, non mi voleva più nessuno, cioè io avevo finito lì. Poi invece... Io ho iniziato la mia carriera alla Brooklyn con Cribiori, ho finito la mia carriera con Cribiori, ultimo anno. Il primo e l’ultimo».
- Il legame poi è rimasto.
«Sì, perché poi tra l’altro, l’ultimo, lui sapeva la mia situazione e gli spiaceva farmi finire così, no?».
- Poi erano anche tempi senza procuratore, quindi ti dovevi affidare a chi conoscevi e a chi ti conosceva.
«Esatto. Esatto… e quindi era così. Però ecco quell’anno lì…».
- Però era una bella squadra quell’Atala, lì. Era una squadra per velocisti, perché c’era Urs Freuler.
«Allora, io quando son passato all’Atala quell’anno lì, nell’88, Freuler non era più lì, anche Bugno non era più lì. È rimasto Calcaterra, c’era Calcaterra, io, Podenzana, aspetta, adesso quello che fa il commentatore alla RAI, Martinello, Gioia, insomma erano tutti ragazzi giovani ma che comunque andavano, eh, non è che non andavano. E io ero lì con loro».
- A fare un po’ d a chioccia.
«Sì, sì, che poi quell’anno lì ho rischiato di vincere il Francoforte, eh, son arrivato terzo. Solo che sono arrivato agli ultimi due giri finali che mi son venuti i crampi, perché? Perché era tanto tempo che non arrivavo più in finale dalla gara, cioè arrivavo ma ero staccato, invece lì ero davanti. Quindi mio son venuti i crampi perché non potevano darmi l’acqua. Io ero andato agli ultimi trenta chilometri senz’acqua. Quindi avevo bisogno di acqua, mi son venuti i crampi. Sennò “rischiavo” di vincerlo».
- Quella squadra lì aveva una maglia strepitosa.
«Sì».
- Nel Giro dell’87 all’undicesima tappa volevo capire che tappa era. Sappada era più in là quindi Sappada non l’ha vista dal vivo?
«No».
- L’ha vista in tv?
«Sì».
- Ecco, in quel Giro lì che sensazioni avevate? Tutti parlano di questi due galli nel pollaio, voi in corsa ve ne accorgevate?
«Ma io no, devo dir la verità, l’ho visto a fino dove sono andato però allora eravamo giù ancora a metà Italia, non eravamo…».
- Prima o dopo il Terminillo? Il Terminillo l’ha fatto, lei?
«No, io non l’ho fatto. Io i son fermato prima e quindi non ho avuto modo di poter vivere quella situazione lì, ho sentito anch’io».
- Un sacco di affetti ai lavori mi hanno detto che questa guerra tra di loro in Carrera c’era già al via a Sanremo, volevo sapere se si sentiva in gruppo oppure no.
«No, io purtroppo avevo i miei problemi quell’anno lì non ero… neanche moto lucido, eh. Io mi ricordo che non ero molto lucido, avevo veramente qualcosa che…».
- Chissà che scompensi che dà...
«Eh sì. Eh, ma io proprio mi sentivo senza forze».
- Nell’88, ultimo Giro, con l’Atala, anche lì ritirato, ma alla 13-esima. Che cosa è successo lì?
«Perché son caduto. Son caduto, giù in Puglie, con Bugno. Gianni Bugno».
- Vi siete arrotati?
«No, io ero a ruota a Bugno, a un certo punto gli è entrato un pezzo di ferro nella ruota davanti, ha fatto il salto mortale, io gli ero dietro l’ho centrato in pieno. Lui si è spaccato la clavicola, io invece mi si è girato il braccio, solo che quel giorno lì c’erano due semitappe, mattino in linea, pomeriggio cronometro a squadre, quindi io mi hanno portato al pronto soccorso, non avevo niente di rotto, fasciato, e ho fatto la cronometro il pomeriggio. E sono andato avanti per circa dieci undici tappe, solo che avevo un gomito che non riuscivo più…».
- I corridori fanno delle robe che a mente fredda dici: tutti dei pazzi da ricoverare.
«No, delle robe che… Inimmaginabile. E mi son fermato quel giorno che facevano il Gavia. Iò Gavia. Io lì ho detto basta. E mi son fermato lì e poi non ho…».
- Una tappa da tregenda. E invece la Sanremo ’85, quinto. Se vince la Sanremo…
«Eh sì, ma lì ho sbagliato… Proprio è un flash che ho sempre quando penso alla Sanremo».
- Perché è proprio una corsa da Mantovani, quella lì.
«Sì. Quell’anno lì avevo una gamba che era strepitosa. Praticamente arriviamo a una quindicina venti chilometri dal Poggio, parte Riccò… Cos’era, Kuiper, o quello che ha vinto la Saneremo, no? E io gli ero a ruota, però c’era su un vento forte contrario. Io ho detto no, non sto qua al vento. Ho fatto io il buco. Questi han preso quei cento metri, sono arrivati. Io mi sono rialzato».
- A saperlo se ne restava lì.
«Eh. Difatti è una cosa che mi è rimasta dentro».
- Ci credo. Ci credo.
«Perché quel giorno lì… e poi dopo siamo arrivati sull’arrivo e…».
- Cribiori aveva il pallino delle classiche, perché – per esempio – una Freccia Vallone era da Mantovani. Perché non andavate?
«Eh… Perché è lui non le faceva, diceva che non aveva i corridori. Quindi non ci ha mai creduto in quelle…».
- Ma nessuno anche gli altri anni, no?
«Lui da quando non ha più avuto il belga [Roger De Vlaeminck, nda], basta, degli italiani non vedeva…».
- Non si fidava a quei livelli là?
«Sììì. Non vedeva che un italiano poteva eventualmente vincere o fare piazzamento o che roba, no. È un dispendio perché lì all’epoca dovevi pagare, no?».
- E infatti Boifava che pagava era uno dei pochi a portare una squadra italiana al Tour. Ci andavano solo la Del Tongo, le squadre di Boifava…
«Mi ricordo che, nel ’79, cinquanta milioni [di lire], eh. Nel ’79 erano cinquanta milioni. Gli davano gli alberghi scadenti, come ti ho raccontato prima. E ti davano la macchina. E quell’anno lì ha avuto anche la sfiga che si faceva tutto il finale della Roubaix, a una tappa del Tour. Ma proprio tutta eh, duecento km e tutto il percorso della Roubaix. E si entrava, dentro, nel velodromo a Roubaix, quel giorno lì si è spaccato il vetro davanti, gli è scoppiato, a Boifava. E ha voluto salire su alla partenza un giudice e lui non ha capito perché. Quando gli è scoppiato il vetro, il giudice gli ha detto di fermarsi».
- Ma il vetro gli è scoppiato mentre…?
«Sì, in corsa».
- Quindi ha rischiato anche lui di…
«Sì sì. Ma quando lo abbiam visto noi all’arrivo, sai che ti ricordi il periodo di Coppi o prima, con gli occhiali…».
- Da aviatore.
«Sì, aveva su gli occhiali, tutto pieno di terra, eh. Abbiam detto: ma che cazzo…».
- Quindi lui ha fatto tutta la…
«Tutta la… col vetro rotto. Il giudice voleva scendere! E lui gli ha detto: Hai voluto venir qua, e stai qua. Guarda, una scena incredibile». [sorride, nda]
- Questa è bella. Glielo devo chiedere.
«Quella volta lì, quando si è rotto il vetro. Proprio. Non so come sia stato la rottura».
- Non so come ha fatto a non rimanere ferito.
«Difatti. Era tutto spolverato, incredibile. Incredibile».
- Perché lo chiamavano, lo chiamavate, il Cardinale?
«Ostia, ma sai che… Ah sì, perché aveva…».
- Non solo per la corporatura.
«No, no, aveva un po’ del…».
- Il modo di fare?
«Modo di fare, da prete. Allora lo chiamavano il Cardinale. Era il suo modo, no? Che sembrava un uomo di chiesa, di prete. E quindi come si muoveva…».
- L’accezione non era positiva.
«Eh».
- Grazie, è stato un bel viaggio. Ah, una cosa: il ciclismo lo guarda ancora? Si diverte?
«Eeehhhfff. [sbuffa, nda] Devo essere sincero?».
- Eh be’, certo.
«Non molto. Non mi diverto più tanto, non lo so perché, ma forse…».
- La fantasia se n’è volata via?
«Sì. Sì, è il sistema che hanno adottato, nuovo…».
- Ma non è colpa solo delle radioline. Perché se uno ce l’ha la fantasia, e se ha la gamba…
«No, è tutto l’insieme».
- Il problema sono i contratti: se tu mi dai sei cifre per fare… io faccio quello.
«Esatto. Eh sì. È tutto il nuovo, è cambiato tutto il sistema ed è quello che secondo me ha un po’ rovinato il ciclismo, perché il ciclismo è sempre bello».
- Di personaggi veri ne abbiamo uno, Sagan, uno: che ha ancora…
«Forse è ancora l’unico che è un trascinatore. Noi abbiamo Nibali ma, mi dispiace ma non è un personaggio. Non è un trascinatore».
- È un gran bel corridore ma non è uno che infiamma le folle.
«No, perché a noi manca proprio…».
- Eppure la fantasia ce l’ha perché vince la Sanremo come l’ha vinta…
«È un gran corridore perché veramente ha dei numeri, però non è un trascinatore. Come per esempio trascinatore che c’era Gimondi e Merckx, Saronni…».
- Gli manca una rivalità? In questo senso qui?
«Sì, però Saronni e Moser portavano…».
- Erano il ghiaccio e il fuoco, no?
«Sì, però io mi ricordo quando andavamo a fare i circuiti, tu vedevi la gente che diventava matta, no? La passione che loro portavano, tipo quando son finiti loro è arrivato pantani. Cipollini anche era un altro trascinatore. Ecco, finiti loro, io non vedo più. Sono tutti…».
- Un po’ soldatini?
«Soldatini. Singoli. Sparsi. Che si coltivano la loro zona, per quel determinato periodo, per quella corsa. Finita lì, basta. Invece qui devi partire dall’inizio e vai alla fine. E l’unico finora che sembra reggere oltre a Sagan anche quello che ha vinto il mondiale quest’anno».
- Valverde.
«Valverde».
- Però, anche lì, Valverde: è un grande corridore ma non è un personaggio…
«Non è un trascinatore».
- Non parla mai, per dire.
«No, no, io in questo caso parlavo…».
- …di corsa, di corridore...
«Di corsa di corridore che parte all’inizio della stagione però è continuo. Qui invece ci son determinati corridori, programmati per vincere quella, e basta, finita lì. e invece no, cioè la stagione forse l’evento che ha portato questo robottismo, perché sembrano dei robot…».
- È il Tour?
«No, a parte il Tour ma son troppe corse. Troppe. Perché la stagione iniziava col Trofeo Laigueglia, la Ruta del Sol…».
- E finiva col Lombardia.
«E al Lombardia chiuso, ed era Europa».
- E sempre gli stessi si affrontavano, no?
«Esatto. Ed erano sempre gli stessi corridori. Adesso corrono in America, in Cina, in Argentina, in Australia, cioè…».
- La stagione non si ferma mai.
«Non si ferma mai. Perché? Perché se vai in quei paesi lì, là è estate, no? Capito?».
- Il Giovanni Mantovani di oggi con il ciclismo ha ancora un legame: che cosa fa?
«Allora, io mi reputo fortunato: anche quando ho smesso, perché… Perché ero amico del Maurizio Castelli…».
- Come ha deciso di smettere?
«Purtroppo ho smesso perché mi si è rotto il manubrio in discesa, si è tranciato. All’Atala, l’ultimo anno, nell’88: ho avuto un grosso incidente».
- In gara?
«No, no: in allenamento. E quindi mi ha rotto la spalla, perforato un polmone, rotta la testa e insomma… e quindi da lì ho capito che era arrivato il mio momento di appendere la bicicletta al chiodo».
- Quindi a 33 anni, lei è del ’55: giusto?
«Sì. E lì ho smesso…».
- Ma perché, in fin dei conti come età era ancora… Era più la voglia?
«No, no… Io, tra l’altro, avevo già in mano un contratto con Saronni. Andavo col Beppe nella Del Tongo solo che non ero più in grado di stare in bici perché, anche adesso, mi si blocca ogni tanto la spalla. E quindi rompendosi l’acromion claveare mi han messo una placca che però ogni tanto…».
- Non ha più lo stesso raggio di apertura…
«Sì. E quindi quando io ho ripreso, ho ricominciato ad allenarmi ma dopo cento-centocinquanta chilometri avevo la spalla che non avevo, non riuscivo più… E allora io ho dovuto abbandonare, e ho abbandonato e basta. La mia carriera è finita così».
- E quindi il passo dopo?
«E quindi io smettendo così, ho iniziato, visto che ero amico del Maurizio Castelli, m’ha fatto una proposta d’andare a lavorare da lui, nel maglificio. Allora lui aveva, oltre al marchio Castelli, aveva anche la Vittore Gianni, quindi mi ha fatto fare una gavetta di un anno, a Milano in via Procaccini, nella vecchia sede. E quindi io ho fatto un anno lì poi m’ha preso in azienda Castelli e mi ha fatto diventare rappresentante. Quindi io da allora a oggi faccio il rappresentante sempre del maglificio».
- Quindi da subito, dall’89?
«No, dal ’90».
- Cioè dopo un anno di gavetta.
«Sì, sì».
- E lì ha imparato il mestiere.
«Esatto. Lì ho imparato tutto».
- Quello che riguarda i tessuti…
«I tessuti, l’impostazione, a lavorazione…».
- E invece il carattere “da rappresentante”: quello lo aveva già?
«Eh beh, avendo il carattere di corridore… L’ho tramutato nella rappresentanza. Poi quando entravo nei negozi e alcuni negozianti mi riconoscevano... Quindi diciamo che ho avuto un vantaggio…».
- Diciamo una sorta di corsia preferenziale, ma poi se al cliente tiri le sole…
«Sì, sì… Però io non mi sono mai ma poi mai presentato come ex professionista».
- Ah sì?
«Mai. Io mi son sempre presentato come rappresentante Castelli. Basta».
- Questo perché? Per non avere favori?
«Esatto. Perché magari c’era qualcuno che la poteva anche prendere a male. Perché ti presentavi come ex professionista, sembrava che tu andavi lì, te la tiravi un po’. Perché mi è capitato di essere in un punto-vendita, è entrato un mio ex collega e si è presentato come rappresentante. Ma come ex professionista l’han buttato fuori dal negozio. Giuro. È vero. Gli han detto: quella è la porta. E io ero lì. Ma loro neanche sapevano che io ero… perché io essendo dietro [nel retro] e stavo facendo vedere il campionario, ho sentito quando lui è entrato…».
- Ma perché si era presentato in un modo un po’ supponente?
«Sì, sì. Perché lui si presentava come ex professionista, mi chiamo pinco pallino e… Ma a Torino, eh. A Torino. Un pomeriggio, io ero didietro e ho sentito lei l’ha lasciato parlare e fa: no, no, guardi, non ci interessa. La porta è lì… E io dentro di me ho detto: madooonna... Allora, io ho fatto finta di niente. Poi mi è ricapitata un’altra volta di essere sempre in quel posto lì e stavo parlando con il cliente, è entrato un signore, che questa signora qua era amico con questo signore, e questo mi guarda e mi fa: ma lei è Mantovani? E io ho detto: ostia, ho visto la reazione dell’altro, che l’ha buttato fuori [ride, nda], e ho detto: eh, sì… Correvo, così, in bicicletta. Ma lei è uno che ha anche vinto corse. Bon. Allora la signora ha preso ossigeno, anch’io lì ho preso ossigeno e ho detto: Va bè, sì, sì…».
- Io ero ragazzino, mi ricordo di un Mantovani al Giro d’Italia, ma ero troppo piccolo per ricordarmi dell’incidente…
«No, no, guardi, io ho passato un anno e mezzo drammatico, eh. Drammatico».
- Già a raccontarla la dinamica ti mette i brividi, figurati a viverla e a recuperare…
«Perché sinceramente neanch’io so come ho fatto quella volta a raddrizzare la gamba.
- Adesso me la porto dentro quell’immagine, pur non avendola vista non riesco a cancellarmela dalla mente…
«Io invece cerco non di ricordarla…».
- E infatti prima di venire qua pensavo: quando vado lì chiedo a Giovanni se si gli va di raccontare, perché magari fa male rievocare ’ste cose…
«No, no: anzi… mi fa mooolto piacere».
- C’è chi le esorcizza raccontandole e chi invece le pone in un angolino o le rimuove…
«No, no, io anche perché… Perché nella mente uno non.. io non ho mai dato neanche molta importanza, ho cercato di non parlarne mai neanche con i giornalisti, anche perché… ma se uno ci pensa bene, guardate che io veramente ho passato un periodo…».
- Ma è la storia, Giovanni: è la storia che… perché poi c’è anche il “lieto fine”, perché poi è comunque riuscito ad avere una carriera, no? È quello che dicevamo all’inizio: oggi sarebbe una storia da film proprio.
«Sì, cioè se uno vuole documentarlo, che poi non è che uno diventa poi un campione, però…».
- È una storia tipo quella di Mino Denti, per quello che gli è successo e che anche lui ha sofferto…
«Sì, sì...».
- E anche lì, non è più tornato il Mino Denti che era.
«No».
- Parliamo comunque di un campione del mondo.
«Certo, certo. Però io mi reputo fortunato perché ho passato delle epoche, al mio tempo con Merckx, Gimondi, Moser, Saronni, De Vlaeminck, Van Impe, Hinault, Sercu… Quindi sono veramente soddisfatto di quello che ho fatto. E la cosa che mi ha dato molta gratificazione è stato quando Bernard Hinault ha detto che io sono un buon corridore, in televisione, per me è stato… e difatti io ogni tanto quando sono… perché on passati tanti anni ma… poi io ho fatto anche il responsabile degli arrivi. Ho fatto circa sei o sette anni con RCS a fare…».
- Anche Zilioli faceva quel lavoro lì…
«Lui faceva le partenze, io facevo gli arrivi. Ho fatto sei o sette anni come responsabile degli arrivi».
- Ma questo in contemporanea al lavoro in Castelli?
«Al mio lavoro, sì, sì, sì… Io facevo uno e l’altro, dopo, va bè, han deciso che non andavo più bene, m’han lasciato a casa».
- Motivo?
«Motivo, non lo so neanche adesso… Quindi non l’ho mai saputo».
- Pensavo fosse per spazio ai giovani, che è l’etichetta che ti attaccano… quando non sanno cosa trovare.
«No, no, no: Anzi, han preso il mio autista, quindi… vabbè, è stata una decisione così, però… ["L’hai fatto per tanti anni", interviene la moglie Marcella, nda] L’ho fatto per tanti anni, va bene anche così perché poi, nell’arco... man mano che passano gli anni, fare sia uno sia l’altro diventava pesante, eh».
- Poi già quando uno stava via duecento giorni l’anno da corridore…
«Sì, sì… Comunque niente, ho avuto il piacere ancora di vederlo a una fiera, Hinault, in Germania, a Friedrichshafen, non so eran venuti per fare un giro [Eurobike, la fiera della bicicletta, nda] e lui è venuto a salutarmi. È venuto a trovarmi quando mi ha visto in Castelli perché sapeva che lavoravo per Castelli, è venuto a cercarmi, è venuto a salutarmi, quindi questa è una cosa che mi ha fatto molto piacere».
- Conoscendo il Tasso, è un bell’attestato di stima…
«Sì, sì. E poi una volta invece sono andato io, quando ancora ero il responsabile degli arrivi del Giro d’Italia, sono andato a una tappa, in Francia, a vedere come posizionavano gli arrivi. E quando sono andato lì per prendere l’accredito, lui mi ha visto, è venuto lui, m’ha salutato, m’ha portato, gli ho detto che volevo vedere un po’ come… m’ha portato, m’ha fatto fare l’accredito che io potevo andare dove volevo, cioè ’na roba… quindi e lì mi sono cioè veramente… [Marcella: la soddisfazione...] Io non sono neanche andato a vedere la tappa, io sono andato a vedere…».
- Come gestivano…
«Esatto. Perché mi interessava vedere come lor si muovevano, no, quindi io non ho neanche visto la tappa… Sono andato a vedere quando montavano l’arrivo, che mi interessava, per dire, no? Però, ecco, mi fa anche piacere che quando vai in quel posto lì, che hai un personaggio del genere, che ti viene, ti saluta, ti dà un accredito che vai dove vuoi. Cioè: quindi…».
- Avendoli visti su strada e correndoci in gruppo insieme, i più grandi chi sono stati? Non per forza chi ha vinto di più… Quelli che proprio erano di un altro pianeta: tipo Eddy o Bernard…
«Quello che mi ha fatto più specie è stato proprio lui, Bernard Hinault».
- Più di Eddy?
«Sì, sì… Eddy oramai ea alla fine, no? Quell’anno lì che io ho fatto il Tour ['79, nda], ho fatto quindici tappe, a una tappa ho fatto seicento chilometri di trasferimento in treno… Abbiam fatto seicento chilometri di trasferimento in treno. Siam arrivati alla partenza, presa la bici, foglio di firma e subito partiti. Mi ha fatto specie, quel giorno lì, perché c’era su un vento della miseria. Pronti-via eravamo già a sessanta all’ora, e son venuti fuori tutti i gruppetti. Hinault quel giorno lì è partito nell’ultimo gruppetto e aveva due o tre minuti, dietro. Davanti c’erano Van Impe, Kuiper, Knetemann, Zoetemelk… Tutti quelli che puntavano alla classifica…».
- Se l’è mangiati?
«No, ’spetta: e io ero dentro, nel primo ventaglio, quindi sapevo "girare" bene, e avevamo circa due-tre minuti. Dopo settanta-ottanta chilometri, dal lato opposto della strada, mentre noi giravamo nello stradone largo, me lo ricordo come se fosse ieri, a un certo punto vedi uno che passa sul ciglio della strada, in maglia gialla, da solo, tutto sulla sinistra, da solo, e noi eravamo e giravamo, ma a sessanta all’ora eh, è andato avanti, duecento metri, si è girato e ha fatto così… Sai cos’hanno fatto? Bum! Ho detto: San Bernardo…».
[ridiamo, e sbatte il pugno sul tavolo, nda]
- Gli si è aperta la strada come il Mar Rosso per Mosè…
«Si è levato il gruppo e io ero al gancio. Quando ho visto che aveva la maglia gialla e gli ha fatto così e gli altri si sono inchiodati tutti, ho detto: San Bernardo… Oh, li ha messi là, da solo…».
- Come quando qualcuno andava in fuga non autorizzato o teneva il ritmo troppo alto, lui tirava il collo a tutti poi si girava: Basta? O continuo?
«Sì, sì, è vero, era un fenomeno, eh. Ecco io mi ricordo lui perché, perché all’epoca era quello che andava più forte di tutti».
- E nessuno le ha dato quelle sensazioni lì? Tipo Maertens in volata o De Vlaeminck nelle gare di un giorno? Quella gente lì, che era a un altro livello? Certo, ognuno con le proprie caratteristiche…
«Sì, beh, con De Vlaeminck abbiam fatto fino all’84 perché poi lui ha smesso, ma lui era già un po’ declinante. Maertens pure aveva degli alti e bassi».
- E aveva pure dei problemi grossi, giù di bici.
«Esatto, c’erano delle situazioni un po’…».
- Bernard invece si staccava, perché era nel prime della carriera?
«Sì, proprio. E quella volta lì mi è rimasta impressa, veramente una roba… che questi qua po’ non erano corridorini, eh. Cioè: erano secondo, terzo, quarto, cioè gente che era là in classifica…».
- Questa cosa del fare la differenza da soli sul gruppo, me l’ha raccontata anche Remo Rocchia per Visentini. E Rocchia per il giovane Bernard Hinault. Vedevi proprio che questi fuoriclasse facevano da soli quello che il gruppo tutto insieme non riusciva a fare. Ultima cosa, per chiudere: mi serve una chiusura. Intanto le chiedo se per lei fu tradimento a Sappada, mi pare di sì… Era preparata, quell’azione? Giovanni Mantovani da che parte sta?
«Ah, io dalla parte di Visentini. Perché mi sembrava quello più danneggiato».
- Il più vulnerabile?
«Il più vulnerabile. Perché lui tra l’altro era uno che non chiedeva alleanze, cioè lui cercava di farlo da solo, con le sue forze».
- Roche invece che corridore era?
«Roche era uno più che lavorava un pochino, si creava alleanze con gli stranieri».
- Prima quando parlavamo del carattere del campione: Roche è venuto dall’Irlanda a Parigi quasi con la valigia di cartone, ha dormito una notte all'addiaccio, davanti la sede della ACBB. Era uno che aveva "fame"...
«Certo, ma Roche aveva il carattere da campione. Quello che mancava a Roberto. Roberto, lui era abbastanza agiato…».
- Ma nel gruppo c’era un po’ d’invidia? Perché lui aveva il Ferrari, era bello… O erano cose un po' montate dai giornalisti? Perché lui la vita da atleta la faceva eccome. Ho letto tante di quelle balle…
«No, no-no-no. Perché lui era così».
CHRISTIAN GIORDANO
NOTE:
[1] Albino Paolo Lanzetta, deceduto nell’agosto 2019, milanese di origine e residente a Monticello Brianza (Lecco), era considerato uno dei padri della moderna ortopedia. Aveva diretto il centro di traumatologia dello sport presso l’istituto ortopedico “Gaetano Pini” e la clinica ortopedica dell’Università degli Studi di Milano.
[2] Pot Belge (in francese), o Belgian Pot (in inglese): mix di stimolanti e antidolorifici.
[3] «Fagianata: un’azione di pura classe. Il corridore che attacca in questo modo fa finta di niente, proprio come il fagiano che va via di pedina, e non parte in un vero e proprio scatto ma allunga, prendendo inizialmente cinque o dieci metri di vantaggio, che poi diventano presto venti, poi trenta… Quando il gruppo si convince che [il fuggitivo] non possa andare da nessuna parte rinforza, [lui] spinge sui pedali e spicca il volo. “La prima volta che appiccicai il soprannome “fagiano” a uno del gruppo” precisa Riccardo “fu al Giro della Provincia di Reggio Calabria, nel 1981, e il ciclista era Luciano Lorenzi… eravamo compagni di squadra, lui era neoprofessionista. A quei tempi era uso alzare il braccio quando un componente della squadra aveva un problema, e tutti si adattavano (non c’erano le radioline)… io ero lì col braccio alzato e mi vidi passare di fianco Lorenzi. Gli gridai: “Uè, fagiano, guarda che Bortolotto ha forato…”. Da quel giorno Lorenzi fu per tutti “Fagiano”».
[Tratto da Fagianate, scatti e scie. Dizionario sentimentale del ciclismo, di Luca Gregorio e Riccardo Magrini, Rizzoli, 2019]
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