APPUNTAMENTO A ROUBAIX
di SIMONE BASSO
Sport e cultura - venerdì 15 aprile 2022
Domenica (e sabato) di Pasqua per chiudere la prima parte della stagione ciclistica (su strada).
Quasi normale, nella data, nell’approccio, nei temi suggeriti, se non si considerasse il viaggio sconnesso, fin qui.
Una settimana tra la Parigi-Roubaix e la Liegi-Bastogne-Liegi, come succedeva nel ciclismo che fu e in quello verbruggeniano, cortesia della corsa all’Eliseo, e con un sovraccarico di storie che arrivano ancora dalla pandemia virale e dalle scosse telluriche a tutto: calendari, squadre, infezioni respiratorie, gare corse col coltello fra i denti, ecc.
Il movimento si muove, onda su onda, in un momento storico – per qualità degli attori principali – con molte assonanze agli anni Settanta, ma in uno scenario globalizzato.
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L’appuntamento al Velodromo di Roubaix, verso le cinque del pomeriggio, è una specie di rendez-vous (disordinato) delle ultime due stagioni.
Dell’Inferno, che è irremovibile nel suo sadismo, stavolta farà (quasi) caldo (ci dice Météo France) e dunque polvere ovunque, non vi racconteremo le solite balle.
Gli altri tempi (che piacciono tanto a chi non li ha vissuti o visti) sono più questi che gli Ottanta o Epolandia.
Il ciclismo del 2022 è forse l’unico sport pro che vive un suo tempo, in una dimensione parallela, sincronizzato con la follia della Rubé stessa.
Perché è anche quello delle Strade Bianche, delle gravel, del Colle delle Finestre, delle classiche spianate à bloc manco fossero le corse dilettanti dell’evo che fu.
Non è un caso che – nel caos dell’enfer – si sia tutti qui ad aspettare due ciclocrossisti.
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In fondo, e lo sostengono sia i cultori che i detrattori della Regina delle classiche, quello che parte da Compiègne è il più grande (e veloce, fuori di testa) ciclocross del mondo.
Si parte alle 11 15, il primo settore di acciottolato (dei 30 in programma) a 161 chilometri dalla pista di Roubaix.
Dei 257,2 chilometri il sunto è semplice: l’Inferno si gioca tra l’entrata nella Foresta d’Arenberg (95,3 chilometri all’arrivo, il 19), Mons-en-Pévèle (48,6 dalla fettuccia, l’11) e il Carrefour de l’Arbre (a 17,2 dalla campana, il numero 4).
I raccordi tra quei (tre) punti chiave sono la sceneggiatura della sfida.
Che varia nei dettagli, infinitesimali, ma non nella sostanza: alle docce (vecchie e sporche) del Velodromo ci si arriva con le gambe forate.
Crudelia Roubaix.
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Il covid ha rovinato i progetti primaverili di Wout van Aert.
Seppure negativo la sua gara sarebbe un enigma, anche per il faro della contesa, l’eterno rivale Mathieu van der Poel.
Favorito dagli eventi, forse sfavorito – tatticamente – proprio da una Jumbo-Visma meno d’assalto del solito, al pari di un Wolfpack (la Quick Step-Alpha Vinyl) che la campagna del Nord non la subiva così da eoni.
Tutti allora contro il nipotino di Pou Pou?
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L’olandese avrebbe il double Ronde-Roubaix a portata d’impresa (..).
Vediamo bene, molto bene, Mads Pedersen come sabotatore dei sogni di gloria.
Alla Trek-Segafredo c’è pure Jesper Stuyven, uno che – nel finalone – potrebbe fregare la concorrenza.
Outsider pericolosissimo, meno veloce in uno sprint ristretto ma passista (di lusso) da pietre, è lo svizzero Stefan Kueng: il tipico rouleur che, preso mezzo minuto sul branco dei favoriti, diventerebbe irraggiungibile.
Kasper Asgreen e Alexander Kristoff vivrebbero di interessi opposti: il danese da finisseur, il norvegese da velocista.
Ci sono il vecchio Greg Van Avermaet e il (relativamente) giovane Pippo Ganna: uno a ridestare ricordi vittoriosi, l’altro a tessere un filo per il suo futuro prossimo da classicomane.
Chissà poi Christophe Laporte, Michael Matthews, Jan Tratnik, Pascal Ackermann, Florian Sénéchal..
Un mucchio selvaggio.
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Col sabadì delle dame a far da prologo, si annunciano due giorni di festa.
Un epilogo di una settimana santa allargata (..) che ci ha suggerito una montagna di note, scritte a mano, sul taccuino.
1.
Finale dell’Amstel Gold Race, domenica scorsa, due fuggitivi gestiscono il vantaggio sul gruppetto con van der Poel, Tiesj Benoot e gli altri.
Benoit Cosnefroy, un bel cavallo da Nord vallonato, ne avrebbe di più rispetto al veterano (pluridecorato) Michal Kwiatkowski.
Il polacco, una volpe, lascia il francese davanti e aspetta la volata a muso corto.
Cosnefroy va via di forza, Kwiatko esce di giustezza (traduzione: meno benza nel serbatoio).
Sulla linea del fotofinish, l’alfiere della Ineos precede di qualche centimetro il transalpino.
La differenza è banale (da spiegare): il polacco è perfetto nel colpo di reni, l’altro non lo esegue.
Kwiatko arriva dalla pista, Cosnefroy no.
Amen.
2.
Elisa Balsamo porta in giro la migliore maglia iridata possibile.
Un’iradiddio nei finali gomito a gomito, alla Trek-Segafredo ha compiuto l’ultimo scalino, quello decisivo, tra le big.
Al pari di Chiara Consonni e Marta Cavalli, altre due forti forti nelle corse veloci, il dominio della cuneese è una condanna indiretta a un paio di decenni d’immobilismo (tecnico) del movimento.
Balsamo si muove nelle pieghe del plotone, sfrutta i pesci pilota, legge i buchi e battezza le ruote, lima, sfrutta le velocità (variabili, a elastico) del gruppo.
Doti che si affinano soprattutto in pista, nei velodromi.
Nel ciclismo maschile, per anni, si sono ignorati i benefici della multidisciplinarietà.
Tra le donne, alle prese con investimenti mignon (sponsor), si è scelta – da mo’ – questa strada.
3.
Ronde di lusso, la prima aperta alla folla (straripante), dopo due anni liofilizzati dalla pandemia virale.
Se la aggiudica van der Poel, correndo come il miglior Jan Raas, da marcatore stretto e opportunista.
Tadej Pogacar, demolendo i migliori sull’Oude Kwaremont, faceva il lavoro (sporco) per il figlio di Adrie.
La lezione del 2021, quando perse (col serbatoio in riserva) lo sprint a due con Asgreen, a van der Poel è servita.
Il bis al Fiandre arrivava con pochi giorni d’agonismo – sette... – nelle gambe: tanto per farci immaginare meglio il motore (turbo) dell’olandese.
4.
La cilindrata di Pogacar ci ricorda invece un principio del ciclismo moderno, inventato (?) da Fausto Coppi.
La potenza, quella potenza (espressa anche con l’agilità), non si cura del terreno specifico, la si scarica su qualsiasi tipo di strada.
Salita, falsopiano, muri, strade sterrate, drittoni asfaltati.
Lo osservavamo sul pavé della Attraverso il Belgio: zero problemi, guida del mezzo, adattabilità della pedalata, l’occhio per le traiettorie meno scomode.
A 23 anni e mezzo, fuori categoria come solo Coppi, Jacques Anquetil ed Eddy Merckx prima di lui.
5.
Alle Strade Bianche, era il 5 marzo, Pogacar apriva il gas a 51 chilometri dal traguardo (Monte Sante Marie).
350 watt la potenza media espressa a 37,4 chilometri orari, nell’ora 20 minuti e 13 secondi di assolo: dalla discesa presa a tomba aperta, al falsopiano all’insù nel polverone, e via.
La settimana prima, il 26 febbraio alla Omloop Het Nieuwsblad, Wout van Aert se ne andava via ai piedi del Bosberg: scollinato il muro caro a Edwig Van Hooydonck, percorreva gli ultimi 13 chilometri a 53,3 orari.
Per riprendere le parole di Primoz Roglic, salvato (scortato) dal campione belga nell’ultima tappa della Parigi-Nizza: “Van Aert è metà umano e metà motore. Lui può tutto...”.
6.
La Milano-Sanremo, con questi attori alla ribalta (Pogacar, i van del ciclocross, Rogla...), è stata fotonica.
Mai vista una selezione del genere, sulla Cipressa, nemmeno nel 2003 di Paolo Bettini (e Luca Paolini).
Sei minuti sei di Poggio, Pogacar a palla, ma decide la picchiata verso Via Roma: la discesa di Matej Mohoric, alla Kenny Roberts, è stata degna dello Sean Kelly 1992.
L’irlandese riprese Moreno Argentin, che pareva con il successo addosso, seminando le moto del seguito tra un tornante e una curva cieca...
7.
Nessuno si è sorpreso di vedere Biniam Girmay vincere la Gand-Wevelgem: il talento dell’africano riempie gli occhi.
Ma non si pensava che l’argento under 23 di Lovanio arrivasse subito, tra i migliori, ai massimi livelli.
L’entusiasmo per la sua vittoria, comprensibile, sciorina una serie di stereotipi sull’Africa sportiva.
La realtà dell’ambiente (che fa l’atleta): la diminuizione di ossigeno nell’aria – Girmay è di Asmara (una città a quasi 2400 metri sopra il livello del mare) – porta a un midollo osseo che produce più globuli rossi e reni che secernono più epo naturale.
Gli eritrei come i keniani e i colombiani.
Con una dissonanza di base nello sport praticato: nell’atletica, fondo e mezzofondo, la componente fisiologica è preponderante; nel ciclismo, no.
8.
Magnus Sheffield (classe 2002) vince la Freccia del Brabante, Carlos Rodriguez Cano (un 2001) si aggiudica una tappa al Giro dei Paesi Baschi, Ben Tulett (anche lui nato nel 2001) fa lo stesso in una frazione della Coppi e Bartali.
L’Ineos Grenadiers sta programmando bene il dopo Team Sky (Chris Froome).
All’UAE Tour di febbraio brillava il diamante (grezzo) Luke Plapp: fresco del titolo australiano, ad appena 21 anni scortava il capitano Adam Yates salendo Jebel Hafeet, opposti al cannibalesco Pogacar.
L’Aussie sembra avere un potenziale illimitato, chissà se da tappista: la scorsa estate fu bronzo nell’inseguimento a squadre a Tokyo, ma ci parrebbe – qualche chilo giù – un probabile antipogacar.
Come dice Gianni Bugno: “Vedremo.”
9.
Sul Giro d’Italia 2022 non ci viene in mente niente.
Giusto che si venda il brand per quello che è (era?), ma la (ri)partenza dall’Ungheria – per contratto (incasso) – inaugura un Girettone così così.
Subiremo tre giorni di tricolori al contrario (qualcuno lo faccia notare all’ANPI), nelle terre più putinizzate d’Europa, quasi inutili e dannose nel racconto complessivo.
L’era Cairo è quella di una gestione tecnica decadente: un Giro con troppe salite, pochissima cronometro, il meglio nelle (poche) tappe miste.
Lo seguiremo con l’attenzione e la passione che merita, una manifestazione che – ahi noi – soffre lo strapotere politico e finanziario francese (ASO e UCI).
Sappiamo che sarà salvato dai corridori stessi, che amano correre il Giro più del Tour, una vetrina (planetaria) che li sottopone a una pressione inumana.
Svetterano i van der Poel, Girmay, Tom Pidcock e si giocheranno la (maglia) rosa Richard Carapaz, Simon Yates, Joao Almeida eccetera.
Il resto è mancia: compresi i fresconi che – a maggio, d’improvviso, sui media generalisti e non – scopriranno il cratere generazionale azzurro.
SIMONE BASSO
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