CELTICS BUCKS 2022 INSTANT CLASSIC, KAREEM AL BOSTON GARDEN



di SIMONE BASSO
Sport e Cultura - lunedì 16 maggio 2022

Celtics contro Bucks, la serie più importante dalla bolla di Orlando in poi, ridefinisce l’NBA di oggi. Quella del percentile, delle triple dagli angoli, dei cambi difensivi, dei match up martellanti.

Due squadre quantitativamente mostruose, con la (giusta) qualità in alcune fasi (distinte fra loro). Difficile, tornando indietro, trovare una combo che abbia cambiato passo – a stagione in corso – come questi C’s.

Costruiti su difese individuali (Marcus Smart, Grant Williams) che accendono una giostra di raddoppi aggressivi e creano un muro di protezione (Robert Williams, Al Horford) sotto.
Di là, belli da vedere quando abbandonano l’Iso e vanno nel flusso (ribaltando bene il lato), confermano l’entrata nello stardom del principesco Jayson Tatum (una specie di T-Mac...) e di Jaylen Brown.

Boston, per arrivare in fondo, avrebbe bisogno anche di un Timelord (importante nelle chiusure) al cento per cento.

Milwaukee è un mosaico costruito su idee (tattiche e tecniche) logiche: oversize, occupa (atleticamente) i 14 metri forzando, favorendo, transizioni e palle perse.


Un freak – il greco – che con queste regole, il passo zero, le spaziature allargate, domina quasi come il 33 dei Bucks delle origini (Lew Alcindor, il protagonista della seconda parte di questa storia).

Una combo guard, Jrue Holiday, che colma i vuoti di sceneggiatura della truppa e una batteria di specialisti (Brook Lopez, Bobby Portis, George Hill...) che possono spostare l’inerzia delle partite sotto pressione.

Khris Middleton (tiratore e scorer de luxe) non mancava nel disegno complessivo, ma nei finali punto a punto, laddove la sua mano, il suo uno-contro-uno, avrebbero inciso.

Una serie dalla fisicità irreale, un instant classic, presumiamo il momento più alto di questi playoff.

Degno di una rivalità orientale che arriva da lontano (gli anni Settanta) ed ebbe due scontri-chiave (per entrambe le franchigie) negli Ottanta.
Nel 1983, semifinale di conference, i Bucks distrussero la Gang Green. Erano, quei Cerbiatti, una creatura, futurista, dello scienziato pazzo (gloria Celtics) Don Nelson.

Tendente alla versatilità dei suoi attori. Il migliore, Sidney Moncrief, nell’83 (allo zenit della carriera) il più forte esterno two-way della lega: per controllo del giochino, lo ribadiamo, dalle parti di un Magic Johnson o di uno Sugar Richardson.

C’erano pure la classe cristallina di Marques Johnson, il fromboliere Junior Bridgeman, la point forward Paul Pressey.

Allo squadrone mancò sempre, nell’evo dei centri dominanti, un pivot di lignaggio: il grande Bob Lanier, andatosene avanti pochi giorni fa (il 10 maggio 2022), era all’ammazzacaffé.

Col Piedone dei Pistons, di dieci anni prima, sarebbero andati ad anello. Quei C’s furono spazzati via in quattro match, per la prima volta nella loro storia (delle serie 4 su 7), in una gara4 dominata da Moncrief e soci.

La lezione, al solito, obbligò Red Auerbach a dare il meglio di sé. Quell’estate sarebbero arrivati, via Phoenix, un All-Star (Dennis Johnson) – un fuoriclasse – e in panca – al posto di Bill Fitch – il cuore (e il cervello) Celtics di K.C. Jones.


Nel 1987, un’altra semifinale di conference, la dinastia verde (i C’s erano i campioni in carica) stava declinando forse per solo un motivo: la morte assurda, qualche ora dopo il draft, di Len Bias. Con Bias in maglia Celtics, la storia dell’NBA che conosciamo sarebbe stata altro...

Quella Boston vantava un Larry Bird stellare, un genio cestistico al suo apice, un gruppo fortissimo ma vecchio e infortunato. Kevin McHale, il migliore "4" della lega, zoppicava; Bill Walton, back up di Robert Parish, aveva finito (le ossicine dei piedi da rompersi...).

Eppure i C’s la spuntarono in una gara7 al cardiopalma: a tre minuti dalla sirena, i Bucks parvero a un passo dallo sbancare il Boston Garden.

Un canestro di Bird e una stoppata di Parish su Jack Sikma (l’ennesimo centro arrivato tardi in Wisconsin) con un prodigioso recupero (in tuffo) di DJ.

Boston si salvò, Milwaukee vide sfumare così l’ultima opportunità. Le cartilagini delle ginocchia di Moncrief, eroico nella post season, si stavano danneggiando irrimediabilmente.

Terry Cummings, arrivato dai Clippers per Marques Johnson, e Ricky Pierce non bastavano per coprire il declino dei veterani: dopo Lakers e Celtics, la migliore percentuale di successi degli Eighties appartiene a quei Bucks.

Una beffa che non fossero riusciti a giocare nemmeno una finale. L’ultima, prima di Giannis Antetokounmpo, sarebbe rimasta quella del 1974. Un altro Celtics-Bucks al calor bianco, quando il Wisconsin "stava" a Ovest (sic).
...

Quarantotto anni fa uno degli Showdown più appassionanti di sempre, forse il più significativo degli anni Settanta, penalizzato dallo scorrere – impietoso – della clessidra.

Altri scontri dell’epoca sono rimasti maggiormente nell’immaginario collettivo, rispetto a Celtics-Bucks 1974, e il motivo è banale: i New York-Los Angeles, mediaticamente, erano imbattibili. La realtà è che, se volete vedere una partitaccia, sopravvalutata e deludente, potreste rivolgervi alla (celeberrima) gara7 Knicks-Lakers del 1970, quella dell’eroismo di Willis Reed.

Milwaukee-Boston fu invece una serie straordinaria, sul filo dell’incertezza e col fattore campo che saltò cinque volte.

Segnò il ritorno della Gang Green ai massimi livelli, dopo la dinastia di Auerbach e Bill Russell, e l’epilogo di quella Milwaukee.

Franchigia d’espansione, nata nel 1968, che ebbe la buona sorte di indovinare il verso giusto della monetina e scegliere un fenomeno, Lew Alcindor. Nel 1970-71, con l’acquisizione di Oscar Robertson e la maturazione del nucleo-base, i Bucks divennero la prima comba a sorpassare il cinquanta per cento dal campo in stagione.

Se solo Big O fosse stato più giovane... Fu difatti il declino – fisico – di Mister Tripla Doppia a impedire il bis. Gara6 rappresenta un canovaccio perfetto per leggere quella pallacanestro.

Lo stile era orientale, ovvero controllato, a ritmi bassi per l’evo, addirittura intimidatorio.

I Cerbiatti, spalle al muro sul 2-3, nella bolgia del Garden, condussero tutta la contesa senza ucciderla. La causa principale furono le (tante) palle perse, implementate da coach Tom Heinsohn che scelse un approccio aggressivo, con Jo Jo White, Don Chaney, Hondo Havlicek che – durante la rimonta – pressavano fin dalla rimessa.


Uno stilema tipicamente collegiale. Le squadre giunsero stremate al primo tempo supplementare, che si risolse in un ciapanò (finì 4-4..).

Il secondo overtime divenne un instant classic, uno dei momenti più alti nella storia dell’NBA. Il duello principale era Dave Cowens opposto a Kareem Abdul-Jabbar. Dave, centro “piccolo”, marcava Kareem usando tutti i trucchi, legali e no.

Il Rosso, che offensivamente giocava a cinque metri dal ferro per obbligare il totem a star fuori e aprire gli spazi, era un rimbalzista clamoroso. Istinto, garra, posizione, tempismo, doti atletiche.

Lo spirito, la cazzimma, di Cowens si esemplificarono in una palla sporcata a Robertson con successivo tuffo, kamikaze, per forzare una palla a due: diverrà un’immagine iconica.

Dello spirito di Dave e del Celtic Pride.
Il Trentatré era già l’arma totale della lega. Aveva l’arsenale completo: il gancio-cielo girando a destra, il jumper in avvicinamento col perno verso sinistra.

In post, passatore eccelso, dettava i ritmi e suggeriva i tagli ai suoi. Difensivamente, per quel tipo di basket, era perfetto: intimidatorio ma non troppo, usava la stoppata come deviazione, alterando le parabole di tiro senza cercare il numero ad effetto.

Di là era decisivo nel clutch, il go-to-guy per eccellenza. Considerazioni sparse. I giochi a due erano tali: coinvolgevano il palleggiatore e il lungo che bloccava. Poco accadeva sul lato debole.

La meccanica di tiro, nella media, era lenta e rivedibile: i quattro decimi di rilascio in elevazione (non in sospensione) di Steph Curry non erano immaginabili.

Le ali erano facilitatori – molto versatili – che fungevano da raccordo tra gli esterni e i lunghi. Nei Bucks, Bob Dandridge (un All-Star) era notevole in quel compito.

I giocatori, quasi tutti provenienti da università con un programma cestistico di prima fascia, passavano meglio la palla: timing, tecnica individuale, lettura. Anticipiamo qualsiasi annotazione nostalgica: quel college basketball non esiste più.

A quei tempi gli allenatori NCAA erano insegnanti (di pallacanestro), oggi soprattutto reclutatori. L’ultimo parziale, leggendario, visse sul continuo alternarsi del risultato. Subito, sette punti di un enciclopedico Havlicek e quattro di Big O. Hondo era l’epitome dello swingman, riassumeva tre ruoli in uno.

Versatile, essenziale, mai un gesto inutile: un vincente. Segnava sfruttando gli stagger o col palleggio-arresto-e-tiro. All’occorrenza fungeva da regista e collante. E difendeva tosto.

Punto di congiunzione con la dinastia dei Sessanta, guidava con l’esempio: il campione più sottovalutato nella storia del gioco? Sul 99-98 Celtics, a 1’26” dalla fine, Cowens commise il sesto fallo.

L’asse Dandridge-Mickey Davis, con un jumper ai limiti del circus shot, confezionò l’ennesimo sorpasso: saranno dieci in cinque minuti. A sette secondi dalla sirena, nel pandemonio, un Havlicek intoccabile scavalcò la mano protesa di Kareem e realizzò il 101-100. Il dodicesimo bandierone sulle volte del Garden era già pronto.

Rimessa di Robertson al Trentatré che, in corsa, uscendo dal campo, dai quattro metri e mezzo, infilò il più incredibile dei tiri vincenti. I Bucks avrebbero perso nella bella, lasciando troppo solo Abdul-Jabbar, raddoppiato e triplicato. Il 2/13 di Robertson, alla frutta, li condannò.


La vendetta sportiva di Kareem, al Boston Gardem, giunse nel 1985. Quando, a 38 anni (!), reagendo al celebre Memorial Day Massacre dell’esordio, portò El Ei alla terra promessa.

Una sfida Celtics-Lakers estrema (...), caratterizzata da una fisicità e una violenza quasi parossistiche. Il capitano gialloviola non la decise solamente polverizzando il rivale diretto Parish.

In gara5 (36 punti, 7 rimbalzi, 7 assist, 3 stoppate) fermò un sin lì inarrestabile Kevin McHale. Fu la vittoria più importante di sempre dell’èra di Jerry Buss. Nella sesta sfida, il pomeriggio che Magic e compagni scacciarono definitivamente i fantasmi del Garden, tre ganci-cielo dell’ex UCLA sigillarono l’impresa.

L’ultimo atto di Abdul-Jabbar, quarantaduenne, sarebbe arrivato ancora nelle Finals (la numero nove in diciotto anni...) quattro stagioni più tardi.

Sul morire di gara4 al Forum, quando andò a sedersi in panchina, assistemmo a una scena inedita: i Pistons, in coro, a qualche secondo dal loro primo titolo, lo applaudirono.

SIMONE BASSO

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