CARUBE


Quarant'anni come meccanico tra i professionisti, una vita in ammiraglia e in giro per il mondo ad occuparsi delle bici di campioni e gregari. Una storia speciale con Mario Cipollini. 
Siamo andati a casa di Roberto Lencioni, per tutti...

di PAOLO "PENNI" MARTELLI ©
alvento © - #12, ottobre 2020 

Avete mai giudicato una persona a prima vista? Magari per un atteggiamento o per il suo aspetto fisico? Sicuramente vi è successo. Avete mai vinto una gara in bici? Non dico una tra amici, nel piazzale di casa. Intendo una vera, una dove magari ci sono un centinaio di ragazzi di diciott'anni che sognano di partecipare al Tour.

Siete mai stati a vedere una gara di ciclismo Pro dietro le quinte e magari finita la gara sentite di avere vissuto un'esperienza incredibile, che vi ha fatto pensare di saperne di ciclismo più dello spettatore medio? Ecco, io non ho mai vinto una gara in bici, però sì ho una vaga idea del talento e dello sforzo che implichi. E sì, ho giudicato a prima vista. Roberto Lencioni è toscano, lucchese, ed è decisamente sovrappeso in questo momento, se voleste giudicarlo a prima vista avreste gioco facile.

Roberto però vinceva quelle gare quando aveva diciott'anni. Io ho lavorato spesso come fotografo nelle gare Pro, e sì, talvolta mi sono sentito più figo dello spettatore medio. Roberto Lencioni, per tutti Carube, ha fatto il meccanico in squadre professionistiche tra il 1979 e gli anni 2000, gli ho chiesto a quanti grandi giri avesse lavorato e non ha saputo rispondermi. Troppi. I suoi occhi hanno visto correre tra gli altri Maertens, Bertoglio, Saronni, Moser, Zabel, Roche, Kelly, Pantani, Cipollini. Chi è più figo, ora?

A inizio agosto sono stato a far foto alle Strade Bianche e siccome ero già in Toscana ho pensato di provare a conoscere un po' meglio Carube, sono passato a trovarlo. Arrivo e mi accoglie in mutande, giustamente, ci sono 41 gradi all'ombra. La casa è grande, antica, con una piccola corte trasformata in giardino e officina, ci sono bici o pezzi di bici ovunque, il ciclismo trasuda dappertutto.

«Carube se poi ti devo fare delle foto ti vesti però, non è vero?».

«Qualcosa lo troviamo, via...».

Gli racconto che sono stato alle Strade e che c'era caldo e che sono contento, sono riuscito a vedere due tratti di sterrato con le donne e due con gli uomini.

«Eh dai, io ricordo una volta che portai in auto il Bettini (foto Bettini, il padre) e riuscimmo a vedere sette diversi tratti di bianca e anche l'arrivo. Se me lo dici in anticipo l'anno prossimo ti porto in giro io». 

Poi si sofferma un attimo sul caldo. 

«Ricordo una volta in Australia, uscimmo a seguire i ragazzi in allenamento, l'SRM segnava 52 gradi, si spense e si riaccese da solo la sera in camera d'albergo. Guidando l'ammiraglia abbassai il finestrino, misi fuori il braccio e mi si rizzarono tutti i peli dal caldo».

Pim, pam! Ecco quarant'anni di esperienza nelle corse che ti schiaffeggiano in pochi secondi. Ci sediamo in giardino, c'è una piscina di quelle montabili preparata per l'orda di nipotini che arriverà di lì a poco. Gli chiedo come si è appassionato al ciclismo.

«Ero uno sportivo vero all'epoca, non come adesso, allora vincevo le gare a piedi, ero capitano della squadra di pallavolo. Comprai una bici da corsa e siccome c'era una squadra vicino a casa che sapevo che andava a correre, una volta li seguii. O meglio, scappai di casa per andare a correre in bici, mio padre non approvava, non amava il ciclismo. Il "problema" è che tornai con la coppa e tutti i premi vari, fu complicato dire bugie. Corsi fino agli Juniores, 17-18 anni, e vincevo pure. Poi feci un incidente in Vespa e mio padre mi mandò a lavorare in un calzaturificio. Però io continuavo a bazzicare l'ambiente e cominciai ad andare alle corse con (Piero) Pieroni, con la GIS, con corridori come Bitossi e Basso; io andavo come aiuto-meccanico, lavavo le bici. L'anno dopo invece andai con (Carlino) Menicagli alla San Giacomo. Al secondo anno la squadra era già la San Giacomo-Benotto, con gente come (Freddy) Maertens e (Beppe) Martinelli, quella squadra degli anni '80 potrebbe essere paragonata alla Sky dei giorni nostri; maglia amarillo alla Vuelta, maglia rosa qualche giorno con Visentini al Giro, maglia verde con Bortolotto del Gran Premio della montagna».

Carube ormai è partito…

«Al tempo stavo già in giro 6-7 mesi l'anno, si facevano 180 giorni con la squadra. La parte più dura era iniziare la stagione, in gennaio si andava in ritiro, poi ci si spostava al Giro di Sicilia, poi Sardegna, Campania e Calabria. Poi la Tirreno-Adriatico, finita quella si andava alla Milano-Sanremo e poi alle corse del Nord, i primi di aprile cominciava la Vuelta, che finiva la domenica e il sabato dopo cominciava il Giro, e così via».

Gli chiedo come abbia imparato a fare il meccanico. Io se non so una cosa di fotografia, la cerco su Youtube…

«Fin da piccolo mi montavo e smontavo la bici da solo, mi piaceva, lo trovavo naturale e mi veniva facile; non ho avuto grandi maestri in quel senso, sono autodidatta. Una volta si imparava tenendo gli occhi aperti, rubando i segreti, guardando come facevano gli altri, poi io una certa vocazione ce l'avevo. Ho sempre fatto il lavoro pensando al lavoro, non ad altro, mi sono sempre definito come uno che ha avuto una grossa fortuna, potendo campare di una cosa che mi piaceva. Alle corse, quando non si conoscevano le tappe, si andava a spiare le bici delle altre squadre per capire se avessero montato certi pignoni o no. Era tutto molto più adrenalinico e imprevedibile. Si imparava facendo, guardando, spiando, rubando, sbagliando. Se per esempio io sapevo che quella certa salita della giornata era dura e che ci voleva il 28, io preparavo la bici e non la tiravo fuori fino a cinque minuti dalla partenza, per non dare aiuti a nessuno».

Ma a te piacerebbe fare il meccanico al giorno d'oggi?

«No, credo di no. Allora era molto diverso da oggi. Quarant'anni fa la bici era più curata, un corridore aveva una bici che doveva essere la bici da crono, da salita, da allenamento. Doveva essere tutto. Oggi un professionista ha 6 o 7 bici, per non parlare dei big del plotone, una in ogni posto e una per tipologia di percorso. Per cui il lavoro sulla bici era diverso, c'era più attenzione. Ora è un usa-e-getta. Una volta, la sera al Giro d'Italia, dopo aver fatto tutto quello che avevi da fare, dovevi occuparti di riparare i pezzi: se durante il giorno i corridori avevano spaccato due cerchi, ti mettevi lì e ri-raggiavi tutto, rifacevi la ruota. Adesso la ruota la prendi e la butti via. E poi dovevi essere pronto a tutto, è riduttivo dire che facevamo solo i meccanici, alla fine eravamo una specie di secondo direttore sportivo. Nelle corse a tappe, sulla prima ammiraglia c'era il direttore sportivo con un meccanico ma nella seconda macchina normalmente salivano un meccanico e un massaggiatore; la seconda auto aveva un ruolo fondamentale, veniva chiamata ad esempio per preparare i rifornimenti a 12 chilometri dalla zona prevista, oppure durante le fughe ci veniva dato il permesso di superare il gruppo. Capisci che allora tutti noi dovevamo essere in grado di leggere la corsa, guidare l'ammiraglia nel modo corretto, saper stare a 100 all'ora di fianco ai corridori, sapere cosa fare prima delle curve. Tutte queste cose ci venivano insegnate, l'animo del direttore sportivo ti entrava dentro. Vedi perché ora si vedono tante cazzate nelle gare, perché il corridore smette di pedalare e va a fare il direttore sportivo, ma quello dell'ammiraglia non sa una sega, è sempre andato solo in bicicletta».

Se potessi scegliere, rifaresti la stessa vita?

«Rifarei tutto, magari cercherei di modificare certe situazioni, di essere meno altruista forse. In qualsiasi ambito ci sono persone che ti deludono. Io penso di aver ricevuto molto, ma di aver dato veramente tutto. Ho anche trascurato la famiglia, ne sono consapevole. Per fortuna ho avuto accanto una donna che mi ha sempre capito, a cui piaceva il ciclismo. Anche le mie figlie lo amano. Senza una donna appassionata a questo sport di fianco, non sarebbe stato possibile, sarebbe stato un disastro. Pensa che a volte io ero in giro per il mondo con la squadra e lei, a casa, andava a vedere le gare dei giovani, per conto suo».

Cosa significava la squadra per te all'epoca?

«Era una famiglia, si andava avanti tutti insieme. Era una cosa molto importante. Negli anni con Mario Cipollini eravamo una squadra nella squadra, seguivamo i programmi di Mario ovviamente, che era la punta di diamante, ma eravamo comunque parte della famiglia. Poteva cambiare nome in base allo sponsor, ma la base fatta dalle persone rimaneva quella. Poi, un po' alla volta, si è rotto tutto. La botta finale la diede Mapei, alzando così tanto i budget che la metà delle squadre sparirono. La cosa è andata peggiorando, ti assicuro che se nel giro di un paio di anni dovessero fallire due o tre squadre grosse, il sistema del ciclismo andrebbe davvero in grossa crisi».

Entriamo in casa per mangiare, il sugo della pasta è fatto con i pomodori dell'orto. È speciale e mi chiedo come sia possibile che nessuno fuori dall'Italia riesca a riprodurla così. Ah, la pasta è Martelli, che per chi non lo sapesse è una pasta italiana molto buona e cara, non lo dico perché mi sponsorizzano, lo dico perché a tavola con Carube scopro che è la pasta che molte squadre comprano a quintali per fare tutto un grande giro. O quella o niente. Sembra che sia anche la pasta che ti servono se vai a mangiare a casa della regina Elisabetta... cosa che tutti più o meno proveremo almeno una volta nella vita.

Andiamo avanti con la chiacchierata e gli chiedo come è iniziato il connubio con Mario Cipollini, di cui è stato meccanico e uomo di fiducia per anni.

«Un giorno, era il 1996, mi chiamò Cipollini, che era a correre in Portogallo, e mi chiese se mi andava di lavorare con la Saeco, dato che un meccanico se ne sarebbe andato; Mario lo conoscevo da una vita, nell'89 alla Del Tongo eravamo già stati insieme e comunque fin da piccolo passava spesso in bottega a trovarmi. E insomma mi chiamò e mi disse che noi s'era cominciato insieme e se c'avevo voglia di andare con lui che comunque avrebbe corso un altro paio di anni solo... e alla fine furono Saeco 5 anni, poi un anno di Acqua e Sapone». 

È vera la storia delle multe in superstrada per fare dietro moto?

«Dietro moto no, facevamo dietro Smart. Sì, era un'abitudine nostra (ride, nda). Quel giorno ci fermò la Polizia e multarono Mario e Scirea con 38 euro a testa. Poi un poliziotto rivolgendosi a Mario gli disse: scusi ma lei non è stato insignito di un merito alla Repubblica per risultati sportivi? Sì, vero? Beh, allora potrebbe chiedere il permesso ufficiale per allenarsi qui, lei decide la fascia oraria e noi con due auto le faremmo da scorta per il tratto di allenamento previsto».

Consiglieresti il ciclismo a un ragazzino? O a un genitore per i suoi figli?

«Mi piacerebbe che il ciclismo potesse traghettare i ragazzi fino alla maggiore età. Ti forma il carattere, ti obbliga a mantenere certi ritmi di vita, ad andare a letto presto, mangiare bene, ti tiene lontano da cattive compagnie. La bici ti forma, ti abitua a quello che succederà nella vita, dove per raggiungere gli obiettivi, qualsiasi essi siano, bisogna lavorare, sforzarsi; a volte ti trovi in salita ed è difficile, a volte sei in discesa e per quanto tu vada forte e facile, devi stare molto attento ugualmente. Nella bici come nella vita si cade e bisogna rialzarsi. Il più delle volte si perde ed è la cosa più normale al mondo, a volte si vince grazie ad un momento di coraggio, per aver stretto i denti più degli altri. I genitori dovrebbero capire che non succede nulla se il ragazzo o la ragazza non vince, il carattere si forma lo stesso, la più bella vittoria è che stia in bici fino ai diciotto anni, poi si troverà più preparato ad affrontare la vita».

Usciamo di casa e andiamo alla bottega che Carube ha da sempre. 

«Guarda che dentro è un casino...», mi avverte. 

È un posto magico quello di cui varco la soglia: i ricordi di una vita nel ciclismo, quell'odore di viaggi e di emozioni. Mi chiedo come fare a trasmettere tutto ciò con le mie foto per far sì che non si perda. Tra i vari cimeli vedo una maglia verde del Tour firmata da Zabel. 

Zabel non è mai stato in squadra con te, no?

«Questa è bella (e ride della grossa, nda), sai quella tappa in cui Pantani scassò il Tour, quando levò la maglia a Ullrich... Quel giorno il tempo era terribile, Zabel ebbe problemi alla bici, mi ci trovai vicino, la sua ammiraglia non c'era e allora gli diedi io una bici, ma lui non era dei nostri. Aveva la maglia verde, Zabel. Ad Amburgo mi venne a trovare e mi portò una maglia verde firmata, dicendomi: il 50% di questa maglia è tua, se non mi avessi dato la bici non l'avrei mai portata a casa».

Durante il lockdown sono arrivato a farmi quattro ore di rulli rivedendo le tappe integrali del Giro e Tour di Pantani... che tipo era Marco?

«L'ho visto arrivare, l'ho visto crescere. Era un gran bravo ragazzo, buono e timido. Purtroppo, non ha avuto al suo fianco persone che gli volevano bene, hanno approfittato di lui. A quel tempo erano due i personaggi trainanti nel ciclismo in Italia, Marco e Mario, per cui spesso erano insieme. E li ho vissuti molto da vicino».

E Mario? Dicci qualcosa di lui.

«Persona determinata al massimo e un campione vero per la bici, ma in fondo credo che qualsiasi sport avesse fatto sarebbe emerso. Ha una mentalità vincente, aggressiva, a molti non piaceva perché le sue vittorie, se necessario, includevano affossare avversari e no. Quello che si metteva in testa, lo otteneva. Era un professionista al 120%, era molto esigente con se stesso e con gli altri. Dopo i dodici anni insieme ci siamo allontanati, come una coppia che scoppia. Nulla di grave, ma avevamo bisogno di una pausa».

Vi sentite ancora?

«Sì, ogni tanto, ma io non uso social media, per cui mi taglio fuori da solo».

Provi nostalgia a vedere le gare?

«Non mi diverto più, a volte guardo solo gli ultimi chilometri. Mi garba vedere i bimbi correre o gli esordienti, ma la poesia l'ho persa. Non voglio dar la colpa a nessuno e non voglio sembrare un vecchio nostalgico che si lamenta, ma ho vissuto gli anni migliori del ciclismo e adesso non mi diverte più quello che vedo. Aspetta, ok, forse l'unico con cui lavorerei volentieri oggi è Sagan. Mi piace la sua follia».

Quindi se ti chiamassero a lavorare, ad oggi non torneresti?

«No, andrei solo per cercare di trasmettere la mia esperienza, formare i professionisti del futuro e poi comunque adesso bisogna saper parlare inglese».

E all'epoca come facevi, scusa?

«Allora la gente veniva in Italia per imparare il ciclismo. Qui si insegnava, tutti i grandi campioni dovevano conoscere l'italiano. Sapevano che per fare il salto di qualità dovevano venire in Italia e imparare qui. Erano loro a dover parlare la nostra lingua».

Mi racconti in due parole cos'è Carube Progetto Giovani?

«È una squadra ciclistica per ragazzi dai 7 ai 12 anni. La mia idea era dare una possibilità a tutti di correre, alti, bassi, grassi, magri, bravi, non bravi, belli, brutti... non importa, volevo poter dare una possibilità a tutti di crescere e formare il carattere. Purtroppo non so se potrà andare avanti, senza aiuti e senza sponsor non si va da nessuna parte e il 2020 forse ha dato la botta finale».

«…Dai, ora si va a cenare da Valentino, che oggi fanno pesce. Vedrai che roba».

«Grazie Carube!».



“Carube” è considerato uno dei meccanici migliori del ciclismo professionistico. Ha partecipato a tutte le più grandi corse e a diversi mondiali assistendo corridori del calibro di Fondriest, Visentini, Martinelli, Maertens, Argentin, Gotti, Ballerini e Cipollini. Uomo di grande esperienza, all’Enoica ha il ruolo di capo meccanico e dell’assistenza in generale.

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