Ik ben God niet


Non l'ho fatto per fare spettacolo.
Era il mio modo per mettermi addosso pressione e rendere la corsa eccitante.
Ho detto che sarei scattato davanti al numero civico 256.
Essere in grado di farlo in modo efficace, era qualcosa di speciale.

Testo e illustrazione 
Stefano Dragonetti  - alvento #5, giugno 2019

«L'elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter ego. Batman è di fatto Bruce Wayne, l'Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l'Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che rende Superman unico nel suo genere. Superman non diventa Superman. Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino è Superman. Il suo alter ego è Clark Kent». 

Con queste parole David Carradine si rivolge a Uma Thurman, prima di affrontarla nella resa dei conti con cui si conclude Kill Bill Vol. 2 di Quentin Tarantino. VDB era un supereroe. Che quando era in giornata, in bicicletta volava, proprio come Superman. Pedalava come sospeso sull'asfalto, come su una nuvola. Lui lo sapeva, da sempre. Da quando per tutti era ancora solo Frank Vandenbroucke, il suo alter ego. Da quando, ancora ragazzino, durante gli allenamenti sulle strade di casa si metteva a ruota dei più grandi, dei più forti. Che provavano in tutti i modi a staccarlo, ma senza riuscirci. E anche gli altri l'avevano capito piuttosto in fretta, che quel biondino magro aveva un talento fuori dal comune. Uno così non poteva che bruciare le tappe. A diciassette anni, solo tre dopo aver iniziato a correre in bicicletta, si era laureato campione nazionale belga tra gli Allievi e l'anno successivo si era riconfermato anche tra gli Juniores. Dopo qualche mese, al Campionato Mondiale di Atene, era arrivato terzo dietro gli italiani Palumbo e Santoro. Frank mordeva il freno, era impaziente di cimentarsi con i grandi. Dopo aver conseguito otto vittorie tra i dilettanti, saltando la trafila tradizionale che l'avrebbe voluto ancora per qualche anno a farsi le ossa in quella categoria, a soli diciotto anni passò tra i professionisti come stagista alla Lotto, praticamente la squadra di famiglia, dove lo zio Jean-Luc faceva il direttore sportivo e il padre Jean-Jacques il meccanico. Aveva iniziato con l'atletica, con le corse campestri, con ottimi risultati. Ma a casa si mangiava pane e ciclismo. Suo padre aveva corso da ragazzo sino a disputare uno scorcio di stagione con i professionisti, mentre lo zio Jean-Luc era stato un vero fenomeno nelle categorie giovanili, con più di duecento vittorie, poi professionista per quattordici anni, raccogliendo un'altra settantina di successi, e infine direttore sportivo. 


Per il piccolo Frank, salire in ammiraglia con il papà o lo zio era normale amministrazione. Jean-Jacques faceva il meccanico anche per la Federazione Ciclistica Belga, e un giorno Frank si ritrovò a ruota nientemeno che del gruppetto dei professionisti belgi, che si allenava sul percorso di gara, qualche giorno prima del Campionato Mondiale di Chambery, in Francia. Sulla salita della Côte de Montagnole Claude Criquielion e Dirk De Wolf presero a sfidarsi e il ritmo si alzò, al punto che in cima nessuno aveva più fiato per chiacchierare. E Frank? Era ancora lì, a ruota, anche se aveva solo quattordici anni, ed era solo il primo anno che correva in bicicletta. Approdato tra i professionisti, dopo solo qualche mese di apprendistato, riuscì a cogliere una vittoria nella tappa conclusiva del Tour Méditerranéen del 1994. 

***

Il Tour Méditerranéen era nato nel 1974 dalla fantasia di Lucien Aimar, francese di Hyères, in Costa Azzurra, capace nella sua carriera di vincere il Tour de France del 1966 così come di gettare alle ortiche il Tour de l'Avenir del 1964, dopo averlo già vinto, per una scazzottata con un altro corridore. Dopo aver smesso di correre si era inventato questa corsa a tappe di una settimana, che si disputava verso la metà di febbraio. Offriva ai corridori l'occasione per scaldare i motori in vista dei primi appuntamenti importanti della stagione, con brevi tappe che si snodavano lungo la costa del Mediterraneo, tra Provenza e Costa Azzurra. Nella sua ricetta Aimar inseriva sempre almeno una cronometro e soprattutto la scalata al Mont Faron, la montagna che sovrasta Tolone, ingrediente assolutamente indispensabile, come lo scorfano rosso o il pesce San Pietro nella bouillabaisse marsigliese. Aimar è diventato Monsieur Faron, quella montagna è la sua vita. Sugli stretti tornanti dall'asfalto rugoso è riuscito a vincere da junior, da dilettante e poi anche da professionista. Nell'edizione del 1994 la corsa compiva vent'anni, come Frank, che era alla sua prima vera stagione tra i professionisti. Il Mont Faron lo si era scalato nella penultima frazione, una cronometro di trentadue chilometri vinta da Davide Cassani, che in quell'avvio di stagione volava, e indossava anche la maglia gialla di leader della classifica generale. In cima al Mont Faron, nella tappa regina, l'imberbe Frank si era messo in mostra piazzandosi quarto, a ventitré secondi dal vincitore, nonostante una foratura capitatagli a cinquecento metri dall'arrivo. Dopo, aveva tranquillizzato i delusi con quella che sembrava una spacconata: «Nessun problema, domani vincerò a Marsiglia». 

Il giorno successivo l'ultima tappa ripartiva da Tolone e lo striscione d'arrivo era posto, dopo solo settantasette chilometri, in cima alla collina di Notre Dame de La Garde, il punto più alto di Marsiglia. Per raggiungerla, c'è da affrontare un chilometro buono di ripida strada in salita. Pendenza media del 10%, massima del 15%. Quasi un rettilineo, da fare allo scoperto, di forza, senza curve per rifiatare o nascondersi. In cima si erge la Basilica, con il grande campanile su cui svetta la statua dorata della Vergine con il Bambino, la Bonne Mère, che sovrasta la città, e si vede dal mare per chilometri. Il 13 febbraio del 1994, quando il gruppo attaccò lo strappo finale, esplose come un fuoco d'artificio colorato in mille scatti. Si avvantaggiò il polacco Zbigniew Spruch, che distanziò gli avversari per lanciarsi in una arrampicata solitaria. Sembrava fatta. Ma dietro arrivò Frank, salendo da seduto, ondeggiando un po' con le spalle, la catena su un rapporto durissimo, e in testa un berretto invernale rosso, che più belga non si può. Quando raggiunse Spruch si alzò di nuovo sui pedali e con un ultimo slancio lo passò a poco più di cento metri dall'arrivo. Qualche metro prima della riga bianca si risedette e la tagliò alzando solo il braccio destro al cielo. Una felicità contenuta, quasi timida, ma forse furono solo la stanchezza e la pendenza a non concedergli gesti più eclatanti. Dopo solo qualche metro mise il piede a terra, esausto. Qualche secondo dopo, leggermente distanziati, arrivarono anche Spruch e Cassani. Non sappiamo se dopo l'arrivo Frank sia riuscito ad affacciarsi dalla collina, ad abbracciare con lo sguardo la città di Marsiglia, a lasciarsi inebriare dalla sua luce. Non sappiamo se sia riuscito a perdersi, anche solo per un attimo, nella distesa blu del mare. «Di fronte al mare la felicità è un'idea semplice», scrisse una volta Jean-Claude Izzo, che mentre Frank vinceva quella corsa stava lavorando al suo primo romanzo Total Khéops, ambientato proprio a Marsiglia, che sarebbe uscito l'anno successivo. Forse a Izzo, innamorato del Mediterraneo, sarebbe piaciuta quell'idea romantica a cui Aimar aveva dato la forma singolare di una corsa in bicicletta. E forse gli sarebbe piaciuta anche quella prima vittoria, limpida, ingenua e sincera fino all'irriverenza, di un ragazzo che era scattato con naturalezza davanti a tutti e aveva semplicemente tirato dritto senza voltarsi sino all'arrivo. 

Quella prima vittoria aveva il sapore di un pastis ghiacciato da sorseggiare guardando il mare, come amavano fare i personaggi dei romanzi di Izzo. Quella prima vittoria di Frank aveva tutta l'aria di essere l'aperitivo di una grande carriera da corridore. Quando aveva quattro anni e scorrazzava sulla sua biciclettina sulla piazza di Ploegsteert, dove i suoi genitori gestivano una Hostellerie, un'auto uscì di strada durante la ricognizione di una gara di rally, lo falciò e gli distrusse un ginocchio. Per ricostruire l'articolazione dovette rimanere tre mesi all'ospedale e subire quattro operazioni chirurgiche. Una gamba gli restò sensibilmente più corta dell'altra e quel ginocchio continuò a farsi sentire e a causargli dolori, fastidi e infiammazioni ricorrenti per un pezzo. Nonostante tutto questo VDB in bicicletta aveva una grazia e un'eleganza naturali e insuperabili. Sembrava un angelo biondo caduto dal cielo e atterrato sul sellino. Aveva un fisico longilineo ed esile, con gambe da fenicottero, dai muscoli di seta, lunghi e affusolati. Uno chassis da passista-scalatore, con un peso forma intorno ai sessantacinque chili, distribuiti su un metro e ottanta di altezza. Non aveva certo la struttura rocciosa di un Museeuw, che emanava forza al solo guardarlo, ma lo stile impeccabile e sublime del purosangue da corsa. Con la sua pedalata facile, armoniosa e fluida, era in grado di sprigionare, senza sforzo apparente, una grande potenza e velocità. Le sue progressioni erano affascinanti, intessute di quella stessa bellezza cinetica, soprannaturale, che sembra sfidare le leggi della fisica, che David Foster Wallace ha usato una volta per descrivere il tennis di Roger Federer. VDB negli anni aveva poi attentamente costruito la sua immagine e sviluppato anche qualche vezzo un po' dandy, da star, come i capelli colorati oppure ossigenati, o come l'ossessione per i copriscarpe. Quella specie di ghette che si usano per proteggere i piedi dal freddo, dalla pioggia, dagli schizzi e dallo sporco che sale dall'asfalto oppure nelle cronometro con una funzione non tanto protettiva quanto in bilico tra aerodinamica ed estetica. Ecco, VDB i copriscarpe li indossava sempre. Estate o inverno, salita o discesa, corsa a cronometro o in linea, gara o allenamento. Non faceva differenza. Poteva a volte non indossare niente in testa, né casco né cappellino, ma state certi che i copriscarpe li aveva. Facevano parte del suo costume da supereroe, erano un accessorio imprescindibile, un tratto distintivo, come la maschera per Batman. Di volta in volta bianchi, rossi, blu, a fare immancabilmente pendant con i colori della divisa. Cercate una sua foto in bicicletta senza i copriscarpe, difficilmente  la troverete. 

Nel 1995 arrivò il primo successo di un certo peso, la Parigi-Bruxelles, conquistata in una volata a due condotta con la freddezza di un veterano ai danni di Sørensen. Nel frattempo, però, Frank, ormai sempre più VDB, aveva già cambiato, un po' rocambolescamente, casacca. Perché era un tipo ambizioso, irrequieto, insofferente. Un po' enfant prodige, ma anche, e parecchio, enfant terrible. Per sé voleva il meglio, e possibilmente anche in fretta. E la parte del ragazzino che prende ordini dallo zio gli andava stretta. Era uno da tutto e subito. Voleva la sua indipendenza, voleva correre al fianco del suo idolo, Johan Museeuw. Il padre lo assecondò, di nascosto dallo zio, e ordì in segreto le trattative per il suo trasferimento. E VDB, nel bel mezzo della stagione 1995, lasciò la livrea rossonera della Lotto per indossare il costume con i cubetti colorati della Mapei-GB, diretta da Patrick Lefevere, la corazzata italo-belga del ciclismo dell'epoca dove, oltre a Museeuw, militavano tra gli altri anche Ballerini, Peeters, Rominger e Tafi. Era il 1° aprile, ma non era uno scherzo, e la questione della rottura del contratto con la Lotto finì in tribunale. VDB e lo zio Jean-Luc non si parlarono per due anni. Per tutti i tre anni successivi, VDB rimase alla Mapei, vincendo una trentina di corse, tra cui Scheldeprijs, Grand Prix de Ouest-France, Trofeo Laigueglia, Trofeo Matteotti, Österreich-Rundfahrt e il Tour Méditerranéen. Nel 1997 sfiorò anche la vittoria in due tappe del Tour de France. 

Nell'inverno tra il 1997 e il 1998, una volta accertato che l'articolazione del ginocchio era intatta, fece un lavoro di potenziamento muscolare mirato per riuscire ad essere più efficace in bicicletta. E nella sola stagione 1998 riuscì a vincere la Parigi-Nizza, la Gand-Wevelgem, il Tour de Wallonie e la Vuelta a Galicia e si piazzò secondo alla Flèche Wallonne, dietro Bo Hamburger, e alla Züri Metzgete, il Campionato di Zurigo, dietro Michele Bartoli. VDB non era ormai più una promessa, si era ritagliato il suo posto tra i grandi del momento. E a quel punto arrivò l'offerta del team francese Cofidis, tanto sostanziosa da indurlo a far saltare di nuovo il banco e rimangiarsi la stretta di mano con cui aveva suggellato la promessa di fedeltà fatta a suo tempo a Giorgio Squinzi, il patron della Mapei. Soldi a parte, VDB voleva essere sempre al centro dell'attenzione, e alla Mapei c'erano troppe stelle con cui dover condividere ad ogni corsa il ruolo di capitano. Alla Cofidis invece avrebbe avuto la squadra completamente al suo servizio. Con lui arrivarono alcuni corridori belgi fidati, con il preciso scopo di aiutarlo nelle classiche. Uno era proprio Nico Mattan, il suo migliore amico, il complice di Wevelgem, anche lui transfuga dalla Mapei, e poi Peter Farazijn e Steve De Wolf, entrambi ex Lotto-Mobistar. L'inizio della stagione 1999 per VDB fu formidabile e si presentò alle prime classiche con un bottino invidiabile. Tra febbraio e marzo aveva infatti vinto il Grand Prix d'Ouverture La Marseillaise, una tappa della Vuelta a Andalucia, l'Omloop Het Volk, una tappa della Parigi-Nizza e una tappa, a cronometro, della Tre giorni di La Panne. Il 6 aprile prese il via al Giro delle Fiandre, dove la Cofidis provò a scompigliare i piani della Mapei piazzando un attacco a sorpresa a centocinquanta chilometri dall'arrivo VDB attaccò insieme ai compagni De Wolf, Farazijn e Gaumont e a una trentina di altri corridori. Ma le cose non andarono per il verso giusto. A VDB scivolò la ruota anteriore e cadde sulle pietre del Molenberg, anche se senza conseguenze. Gaumont invece si schiantò in modo simile sul tratto in pavé Paddestraat, finendo fuori corsa. VDB, che era alla sua ruota riuscì ad evitarlo, ma alla fine la fuga venne ripresa. Dopo vari attacchi, si formò in testa un gruppetto di dodici corridori, tra cui VDB, Van Petegem, Museeuw, Sørensen, Tchmil, e altri, con il rivale Bartoli che rimase invece leggermente attardato in un gruppo successivo. All'attacco del Muur, su una curva a destra, in una zona di transizione tra asfalto e pavé, VDB infilò la ruota nel posto sbagliato e franò nuovamente a terra, frenando tutto il gruppetto dei fuggitivi, tranne Van Petegem e Museeuw, che erano davanti a lui. I due ne approfittarono: Van Petegem fece il Muur a tutta, tanto che Museeuw faticava a tenere il suo ritmo e, terminata la salita, i due continuarono insieme, inseguiti da un gruppetto di sette uomini che si era formato dopo il Muur e tra cui c'era ora anche Bartoli, rientrato grazie al rallentamento. A una ventina di chilometri dall'arrivo, con una veemente progressione che lasciò paralizzati i compagni di inseguimento, VDB si lanciò in una caccia solitaria al duo di testa, che stava per affrontare il Bosberg. Con un'azione che trasudava panache risalì il Bosberg con violenza, rimbalzando sulla sella a ogni pedalata, e qualche chilometro dopo la fine della salita piombò come un falco sui due battistrada, riguadagnando il posto che gli spettava, in testa alla corsa. Dopo qualche tentativo di allungo, sempre rintuzzato dai rivali, all'ultimo chilometro i tre rallentarono e Van Petegem ripartì deciso, guadagnando una ventina di metri. Museeuw rimase impassibile e toccò a VDB chiudere. Ai trecento metri i tre si ritrovarono affiancati e si guardarono un'ultima volta. Due fiamminghi e un vallone, anche se dal cognome fiammingo, si giocavano in volata il Giro delle Fiandre, mandando in visibilio il pubblico che si accalcava sulle transenne e che non avrebbe desiderato di meglio. Vinse Van Petegem, con VDB secondo e Museeuw terzo. Bartoli arrivò quarto dopo una decina di secondi, regolando il gruppo inseguitore. 

Dopo questa sconfitta, VDB ne incassò un'altra alla sua prima partecipazione alla Parigi- Roubaix, dove arrivò settimo, senza riuscire a scalfire il dominio della Mapei, che ancora una volta piazzò tre suoi corridori sul podio, come era già successo nel 1996 e nel 1998. Bartoli invece vinse, la Flèche Wallonne. Il 18 aprile VDB e Bartoli si ritrovarono alla Liegi-Bastogne-Liegi, la Doyenne, la più antica delle classiche che, nei due anni precedenti, era stata vinta proprio da Bartoli, sempre davanti Jalabert. Bartoli era il principale favorito e puntava apertamente al terzo successo consecutivo. Il luogo mitico, la salita simbolo della Liegi è la Côte de la Redoute, a circa trentasei chilometri dall'arrivo, due chilometri con una pendenza che nel punto più duro sfiora il 20%. Sulla Redoute, l'anno precedente, alla sua prima partecipazione, VDB la Liegi l'aveva persa. Aveva provato a inseguire Bartoli nel suo primo attacco, sino ad affiancarlo, ma poi quando Bartoli era ripartito, nel punto più duro, aveva dovuto cedere, arrendersi. Dopo, il gruppetto dei migliori si era ricompattato ma Bartoli a quindici chilometri dall'arrivo era scattato di nuovo facendo il vuoto e andando a vincere in solitaria con un minuto e mezzo sugli avversari, tra cui VDB, sesto. Sulla Redoute, Bartoli aveva esibito la sua superiorità e gli aveva inflitto una lezione che bruciava ancora. Da allora, VDB aveva un conto in sospeso con Bartoli, che poi lo aveva battuto di nuovo, al Campionato di Zurigo, quando i due si erano ritrovati a sprintare sul cemento del velodromo di Oerlikon in una volata da fotofinish. VDB era convinto di averla spuntata e aveva alzato il braccio al cielo, dopo la linea, ma la giuria lo smentì e la vittoria, millimetrica, venne assegnata al toscano, lasciando VDB di nuovo scornato. La Redoute era il luogo ideale per celebrare finalmente la sua vendetta. La Liegi del 1999 sarebbe stata una questione privata tra lui e Bartoli. Nelle interviste precedenti la corsa, con la consueta spavalderia, aveva dichiarato: 

«Attaccherò Bartoli sulla Côte de la Redoute, 
e nessuno riuscirà a starmi dietro». 

La sfida era lanciata, lo scontro annunciato. La Mapei diresse sapientemente le operazioni in corsa, tenendo protetto fino alla salita Bartoli che pilotato dai suoi, uscì allo scoperto con un'azione analoga a quella dell'anno precedente. La sua prima frustata gettò lo scompiglio nel gruppo di testa e aprì subito un distacco di una ventina di metri. Alcuni riuscirono dapprima a recuperare un po' di terreno, guidati dal campione olandese Boogerd, che sembrava il più brillante. Bartoli se ne accorse e affondò di nuovo lo scatto, mentre ci si avvicinava al punto più duro della salita. Finché dietro di lui apparve, dal nulla, la sagoma di VDB, come Clint Eastwood che appare in lontananza dal fumo della dinamite che si dirada, nella scena che precede il duello finale di Per un pugno di dollari. Ma nemmeno Sergio Leone avrebbe saputo inscenare meglio il duello in cui si stavano per affrontare VDB e Bartoli. Nel punto più duro della salita i due si ritrovarono di nuovo affiancati, in piedi sui pedali come l'anno precedente, e si lanciarono in una volata folle, gomito a gomito, entrambi con le mani in presa bassa, verso la conquista dell'inutile sommità della Redoute, in mezzo a due file di spettatori sbalorditi. 

Stavano correndo come se la corsa finisse là in cima. Bartoli, indispettito dall'avversario che irrompeva all'improvviso a rubargli la scena, si voltò a guardarlo per un istante negli occhi e provò ad accelerare di nuovo. Questa volta però fu VDB a ripartire con una delle sue furiose progressioni, filando via sulla destra, e lasciando Bartoli a raccattare i cocci del suo orgoglio davanti a un tifoso che agitava uno striscione bianco con la scritta Frank = Gèant. Quando VDB prese il largo, Bartoli si sedette, cambiò rapporto, poi tornò in piedi sui pedali. Ma la pedalata si era appesantita. Era stato sconfitto, aveva accusato il colpo. VDB scollinò da solo, percorse qualche chilometro in solitaria lasciando poi rientrare gli avversari in cima alla Côte de Sprimont, a trenta chilometri dall'arrivo. Da lì proseguì con quello che la cronaca della corsa chiamava 154 corridori ancora gruppo Bartoli. Sulla Côte di San Nicolas, a sei chilometri dall'arrivo, quando allungò dapprima uno stanco Bettini e poi, con più decisione, Boogerd, VDB lo raggiunse facilmente. Nei giorni precedenti la corsa aveva compiuto una minuziosa ricognizione del finale di corsa, per decidere dove attaccare, e aveva dichiarato con una delle sue boutade persino il numero civico del portone davanti al quale sarebbe scattato. 

Aspettò la curva più dura, verso la fine della Côte, per liberarsi di Boogerd. Coprì i chilometri mancanti senza più voltarsi sino a trecento metri dall'arrivo, quando capì che era fatta e poteva iniziare ad esultare. In pochi chilometri aveva accumulato trenta secondi di vantaggio su Boogerd. Bartoli, chiuse in quarta posizione. VDB aveva eseguito il suo piano alla perfezione e aveva confezionato il suo capolavoro. A ventiquattro anni, in una domenica di aprile, aveva vinto la Liegi-Bastogne-Liegi, e lo aveva fatto nel suo stile flamboyant, sfrontato, esagerato. Era la sua trentanovesima vittoria da professionista, la prima in Coppa del Mondo, la più importante. 

David Carradine continua: «Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono. Sono quelli i suoi vestiti. Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l'abito da lavoro, quello è il suo costume. È il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana». 

Dopo quella fantastica vittoria a Liegi, sembrava che nessuno potesse più fermare VDB. Invece, sia la sua vicenda sportiva che quella umana, sia la corsa indiavolata di VDB che la vita del suo alter-ego Frank Vandenbroucke, finirono entrambe tristemente e troppo presto. Se VDB sembrava essere invincibile, al sicuro da ogni attacco, non lo era certo Frank, che finì sopraffatto dalle conseguenze del suo coinvolgimento nelle pratiche dopanti generalizzate del ciclismo di quegli anni. Oggi VDB continua ad avere moltissimi tifosi, quasi come se non avesse mai smesso di correre, anche se da quella domenica di Liegi sono passati vent'anni. Le scritte con la vernice bianca sull'asfalto sono cambiate solo leggermente. Dove ieri le strade erano tappezzate di VDB VDB VDB, oggi si legge VDB forever. Non c'è verso di dimenticarlo. 

Frank invece non c'è più da quasi dieci anni. Ma forse, in realtà, Frank non c'è più da molto prima. Nessuno se n'è mai accorto ma lui era rimasto a Marsiglia, il giorno della sua prima vittoria da Davide contro Golia, da piccolo tra i grandi. Era rimasto là, a godersi per sempre la felicità semplice di quella vittoria acerba. E a Frank quella vittoria piaceva davvero più di tutte le altre, più grandi, più importanti, arrivate dopo. Quel giorno in Belgio, dove aspettano come il Messia il nuovo Eddy Merckx dal momento in cui quello vecchio ha smesso di correre, i paragoni si sprecarono. Ammiccando, Frank aveva replicato: 

«Lasciatemi vincere un paio di Tour, 
tre o quattro classiche e conquistare la maglia iridata 
prima di fare paragoni». 

Nella fase decadente della sua carriera, il giorno di uno dei suoi tanti tentativi di ritorno alle corse, alla Liegi del 2003, in cui si sarebbe piazzato undicesimo, qualcuno sull'asfalto aveva scritto in fiammingo God is terug, Dio è tornato. 
E c'erano tifosi che sventolavano enormi bandiere con il suo volto stampato sopra. Ecco, quando Frank scrisse la sua autobiografia, che uscì nella primavera del 2008, la intitolò Ik ben God niet, io non sono Dio. Perché, in fondo, aveva ragione Mario Fossati quando scrisse che «anche un campione è un uomo, non un manifesto da appiccicare ogni giorno sul muro».

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