MY NAME IS LUKA
di SIMONE BASSO
Sport e cultura - Martedì 20 dicembre 2022
Fine novembre 2022, all’American Airlines Center di Dallas, Mavs contro Dubs.
La sceneggiatura è quella giusta: l’MVP romantico della lega, Steph Curry, opposto a Luka Dončić che fa e disfa la tela dei suoi.
Vincono al fotofinish i texani, malgrado il #30 degli Warriors, con lo sloveno che mette insieme 41 punti, 12 rimbalzi, 12 assist e un controllo del giochino quasi indisponente per uno che ha 23 anni.
Pare tutto normale, ma in effetti non lo è.
1.
Nella ex Jugoslavia circolavano le barzellette, sull’attitudine degli sloveni per lo sport.
In questo momento storico, una nazione di 2 milioni e 100mila abitanti (che sarebbe la decima regione italiana in quanto a popolazione...) vanta il cestista forse tecnicamente più qualitativo dell’NBA (lo è di sicuro tra gli under 25) e il corridore professionista più forte dai tempi di Miguel Indurain, o magari da Bernard Hinault in poi, ovvero Tadej Pogačar.
Non è mai stato un mistero: il DNA aiuta il sistema, la cultura sportiva, di un Paese che si aiuta – progettando – dalla base.
Che poi si possa generare una Tina Maze è solo una conseguenza, fortunata, di quell’investimento.
Luka Doncic, dal punto di vista europeo, è un’idea dei suoi genitori, borghesi e benestanti: il modello massimo di riferimento rimane Kobe Bryant, pargolo di Joe "Jellybean" e Pamela Cox.
Babbo Sasha è stato un (buon) giocatore, mamma Mirjam è stata modella, danzatrice e imprenditrice: lo stampo non scherza, nemmeno le similitudini col caso del "Black Mamba".
Che finì – diventato un’icona – a dispetti e cause legali coi genitori.
Qualche fatto, in casa Doncic, ci porta già in quel territorio: parenti serpenti?
3.
La carriera di Luka è sembrata bruciare – sempre – i tempi. Un bimbo prodigio, alla Bjorn Borg, avanti – per sviluppo tecnico, fisico e agonistico – rispetto ai coetanei.
Che il ragazzino di Lubiana, con la canotta della KK Union Olimpija, ne segnasse 54 a Roma, in un torneo under 13, o esordisse in ACB col Real Madrid a 16 anni, è solo nella sua natura.
Che nel 2018 lo porterà a essere l’MVP dell’Eurolega, delle Final Four e della Liga spagnola.
La vicenda di Doncic corre a 1000 km all’ora, battendo primati di precocità uno sull’altro: un concetto ironico, considerando lo stile compassato del nostro sul parquet.
4.
Il biondo, al quinto anno di Silverlandia, aggiunge qualcosa (a volte poco vedibile) all’arsenale.
I Mavs – pur giocando con una point-guard (un play) sovradimensionata – sono strutturalmente piccoli.
La finali occidentali della scorsa stagione non ingannino: all’ingranaggio, per salire ai massimi livelli NBA, mancano un po' di cose.
Allora Doncic, costretto o meno dalle evenienze, tutte le sere starreggia (sigh) palla in mano.
Luka sfrutta il corpaccione contro il marcatore, chiunque egli sia.
Uno contro uno, nei pick and roll, fronte a canestro (stepback o rainbow shot a una mano), in post basso e alto.
Quest’anno, Jason Kidd ogni tanto lo utilizza come off guard.
L’uso della sinistra, la mano cosiddetta sfavorita, è regale.
Ha tempi diversi rispetto alla concorrenza: impone il suo (tempo).
Che è caracollante e cinico: non solo porta la palla da casa, ma anche l’orologio.
5.
In sintesi, sessant’anni dopo l’originale, l’Europa ha il suo Oscar Robertson.
Spiegarlo così, in poche righe, Robertson, è un’impresa impossibile.
Oscar – pure lui, prima di tutti – cambiò le regole del gioco, fuori e sul campo.
Perché senza i successi della Crispus Attucks, nel torneo liceale dello Stato dell’Indiana, non si sarebbe arrivati – in fretta – alle scuole (e alle squadre) miste (afroamericani e bianchi).
"Big O" a Cincinnati, tra NCAA e NBA, presentò il futuro anteriore della pallacanestro: un gioco che sarebbe diventato, piano piano, dominato dagli esterni e dalla versatilità.
Di Roma 1960, lo squadrone americano con Jerry West, Jerry Lucas e Walt Bellamy, le teche RAI ci offrono ancora la visione (straniante), in bianco e nero, di quella pantera di 195 centimetri per più di 100 chili, all’epoca un’ala, che fungeva da point pensante.
Un marziano a Roma, sul serio.
L’abbiamo recuperato, ormai vecchio, negli anni di Milwaukee.
Nei Bucks, in differita, pareva Mitch Richmond – che era forte forte, più di Clyde Drexler e Reggie Miller – con gli occhi e il palleggio di John Stockton.
Un mostro, sempre sotto controllo, con una tazzina di caffè in mano.
Ci fecero ridere le comparazioni, un lustro fa, suggerite dalle statistiche (dalle triple doppie in serie) di Russell Westbrook.
Più o meno l’antimateria stilistica e tecnica di Oscarone.
Il pace dei primi anni Sessanta era favorevole a Big O, il conteggio degli assist (meno generosi nell’assegnazione) e i pivottacci là sotto decisamente no.
6.
I riferimenti europei principali ci conducono a due guardione (oppure alone) oversize, con un incipit sloveno.
Poiché Sani Bečirovič, da giovanissimo un’iradiddio, con le ginocchia sane, non era lontano – per chassis – a Dončić.
Il resto non è mancia, bensì Dejan Bodiroga e Hidayet Turkoglu.
L’andamento lento di Luka, il simposio di ballhandling minimalista (non un palleggio in più, non una finta di troppo), è Maestro Bodiroga al cento per cento.
Il turco, per un biennio, fu uno dell’élite assoluta alla voce clutch: comandava i minuti (secondi) decisivi miscelando – alla Luka – strapotenza e trucchi.
Peccato fosse così: pigro e grasso (...).
7.
Il parallelo più suggestivo è – of course – quello con Larry Bird: impegnativo, come se oggi un soprano dell’opera fosse paragonata a Maria Callas.
Ciò che lo separa da essere il Larry delle guardie sono le doti balistiche, il tiro.
Il biondo di French Lick aveva l’arsenale completo, naturale (?), il biondo di Lubiana no.
Ma, al pari del #33 dei Celtics, Dončić può tirare – sulla testa – da ogni parte del campo, senza limiti, a piacimento.
Perché lui ha talmente tante soluzioni offensive, quasi indifendibili, che è meglio lasciargli il tiro dai sei-sette metri: le difese devono scegliere il veleno meno letale.
Al pari del campionissimo di French Lick, se altri fanno apparire i difensori in slow motion, loro due li fanno sembrare stupidi.
Di Bird ha pure le mani fortissime (per il rimbalzo) e dolcissime (per il passaggio).
La visione di gioco l’avvicina al suo attuale allenatore, Jason Kidd, un altro che rendeva felici tiratori da mattonella e taglianti verso il ferro.
8.
Le affinità con Magic Johnson sono nelle forme, la point alta e grossa, più che nella sostanza.
Il play dello Showtime suonava lo spartito della Mahavishnu Orchestra: giocava sopra il ritmo (dei comuni mortali).
Il #77 di Dallas ci sta dentro, come vuole, lo sabota, lo rallenta.
Se Earvin era Billy Cobham, e Bird era "Kodak" (geniale soprannome affibbiatogli dal suo coach Bill Fitch), Luka è "Moviola".
Al ralenti o in diretta, la velocità non cambia.
Luka pare sempre vedere, un movimento più in là, gli altri nove sul parquet.
Osserva la partita come se avesse una telecamera dall’alto, la anticipa di qualche decimo di secondo.
Il clinic spalle al canestro, con l’uso scientifico del perno.
Il tiro alla tabella dal mid-range, l’ultima novità.
In alcuni pattern, fa tanto Adrian Dantley, principe del pitturato a un metro e 95 centimetri nell’èra dei centri dominanti.
Che era, sfruttando mille magate del mestiere per subire falli, un liberista sopraffino: Doncic, poco sopra il 70 per cento, deve per forza migliorare quel bordone (fondamentale).
Idem per la difesa, fantasmina, che dipende pure dal volume (gigantesco) di possessi – dall’altra parte del campo – del nostro.
9.
Lo usage è una delle componenti essenziali (ed esiziali) dell’NBA post-moderna.
Impressiona pensare che nella ABA, il primo avamposto di un gioco slegato dall’asse play-pivot, più estroso (istintivo), il capintesta su singola annata – Charlie Scott, guardia tiratrice di lignaggio assoluto – nel 1973 registrò 33,15 di percentuale.
Negli anni abbiamo scavallato, favoriti dalle regole e dagli stili implementati, e molti All-Star il Wilson (che fu pure Spalding) l’egemonizzano senza remore.
Cominciarono alcuni solisti con la mitraglia, l’"Ice" Gervin dell’82, il Bernard King dell’85 (in quanto a efficienza offensiva, il nostro non plus ultra con Kevin Durant...), poi arrivò Michael Jordan a stabilire nuovi standard.
Il 1986/87 di MJ, un atleta fantascientifico, rimane – a 38.29 – ancora la sesta performance di sempre: un dato clamoroso, considerando quell’evo, che ci racconta la qualità (infima) di quei Chicago Bulls.
Con la deadball, fine anni Novanta e soprattutto Zero, difese fisiche, painted area sorvegliata da enforcer, il fenomeno (sulla coda del jordanismo imperante) divenne una chiave per (tentare di) scardinare il fortino.
I regolamenti che hanno velocizzato il pace e favorito gli attaccanti, rendono ora l’abuso dello usage della superstar quasi un’ovvietà.
Dopo Jordan, Allen Iverson e Kobe Bryant, vedere Giannis Antetokounmpo o Joel Embiid monopolizzare il pallone – un’azione dietro l’altra – è la quotidianità.
I 41,65 di Russell Westbrook nel 2017 e i 40,47 di James Harden nel 2019 sono là, a testimoniare i limiti umani (sigh) del solipsismo cestistico.
Asterisco: per alcuni allenatori, eoni fa, Magic Johnson palleggiava troppo.
La media-carriera del #32 dei Lakers, nello usage, è 22,3.
La percentuale di Doncic, nella stagione in corso, è 37,9 (il suo massimo in carriera).
Come incarta la palla, e la serve, ha qualcosa di ipnotico.
Ma i Mavs sono legati al tiro da tre, poco talentuosi nel contorno, Tim Hardaway Jr e Christian Wood non bastano, e quel pace (95.9) riflette la dipendenza (tossica) dallo sloveno.
Kristaps Porzingis non funzionava con Luka, ma Nico Harrison dovrà trovare, pescare, un’alternativa tattica che coesista col biondo di Lubiana: un altro All-Star, un secondo violino.
Che migliori la combo e Dončić stesso, a volte irritante (e irritato) con gli arbitri e i compagni.
Il futuro prossimo di Dallas sta in un mosaico da completare e non è scontato che Luka e Mark Cuban alzino il banner.
Ogni generazione di All NBA esibisce una serie di Don Chisciotte, nelle praterie della Eastern o della Western.
Predicarono nel deserto, in un periodo della carriera, persino Kareem Abdul-Jabbar e Michael Jordan.
E’ stato il destino di Grant Hill a Detroit, prima di demolirsi una caviglia, Tracy McGrady (un freak) a Orlando e Houston, Charles Barkley negli ultimi anni con Philadelphia, Connie Hawkins in Arizona eccetera.
Non sempre la favola finisce bene.
Dončić deve solo (..) aspettare la mossa giusta della dirigenza ed evitare di hardenizzarsi all’eccesso: lo ha capito, quasi a fine corsa, il Barba stesso che è oggi molto più facilitatore che solista, dovrà comprenderlo appieno anche Luka.
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