Gianni Minà - Il cronista dei miti


Addio a Minà Ha raccontato i grandi della Terra e i campioni

28 Mar 2023 - La Gazzetta dello Sport
di Valerio Piccioni ROM
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«In un mondo sbagliato, in un mondiale sbagliato, un risultato giusto». Aveva scritto così dopo la vittoria dell’Argentina sulla Francia in Qatar. Sotto, una maglia della Selección autografata: “A Gianni Minà con tutta l’amicizia e la tenerezza. Diego”. Già, Maradona. Una delle presenze ricorrenti di quel pantheon unico al mondo, riempito da interviste a tu per tu entrate nell’immaginario di tutti noi. Gianni Minà se n’è andato ieri all’età di 84 anni, ma lascia un patrimonio di immagini, racconti, testimonianze che vive in tanti italiani. E, per ricordarlo, non si sa davvero da dove cominciare. Dalla straordinaria gag con Massimo Troisi che incorona la sua fantastica “agendina”? O da quella cena incredibile dove in un ristorante di Trastevere mette insieme allo stesso tavolo Muhammad Ali, Sergio Leone, Robert De Niro e Gabriel Garcia Marquez? O, ancora, da quando Fidel Castro, dopo quindici ore di intervista, dalle due del pomeriggio alle 5 del mattino, gli dice: «Non so se si tratti di un record del mondo per un colloquio con un giornalista straniero, ma di certo è un primato caraibico!». O al momento in cui ebbe l’idea di far incontrare a Las Vegas proprio Ali e Pietro Mennea? Fu l’attimo in cui il fresco primatista del mondo dei 200 metri, di fronte a un certo scetticismo del mito dei pesi massimi che si aspettava un atleta nero, tirò fuori una risposta che fece storia: «Io sono nero dentro». E che dire del famoso incontro con Gianni Brera a Trieste in cui Nereo Rocco raccontò il suo calcio? La sua biografia è davvero enciclopedica. La sua capacità di creare confidenza e fiducia abbattendo ogni diffidenza anche con personaggi molto diversi fra loro, è diventata proverbiale.

La paura 

Ma questa idea dell’amico di tutti, o comunque di molti e di molte grandi figure, non solo è riduttiva, è proprio falsa. Minà è stato un giornalista coraggioso che sapeva fare anche domande “sbagliate” e molto poco politically correct. Fino al rischioso, al temerario, al pericoloso. Successe una volta in Argentina in una conferenza stampa dell’ammiraglio Carlos Alberto Lacoste nel 1977, l’anno prima dei famosi Mondiali della dittatura, quel trionfo con il pallone nell’epoca feroce dei desaparecidos. Minà, inviato della Rai, chiese: «Ma è vero che qui scompare la gente?». In platea ci fu il gelo. Il gerarca disse solo: «Lei è male informato». Raccontandola, tanti anni dopo, Minà disse di essere stato superficiale. Fatto sta che poco dopo, Giangiacomo Foà, all’epoca corrispondente del Corriere della Sera, lo raggiunse in albergo e gli disse: «Gianni, devi andare via. Ora, subito». E così fu. Minà aveva un debole per l’America Latina. Intuiva la sofferenza di una storia e dei popoli che l’abitavano, per 15 anni diede vita a una rivista che era uno dei suoi motivi d’orgoglio: “Latinoamerica e tutti i sud del mondo”. Si riconosceva negli scrittori che scendevano nel profondo delle contraddizioni di quella terra.

Linguaggio e fame 

Lo sport e la tv sono state le chiavi con cui ha potuto soddisfare quella “fame di mondo” che era alla base della sua curiosità e del suo giornalismo. Forse i suoi dialoghi con grandi personaggi hanno rischiato di occultare la sua capacità di trovare un linguaggio nuovo, molto adatto al pubblico giovanile, con questo eclettismo senza confini capace di invadere e di mischiare con disinvoltura i mondi dello sport, del cinema, della musica o della politica. Aveva prodotto talmente tanto che alla fine si era preoccupato di provare a mettere ordine in questi mille incontri, digitalizzando l’immenso materiale audiovisivo raccolto e qualche volta non trasmesso per problemi tecnici o pure politici. È nato così il progetto Mina’s Rewind che gli sopravviverà e trasmetterà tante delle sue storie e dei suoi incontri.

Papà Cesarini 

Probabilmente il suo sport numero 1 è stato la boxe, e non solo per l’amicizia con Ali (c’era anche lui quando strappò il titolo a Sonny Liston). Ma in realtà prima c’era stato il calcio. Il calcio del Grande Torino, frequentato con suo padre negli anni del mito. Quello stesso padre A che fu dirigente calcistico e che ebbe un privilegio da raccontare: fu guardalinee del famoso ItaliaUngheria del 1931 da cui prese origine la Zona Cesarini. Il calcio gli piaceva, ma gli piacevano soprattutto i suoi personaggi contro, quelli che avevano qualcosa da dire. Negli ultimi anni soffriva questa omologazione dei racconti e delle parole intorno al pallone. In realtà anche fuori dal campo. La sua rottura con la Rai, per esempio, lo sottolineava, era nata per i suoi punti di vista «lontani dagli Stati Uniti».


Ultimo regalo 

La sua avventura del giornalismo era cominciata alle Olimpiadi di Roma, l’esordio lo aveva vissuto sulle colonne di Tuttosport, il giornale di cui sarebbe diventato direttore dal 1996 al 1998. Per la Gazzetta aveva invece curato quel documentario intervista, “Maradona non sarò mai un uomo comune”, che ha battuto tutti i record di vendita. Negli ultimi anni si vedeva poco per ragioni di salute, ma era sempre animato da mille progetti. Proprio qualche giorno fa aveva riempito di emozioni, pure senza esserci, lo stadio dei Marmi con un filmato inedito per i dieci anni dalla morte di Pietro Mennea. Magari ora si incontreranno lassù come quel giorno a Città del Messico, il giorno del primato del mondo dei 200 metri. E magari arriverà pure Ali, e pure Maradona. E stavolta sarà lui a parlare di quel rischiosissimo pomeriggio argentino e di molte altre cose.

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