BOLLITO MISTO 2023



di SIMONE BASSO
Sport e cultura, lunedì 28 agosto 2023

5328 metri, il livello dello zero termico, lunedì 21 agosto, alla stazione di Novara Cameri.
In Svizzera, Payerne, eravamo a 5298.
Le Alpi stanno bruciando.
L’eccezionalità è diventata, in meno di trent’anni, lo standard.
Allora taccuino estivo, rinfrescante, ma senza aria condizionata, di quella che Antonio Guterres ha ribattezzato l’età del “global boiling”.
Il bollito misto da servire – sul piatto – siamo noi.


1.
Il Parlamento, mai così banditesco nell’esecutivo, ha fatto passare (alla chetichella) un emendamento per abolire il tetto dei tre mandati per i presidenti federali (sportivi).
Un assist al bacio alle signorie che già comandano, circondati da bravi e Azzecca-garbugli fidati, nelle varie Federazioni.
Con due terzi dei voti, in un ballottaggio, i presidentissimi assumeranno, definitivamente, lo chassis di Don Rodrigo magnanimi.
Luciano Rossi (federale del tiro a volo dal 1993...), Angelo Binaghi (il boss del tennis e del padel), l’improbabile Paolo Barelli (nuoto) potrebbero diventare come il Papa.


2.
Sono bastate (...) 3 ore, 49 minuti e 20 secondi per decretare il vincitore della finalona di Cincinnati.
L’ultimo set è stato il migliore momento di questo (rivedibilissimo) 2023, ciliegina sulla torta del più più appassionante torneo della stagione.
L’unico con caratteristiche tradizionali, del cemento americano, ormai soppiantate altrove (vedi sotto).
Se Novak Djoković rinnova la sua eredità, fatta di cazzimma, sapienza (algebrica: abita il match, non lo gioca), cilindrata atletica, Carlos Alcaraz fa capire di essere il solo nato negli anni Zero costruito della lega di quei tre là (Roger, Rafa e "Nole").
Se Carlito regola il tachimetro, (per gli altri) è finita.
Ci sono voluti venti minuti del Nole 2011 (2015) per spostare l’inerzia: a New York, tre parziali su cinque, a parità di tabellone, lo stesso bordone (vincente per il serbo) ci sembrava fanta-tennis.
Anche se il belgradese sta facendo l’impossibile per rallentare (fermare) la sabbia nella clessidra rovesciata.
Poi è arrivato il sorteggio, che pare eseguito da Edoardo Artali in persona.
Il terzo uomo a Flushing Meadows?
Jannik Sinner.


3.
A Vulgar Display of Cyborg Tennis.
Nel 2009, dopo la semifinale Ironman delle Hawaii (sigh) tra Djoković e un altro spagnolo (Rafa Nadal), eravamo a Madrid, usammo quella definizione.
L’incontro durò 4 ore e 3 minuti, ed era già evidente cosa stava diventando il gioco: un affare tra cyborg.
Oggi la norma sono gli scambi da trenta colpi, anche su superfici (che ci vendono come) veloci, e la ricaduta di questa tendenza (omologante e contro la specializzazione) sta rendendo monotono (monodico) il circuito.
Non puoi sostenere il robotennis attuale, dieci (undici) mesi in fila.
Il big seleziona, centellina, il (suo) calendario: meno gioca, più si allena, meglio sta.
Il tennis è ormai performance pura: citando Gianni Clerici, atletica leggera con una racchetta in mano, sempre più violenta (estrema) per braccia, polsi, caviglie, muscoli, ginocchia (e testa).
I 250, se sei della crema, esistono solamente con un ingaggio faraonico (che svena il torneo stesso).
I 500 rischiano la stessa sorte.

4.
Non abbiamo ascoltato da Andrea Gaudenzi, il Chairman dell’ATP, alcuna affermazione sulla tecnica, le superfici, i materiali, i tabelloni.
Solo (una disperata ricerca di) denaro e marketing.
Che pure Karen Khachanov e Jason Kubler, agli Aussie Open, confezionino un rally da settanta colpi, sparato negli highlights della giornata, è il brand procteriano rincorso dai padroni del vapore.
Raccontano balle: quando decisero di omologare tutto, la scusa (ufficiale) furono gli infortuni.
Col nuovo hard court, da gennaio a novembre, manto colloso, palline sgonfie, la lista degenti, di star e stelline rotte o scoppiate, si è moltiplicata.

5.
A Cincy continuano a coltivare il power tennis che fu.
Non conosciamo il Court Pace Index di quest’anno, ma alcune partite offrivano una varietà, un gioco verticalizzabile, raro altrove.
Max Purcell, doppista Aussie con la pazza idea di sfondare da singolarista, mostra serve and volley, slice di diritto, da panda anni Novanta.
La contesa con Alcaraz, coi due a mettersi addosso pressione su ogni palla, è stato ossigeno puro.
56 vincenti in 2 ore e 11 minuti.
In teoria, vedendo anche uno Stefanos Tsitsipas-Ben Shelton, un tennis meno ripetitivo, ossessivo, senza set interi di mazzate da dietro, sarebbe possibile.
In pratica, a chi di dovere (Gaudenzi e l’ITF: repetita iuvant), questo discorso non interessa.
Probabile che, nel 2026, Cincinnati chiuda: il Western & Southern se ne andrà in North Carolina?

6.
Flashback di giugno, Roland Garros, Djoković regola (di giustezza) il "solito" Casper Ruud.
La sagra del fondocampismo (aggressivo, di manovra) viene interrotta, per qualche secondo, da tre smash (comodi) sbagliati goffamente.
Due di questi da uno – un fuoriclasse: il più vincente dell’èra-open – che ha vinto tanti Wimbledon quanti Pete Sampras.
“Uno sport trasformato” certifica un (notevole) dossier di The Athletic.
Oggi, “una combinazione di fisico, condizioni e faffing” esaspera (modifica, per sempre) il gioco.
Analizzando gli Slam, dal 1999 al 2023 (Parigi ’23 incluso), si è passati da 2 ore e 21 minuti di media a 2 ore e 54 minuti.
Il 23,4% in più, come se un match di calcio durasse 111 minuti, a dispetto delle introduzioni dello shot-clock e del tie-break nel set conclusivo.
La finale tra Goran Ivanišević e Patrick Rafter nel 2001, l’ultima col Centre Court classico (...), 9-7 al quinto, finì in 3 ore e 2 minuti.
Fino al 2001, sette finalissime su 124 sorpassano il muro delle tre ore.
Dal 2002, sono già dieci.
Ai Campionati di Francia 2023, un Djoković contro Alejandro Davidovich Fokina di routine (7-6 7-6 6-2) è arrivato a 3 ore e 36 minuti.
Paiono preistoria il Sampras-Ivanišević del Wimby 1994, laddove lo scambio più lungo fu di sei (!) colpi, o un allenamento agonistico di Roger Federer opposto ad Alejandro Falla – nel 2004 – di 54 minuti, sempre all’All England Club.
È una questione estetica, soprattutto culturale, ma non dimentichiamo il resto: non siamo scesi dal Pero l’altro ieri.

7.
“L’Adderall nel tennis: oggi un giocatore ATP mi ha detto che "la metà dei top 100 lo consuma... Forse di più."
E non perché hanno un problema a concentrarsi mentre fanno i compiti a casa.
Nello spogliatoio c’è un sacco di cinismo sul sistema dei TUE (le esenzioni a scopo terapeutico).”
(Ben Rothenberg)


8.
Il successo di Coco Gauff a Cincinnati è stato rilanciato, affannosamente, dai media (generalisti) americani.
Non sappiamo se la ragazza di Atlanta, seguita da Team8 (la società voluta da Federer e gestita dal suo agente Tony Godsick), possa colmare il vuoto (cosmico) d’interesse pop lasciato da Serena Williams (e Maria Sharapova).
La certezza, acquisita in queste stagioni, è che senza la formula combined (che li accorpa all’ATP) la WTA avrebbe problemi seri a organizzare tornei.
Al pubblico frega pochissimo di questo tennis femminile.
Il discorso l’abbiamo affrontato mille volte, e non lo replichiamo, a dispetto dei dettagli: preferiamo vedere giocare Karolina Muchova a Sasha Zverev.
Ma la WTA – dopo decenni di marketing sui personaggi (e zero idee sull’evoluzione del gesto tennistico) – sta colando a picco.
Non ha ancora annunciato la sede delle Finals 2023, che si disputeranno tra due mesi.
Aspettano la mancia dell’Arabia Saudita.

9.
È morto Carlo Mazzone, 86 anni, l’allenatore con più panchine (797) nella storia della Serie A.
Quella Serie A che, dall’autarchia degli anni Settanta, divenne il campionato più importante al mondo per almeno quattro lustri.
Mazzone, bastone e carota, fu una figura imprescindibile, una maschera popolare del calcio al di fuori delle tre grandi (egemoni).
Nei coccodrilli, italiani al cento per cento, silenzio tombale sulla gestione (medica) di quella Fiorentina.
Un caso insabbiato, per convenienza e menefreghismo, uno specchio della (nostra) cultura.
Nel 2009, raccontando di farmaci e sport, sospendevamo un’inchiesta così.
“Avete contato quanti calciatori cinquantenni sono morti recentemente? E la loro solitudine l’avete almeno immaginata? Il problema sta nel nostro sguardo impietoso, forgiato da un fanatismo di tipo fondamentalista: se permettete, giochiamo alle Sliding Doors. Il vostro Borgorosso è lì per entrare in zona-Champions League e il risultato è di quelli storici: denari e gloria eterna. Ma il fuoriclasse del Football Club, il carioca Daddarius, è zoppo e sottotono. Urge una cura per rimetterlo in piedi e in perfetta efficienza. Ipotesi numero uno: lo siringhiamo come un cavallo, con un prodotto all’avanguardia, e domina la partita decisiva con il suo talento naturale.
Daddarius da Pallone d’Oro. Controindicazione: dieci anni dopo quell’incontro, si ammalerà e morirà. Ipotesi numero due: evitiamo l’acquasanta e lo schieriamo a basso regime. La squadra perde malamente e sfuma il sogno.
Daddarius mercenario senza cuore. Controindicazione favorevole: vivrà abbastanza per godersi i nipotini. Siate sinceri, ragionate da tifosi, quindi esseri divertiti e irrazionali: a quanti di voi interessano le sorti future di questi gladiatori depilati?”

10.
Dalla corsia 9 all’oro mondiale in 10″65, la parabola di Sha’Carri Richardson non si adegua alla normalità: never a dull moment.
23 anni, una vicenda afroamericana che ricalca le cronache di tutti i giorni o un film di A. V. Rockwell.
Cresciuta dalla nonna in Texas, l’omosessualità rivelata (esibita e contrastata), Tokyo 2021 saltata a causa del consumo di cannabis.
1 e 55, una frequenza di corsa che la avvicina alla (leggendaria) Shelly-Ann Fraser-Pryce, bronzo nella gara di domenica, da tempo mostra potenzialità aliene (a 19 anni fece 10″75 ai Campionati NCAA...).
Gli ultimi 50 metri della finale, in prospettiva, annunciano sviluppi futuri (cronometrici) clamorosi.
Sempre che Richardson, coadiuvata da due vecchi fusti dell’atletica americana (Renaldo Nehemiah e Dennis Mitchell), non sbandi ancora.
Non pensiamo ci siano mezze misure, per lei: la migliore velocista della sua generazione o un disastro.


11.
I 10.000 metri la IAAF vorrebbe abolirli.
La gara maschile di Budapest 2023 è stata un manifesto moderno di una specialità che accorpa mezzofondo veloce (sigh) alla mezza maratona.
Faceva caldissimo, un elemento che favorisce la selezione (darwiniana).
5000 controllati, coi kenyoti dietro la lepre, poi la progressione.
Joshua Cheptegei ha confermato di essere un freak, con una volata lunga un giro: ultimo chilometro a 2’25″4 (!).
Un 400 incastonato in una prova di fondo, l’ugandese (al terzo titolo iridato), Daniel Simiu Ebenyo, Selemon Barega, Berihu Aregawi, Bernard Kibet.
Due (o tre) livelli di differenza, loro (gli africani) e il resto (i resti) del mondo.


12.
Un poster contro il garagismo, Glasgow 2023 è stata una gara a eliminazione, una scratch di 270 chilometri.
Un circuito tecnico, tutto curve e rilanci, il pavé cittadino, qualche acquazzone, nessuna rampa da trenta.
Ne è venuto fuori un massacro, sono rimasti i fenomeni con lo chassis giusto, non Remco Evenepoel – che ha un motorone esagerato – mediocre nella guida del mezzo.
Il nipotino di PouPou, il surfista, mollava la compagnia (qualificatissima) mentre stavano riprendendo un eccellente Alberto Bettiol.
A 22,3 km dalla fettuccia d’arrivo, il figlio di Adrie si sfilava di ruota Wout Van Aert.
Mathieu van der Poel, che lavora in lattacido come nessuno nella storia di questo sport, sembrava disegnato dal sarto per quel toboga da superuomini.
Pure la caduta segnalava, al pari di quella di John Degenkolb alla Parigi-Roubaix, il suo destino felice, vittorioso.
Dieci anni fa, a Firenze, primo lui, secondo Mads Pedersen (quanto è forte il danese...), si materializzò come un fenomeno, un Roger De Vlaeminck del nuovo secolo.
Nel 2023 compie un’impresa inedita: iride del ciclocross e della strada, secondo sempre l’altro mostro (Van Aert).
E non abbiamo più parole per (descrivere) la classe di Tadej Pogačar.


13.
Lotte Kopecky, una settimana dopo van der Poel, comanda il Mondiale dal primo metro.
Per versatilità, forza, classe, la belga è una piccola Marianne Vos (l’edizione 2011-2014 dell’olandese è fuori categoria).
Lotte, tra strada e pista (tre medaglie, due ori, alla Commonwealth Arena), sta raccogliendo la semina.
Generosa, fin troppo, spettacolare nelle azioni d’attacco, ha il compito oneroso di essere un’apripista, forse un’icona (nazionale).
Nel Paese del ciclismo, con una tradizione secolare, Kopecky è la prima grande campionessa fiamminga.
Potrebbe tirare la volata a una generazione, che crescerà col suo esempio.
Per adesso, con lei e Demi Vollering, l’SD Worx ha dominato la stagione, una spanna sopra la concorrenza.

14.
Glasgow 2023 è stato anche l’epilogo di Annemiek van Vleuten, nella parata delle oranje cannibali degli anni Dieci, l’odissea più originale di quel gruppetto.
È arrivata tardi, ha vinto tutto, in una combinazione letale (per le altre) di elementi: un motore, una cilindrata (il rapporto peso/potenza esaltato da diete draconiane) e una cabeza con pochi eguali.
Un po’ Maria Canins, in alcune tappe della carriera, irresistibile sulle salite e le distanze lunghe come la ladina, si è imposta (anche lei) malgrado difetti tecnici evidenti.
All’ultimo Giro (vinto), la osservavamo in una discesa (impegnativa): un pericolo pubblico, per sé e per le colleghe, mai una frenata a tempo, un istinto curioso di tagliare (male, entrando e uscendo) le curve e i tornanti, rigida sulla bici.
I suoi incidenti, il più spaventoso a Rio 2016, li ricorderemo quanto le sue vittorie.
In Scozia ha interpretato se stessa, su un percorso che era kryptonite per le sue doti, fino all’ultimo metro.
Van Vleuten in nazionale correva da isolata, contro le compagne (Anne van der Breggen la antagonista numero uno), e a Glasgow la sceneggiatura si è ripetuta .
L’obiettivo stavolta era Vollering, la (nuova) capitana, allenata pure da van der Breggen.
Missione compiuta?

15.
A Glasgow, su un tracciato (kermesse) incasinato, 46 curve a giro, la gara juniores del sabato rivelava – anche ai miopi – Albert Philipsen.
16 anni e mezzo, un cavallo (un Varenne) di razza.
Una “cosa” che non vedevamo dai tempi di Firenze 2013 e un certo Mathieu van der Poel.
C’è del talento in Danimarca.
Li pialla tutti, il Philipsen di Holte (Zelanda del Nord), tra uno strappo, un curvone, uno zig zag.
Ci pare fatto dello stesso materiale dei due Van.
La settimana successiva è diventato pure mondiale nella mountain bike.
Sarebbe anche campione nazionale su strada, a cronometro, di MTB e ciclocross.
L’Holte MTB Klub, dove è cresciuto, presieduto da Cecile Christoffersen, vanta trecento atleti agonisti. Più di cento nelle categorie giovanili.


16.
Il Mondiale UCI come Olimpiadi della bicicletta è il presente e futuro della prova iridata.
Una festa di pedivelle.
Se poi David Lappartient capirà che la domenica del Mondiale su strada uomini non dovrebbero esserci altre competizioni, sarà ancora meglio.
Quando corrono le popstar, il resto dell’offerta dovrebbe fermarsi.


17.
Il sesto oro iridato di Filippo Ganna nell’inseguimento, con una rimonta supersonica su Dan Bigham negli ultimi due giri, consegna alla storia della disciplina il piemontese; che, a 27 anni, potrebbe chiudere il cerchio – in pista – coi Cinque Cerchi a Parigi 2024, per dedicarsi alle classiche su strada.
A marzo, salendo e scendendo il Poggio alla Milano-Sanremo, era là a battagliare con i due Van e Pogačar.
La prossima missione di Ganna è quella: vincere contro i mostri.

18.
Non smetteremo mai di sottolinearlo.
UCI e CIO hanno tagliato dal programma olimpico la gara regina dei velodromi, l’inseguimento individuale.
Dal 2012, troppa enfasi sul velocismo: la team sprint non aggiunge nulla alla velocità e al keirin.
Un doppione che scimmiotta – male – il Chilometro da fermo.

19.
La rimonta nel Mondiale MTB di Tom Pidcock, un grande corridore che deve ancora capire cosa fare da stradista, non nasconde la grandezza di Nino Schurter. Terzo, a 37 anni, su un anello scorrevole.
Per metà gara si era messo in tasca gli avversari: non un dosso sbagliato, l’interpretazione corretta di tutti i passaggi, una lettura (tecnica e tattica) da scienziato delle ruote grasse.
Mai dare per scontato uno come lui o, tra le dame, Pauline Ferrand-Prévot.

20.
“In una società di familisti amorali, i deboli sono favorevoli a un sistema in cui l’ordine sia mantenuto con la maniera forte.
...
Il familista amorale apprezza i vantaggi che possano derivare alla comunità, solo se egli stesso e i suoi ne abbiano parte diretta.
Anzi egli si opporrà a misure che possono aiutare la comunità ma non lui, perché, anche se la sua posizione, in senso assoluto, resta immutata, egli ritiene di venirsi a trovare in una situazione peggiore se i suoi vicini migliorano la propria posizione.”

(Edward C. Banfield, 1958)

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