Dražen Petrović e il sogno spezzato di Sebenico (intervista a Sergio Tavćar)


Indiscreto - 10 dicembre 2015

Il mito di Dražen si è costruito da solo, quindi per raccontarlo non c’è bisogno di urlatori ma di persone competenti. Come Sergio Tavćar, il giornalista italo-sloveno che per più di quattro decenni attraverso TV Koper Capodistria ha raccontato la pallacanestro e tanti altri sport ai telespettatori jugoslavi e italiani. Diventando per molti di loro più interessante della maggior parte delle partite per il suo stile diretto, il coraggio nell’esprimere opinioni in un mondo di permalosi e la conoscenza approfondita di più discipline. Tavćar è anche l’autore di La Jugoslavia, il basket e un telecronista. Storia della pallacanestro jugoslava raccontata dalla voce di Telecapodistria, libro fondamentale per comprendere l’evoluzione della pallacanestro jugoslava e conoscere meglio i personaggi delle sue due generazioni d’oro, senza dimenticare cosa significasse vivere in Jugoslavia negli anni Settanta e Ottanta.

- Signor Tavčar, nel suo libro lei ha parlato molto del passaggio di Dražen Petrović da ‘Kamenko’ a giocatore totale. In quale misura il talento e l’allenamento hanno contato nella sua grandezza?

Bisogna definire cosa sia un talento. Se per talento si intende un ragazzo che salta, schiaccia, fa i cento metri in dieci secondi e mezzo, allora Petrović non era un talento. Ma secondo me il talento è una virtù mentale: talento è passione, voglia di migliorarti, devozione per la propria disciplina, è un qualcosa che ti rode dentro e che ti spinge a dare il massimo per essere contento di te. In questo senso Dražen Petrović è stato il più grande talento della storia della pallacanestro e l’unico paragonabile a lui è Larry Bird. Non dimentichiamo poi doti fisiche fuori dal comune, anche se non è che schiacciasse saltando da metà campo: le cose che faceva le faceva però ad alta velocità.

- Lei ha spesso sostenuto che ogni popolo abbia un suo stile di gioco e di atteggiamento verso la vita, con qualche eccezione. Dražen era croato, anzi dalmata, con un padre dalle origini serbe e montenegrine: si può dire che la sua pallacanestro fosse più da serbo che da croato?

No, uno come Petrović era unico e non lo possiamo inserire nelle nostre generalizzazioni. Giocava un basket assolutamente suo, che in Europa non si era mai visto prima: pur non avendo modelli televisivi, perché quando lui era bambino la NBA in Europa non si vedeva, è stato il più americano dei grandi giocatori jugoslavi. Lui non faceva gruppo, ma voleva vincere le partite. È vero che si divertiva quando gli riusciva bene un gesto tecnico a cui teneva e che subito dopo prendeva in giro l’avversario, però lo faceva per sé. I serbi si divertono, ma in branco. Lui era invece un fenomenale individualista, abbastanza intelligente da coinvolgere il resto della squadra.

- Come era vista l’America, in Jugoslavia, negli anni della formazione di Dražen?

Per noi gli Stati Uniti non erano un esempio né sociale né comportamentale, ma soltanto tecnico e sportivo. A distanza di tanti anni lo si può notare con maggiore chiarezza: la grande forza del basket jugoslavo è stata quella di prendere dagli americani tutto quello che serviva, però senza fare gli imitatori degli americani. Valeva per i giocatori, ma anche per gli allenatori: Nikolić e tutti gli altri seguivano le tendenze tecniche, dalla difesa sul pick and roll a tutto il resto, ma senza snaturare i propri giocatori. Da lontano la NBA era vissuta per ciò che era, uno spettacolo per fare soldi. E poi negli anni Settanta la NBA non si vedeva, gli idoli erano locali. In generale l’America vista dalla Jugoslavia di Tito era un altro pianeta: quando Ćosić andò a Brigham Young, quindi nemmeno nella NBA ma al college, l’impressione fu enorme.

- Essere cresciuto in un Paese comunista, sia pure in modo diverso dall’Unione Sovietica, è stato importante nella sua formazione?

Non saprei. Fosse nato negli USA o sotto Pol Pot, in Danimarca o in Unione Sovietica, sempre lui sarebbe stato e sempre le stesse cose avrebbe fatto. Un club nel quale allenarsi otto ore al giorno l’avrebbe trovato con qualsiasi ordinamento politico.

- L’allenatore più importante per la sua carriera è stato Slavnić? Non soltanto sul piano tecnico, ma anche come modo di sfidare gli avversari…

Moka di basket capiva, oltre ad essere stato un ottimo giocatore: si rese conto subito di avere di fronte un fenomeno. Ma sul piano tecnico non gli ha insegnato niente, così come gli altri allenatori che hanno lavorato con Dražen. A livello giovanile lui giocava come ha giocato dopo, cioè da fenomeno. Poi con l’allenamento spasmodico si è costruito il tiro, mentre il suo atteggiamento di sfida era naturale, gli arrivava da dentro. Fuori del campo Dražen era invece catatonico, quasi non parlava. Ne sono stato più volte testimone diretto: in compagnia non diceva una parola e a cena con la squadra era silenzioso, quasi spento. Quando aveva la palla in mano però si accendeva: la pallacanestro era il suo modo di esprimersi, era la sua vita. Fuori dal campo era educatissimo, cortese, gentile, ma la sua vera vita era in campo.

- Il suo unico idolo, oltre che modello, è stato il fratello?

Penso proprio di sì, ma non soltanto perché era suo fratello. Prima che andasse al Cibona e si ammalasse, perdendo di fatto un anno e mezzo nel periodo più delicato della carriera, Aco Petrović era un vero fenomeno. Quando aveva quindici anni si dicevano di lui le stesse cose che si sarebbero poi dette di Dražen: figuriamoci quindi l’impatto emotivo che ha avuto Aco su un fratello più piccolo di cinque anni, orgoglioso di passargli i palloni negli allenamenti di tiro, in una cittadina come Sebenico.

- Lei ha raccontato in diretta televisiva gli esordi di Petrović con il Šibenka, che andò a un passo dalla leggenda con le due finali di Coppa Korać e il campionato scippato dal Bosna. Cosa mancò per vincere?

Quasi tutto. Lui era un campione già da minorenne, ma ad alto livello i suoi compagni erano inguardabili. In particolare i lunghi, Macura e Marelja: se avessero concretizzato almeno metà degli assist di Dražen adesso staremmo raccontando un’altra storia. 
Quanto alla finale con il Bosna, non credo alla teoria del ‘Palazzo’ pro-Sarajevo: in particolare in quella gara3 i fischi furono abbastanza equilibrati. Di sicuro sull’ultima azione Matijević volle fare il fenomeno, perché Hadžić era a un metro e mezzo da Petrović: mi ricordo che in telecronaca dissi subito che il Bosna era campione di Jugoslavia, invece poi fu inventato quel fallo che mandò Dražen ai tiri liberi. Il fischio strampalato di Matijević, radiato come arbitro e che da allenatore sarebbe diventato famoso per aver tirato fuori una pistola in campo, non toglie il fatto che la ripetizione della partita sia stata una decisione soltanto politica. 
Non tanto perché Sarajevo avrebbe ospitato i Giochi Invernali l’anno dopo (1984), ma per implicazioni di altro tipo: Tupurkovski, il presidente federale che prese quella decisione, era stato capo dei giovani comunisti macedoni ed era un politico in carriera. Lo sport per lui era una rampa di lancio. 
Non per nulla negli anni della crisi sarebbe stato uno dei componenti della presidenza collettiva della Jugoslavia che gestì tutta la fase caotica della secessione slovena, l’inizio di quella delle sedicenti Krajine nei confronti della Croazia e soprattutto la catastrofe bosniaca.


Estratto dell’intervista a Sergio Tavćar contenuta nel libro ‘Gli anni di Dražen Petrović – Pallacanestro e vita’, di Stefano Olivari. 
In versione cartacea, 250 pagine, in vendita sul sito della Hoepli e fisicamente in tante librerie: la stessa Hoepli, la Libreria dello Sport, gran parte delle Feltrinelli e moltissime indipendenti. Prezzo dai 17 ai 20 euro, a seconda dei rivenditori. 
Disponibile anche a 6,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, per iTunes di Apple (quindi iPad, iPhone, iPod Touch e Mac), Kobo di Mondadori e per tutti gli altri eReader attraverso la piattaforma di BookRepublic
Distributore in esclusiva di questo e degli altri libri di Indiscreto: Distribook srl.

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