Dražen Petrović. Il primo uomo sulla Luna


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La Giornata Tipo - 7 giugno 2023
da un estratto del suo libro “Dražen Petrović. Il primo uomo sulla Luna“

Intro

Ho iniziato a viaggiare nella vita di Dražen Petrović nella primavera del 2018. Ero al lavoro su una trilogia di libri biografici dedicati a protagonisti dello sport, un progetto che mi permettesse di raccontare anche il contesto in cui quei campioni avevano vissuto, le loro scelte di vita, politiche e non solo sportive, che avevano preso o erano stati costretti a prendere. 

Nel 2018 due dei tre volumi erano già stati pubblicati da 66thand2nd, e aspettavo la storia giusta per completare il trittico (aspettavo, in realtà, di trovarla prima emotivamente, e poi razionalmente). Ma nei miei primi viaggi a Šibenik e Zagabria, due delle città fondamentali della vita di Dražen, avevo solo la scusa di un reportage sull’anniversario dei 25 anni dalla sua tragica scomparsa. Non avevo infatti un approccio particolarmente progettuale, ma la mia presenza nei suoi luoghi era più che altro quella di un semplice appassionato, un innamorato alla ricerca di un ricordo perduto, o alla scoperta di una meraviglia inarrivabile.

Del resto Dražen era stato parte di una memoria condivisa da tanti e tante di noi amanti del basket, pur non avendo mai giocato per un club italiano. Ricordo miei compagni di squadra più grandi, nati negli anni Sessanta o Settanta (chi proprio nel 1964, come Petrović) che avevano scelto la maglia numero 4 in onore di Dražen. 

Ricordo lo stupore mio e di mio fratello adolescenti, nel non vederlo sul campo del Palaeur di Roma agli Europei di basket del 1991, e scoprire il vero motivo dell’assenza, solo molti anni dopo. 
Ricordo la curiosità e il sostegno di tutti per la sua avventura Nba, che all’inizio degli anni Novanta si poteva seguire grazie a nuovi canali e programmi Tv, a riviste, a speciali come Nba Action che arrivavano ormai anche da noi in Italia. 

Ma gli elementi – di sicuro irrazionali, se non addirittura emotivi – che mi hanno fatto capire che questa storia mi avrebbe nuovamente portato a fondo dentro una vita che non era la mia, sono stati due segnali ben precisi: la prima volta che ho parlato con Biserka Mikulandra Petrović, mamma di Dražen, al Museo memoriale di Zagabria, mi sono accorto (in modo quasi sbadato, improvviso) di essere diventato più  vecchio di Dražen. Una cosa che ritenevo impossibile. Mi ritrovavo a 37 anni, mentre lui era rimasto inevitabilmente a 28. 

Ciò nonostante, il mio stato d’animo nei suoi confronti non era mutato di una virgola: per me sarebbe sempre stato il punto di riferimento, il giocatore a cui in campo ti affidi, la guida tecnica, quella spirituale. Un tipo di sentimento che chi ha giocato a basket può capire: una fede totale verso chi saprà illuminare la scena, fare la giocata giusta al momento giusto. L’assist che serviva. Il canestro della vittoria.

Poi, come secondo elemento, la rimozione pressoché totale dall’immaginario collettivo delle guerre jugoslave, delle tante responsabilità interne ed esterne al Paese che avevano portato alla morte di centinaia di migliaia di persone, alla dissoluzione di un progetto politico, di un ideale e (chiaramente in modo del tutto meno rilevante) anche alla fine della più forte squadra nazionale europea di basket di sempre: la Jugoslavia della fine degli anni Ottanta, quella di Divac, Kukoč, Radja, Vranković, Paspalj, Danilović, di Jurij "Jure" Zdovc. 

Quella per cui a causa di un profondo dissidio con Petrović, non giocava Sasha Djordjević. Ecco, la rimozione dei conflitti jugoslavi è stata l’altra motivazione che mi ha spinto ad andare oltre. Ad accettare che ci sarebbero voluti anni, ma che questa storia non l’avrei abbandonata tanto presto. Avrei dovuto ritrovare lo splendore in campo, quello che sbocciava dalle visioni e dalle mani di Dražen, e provare a ricostruire quel sottile filo di dolore che era stato spezzato, fuori del campo.

E così tutto è iniziato.

Ho interrogato per prima l’infanzia di Dražen, i suoi anni giovanili, gli inizi nel basket a dieci anni, grazie al primo pallone che aveva ricevuto in regalo, pesante, di cuoio marrone, da cui non si separava mai. Entrando poi nei meandri anche psicologici della sua rincorsa continua nei confronti del fratello maggiore Aleksandar (Aco o Aza, a seconda dei contesti), talento precoce anche lui, poi giocatore e allenatore di successo. 

Una rincorsa finalizzata a dimostrarsi più forte, fatta di allenamenti senza sosta attraverso cui la distanza tra i due si riduceva sempre di più, fino a quando Dražen non lo ha prima raggiunto, poi superato. Di sicuro il suo primo modello di giocatore (quello da imitare, da studiare) è stato proprio Aco, in anni in cui il desiderio del piccolo Petrović si misurava soprattutto con i ragazzi più grandi del suo quartiere, nel playground improvvisato davanti casa, in Ulica Petra Preradovića, nel cuore della città dalmata (all’epoca jugoslava) di Šibenik, Sebenico.



Dražen dodicenne, in camicia scura e scarpe da basket Converse, attende tra i ragazzi grandi il momento di entrare nel campetto di Ulica Petra Preradovića, a pochi passi da casa sua. 
(Source: Šibenik News)

Raccogliendo testimonianze, voci, sguardi appassionati sulle sue prime apparizioni in campo, su quei quattro anni nel piccolo Šibenka, club in cui Dražen ha debuttato a soli quindici anni nella serie A jugoslava, ho capito che ero già dentro il terzo volume della trilogia immaginata anni prima. 
Che il reportage iniziale, senza secondi fini, che stavo scrivendo in terra croata, stava già oltrepassando i propri confini formali, eccedendo il numero di interviste che mi ero prefissato, dilagando in termini di catalogazione documenti, ritagli di riviste, sopralluoghi, viaggi. 

La chiave di questo allargamento di prospettiva l’ho trovata capendo la vera natura del giovane Petrović, negli anni in cui si sottoponeva a cinque ore di basket il giorno (dai dieci ai tredici anni), poi a sette (dai tredici anni in poi). 
Anche d’estate, o nel fine settimana, quando terminati i tornei gli altri ragazzi si riposavano, uscivano con gli amici. 
Lui invece studiava le tecniche e le tattiche contenute in un piccolo libro di 47 pagine scritto dal guru Mirko Novosel, Kako da postanem košarkaš (letteralmente “Come diventare un giocatore di basket”, tradotto in Italia, con la prefazione di Aldo Giordani, in “Come imparare a giocare il basket”), in cui i segreti offensivi e difensivi della pallacanestro erano spiegati nel dettaglio, grazie anche ai grandi talenti della prima generazione del basket jugoslavo; quei Krešimir Ćosić, Mirza Delibašić, Moka Slavnić, Dalipagić, Šolman e tanti altri, che comparivano, regali e inarrivabili, nelle immagini del libro. 
Da tredicenne sognatore, Dražen studiava e riproduceva in campo quei movimenti. Usava sedie come finti avversari, contava i suoi canestri, mai i tiri. Non immaginava che solo pochi anni dopo avrebbe sfidato quegli stessi campioni, che ci avrebbe giocato contro, insieme. Che sarebbe diventato più forte di loro. O forse, chissà, lo immaginava già.

Da questa sua totale dedizione all’apprendistato del mestiere del basket, in tutti i suoi dettagli, in questa irrazionale ma devota pratica quotidiana, ho infatti capito che Dražen, più che a un giocatore di basket dovesse essere paragonato a un kosmonaut, colui che si prepara a imprese impossibili, sottoponendosi a un addestramento fuori del comune, ma ispirato da un sogno grandissimo: quello di arrivare in alto, di raggiungere luoghi inesplorati per noi mortali. Nel caso di Dražen: essere il primo giocatore europeo a farcela per davvero tra gli alieni della NBA.

 

Šibenik list “Dražen je bio prvi čovjek na mjesecu”. 
Il titolo significa "Dražen è stato il primo uomo sulla luna".

Da questo punto in poi, mi sono ritrovato immerso nella visione di centinaia di partite del basket jugoslavo della fine degli anni Settanta, dei primi Ottanta. 
Poi, seguendo la sua parabola interstellare, ho visto comparire le finali europee (perse, le prime due, di Coppa Korać in maglia Šibenka, vinte, le successive due, di Coppa dei Campioni con il Cibona), gli attraversamenti dei luoghi più significativi della vita di Petro, compresa la città di Pola, troppo spesso dimenticata nella narrazione di Dražen, bollata come città in cui fu obbligato a espletare l’anno da militare nel 1983/84; mentre invece è la tappa in cui ha completato la sua prima trasformazione fisica, e in cui ha costruito alla perfezione il suo movimento di tiro, fino a quel momento ben lontano dall’essere la sua miglior caratteristica offensiva. Ci sono dunque voluti cinque anni, 240 pagine finali, per decidere cosa mettere insieme, aggiungendo il mio sguardo personale (assieme a quello di tante altre presenze che compaiono nel libro), a una storia che appartiene a chiunque ami il basket.

Ci sono i successi personali, alcune cadute, la sua duplice natura (mite e dolce fuori del campo, duro e spietato dentro), le vittorie della Jugoslavia unita, le tante polemiche e le inevitabili divisioni. Tutte cose contenute nel libro Dražen Petrović. Il primo uomo sulla Luna (66thand2nd, 2023), che però, per La Giornata Tipo, abbiamo deciso di lasciar riposare. Almeno per una volta. Oggi vogliamo infatti ricordare Petrović con un passaggio felice della sua vita, un momento fondamentale della salita verso il cielo stellato della NBA. 

Più precisamente quando per Dražen, nell’estate del 1991, pochi mesi dopo essersi trasferito dai Portland Trail Blazers ai New Jersey Nets, tutto, (davvero tutto), è cambiato. Grazie a quella sua inarrestabile mentalità cosmonautica a lavorare (di nuovo) follemente su se stesso. E diventare la migliore versione possibile del campione che già era.
LORENZO IERVOLINO

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