ITALIANI - FEDERICO BUFFA: «Gigi Riva abitava a 300 metri, so pure dove andava a fumare Il migliore? Muhammad Ali»
Il narratore: ero avvocato, ora con lo sport riempio i teatri
Il mito Chamberlain Andai a studiare sociologia in America, arrivato a Ucla entrai nel campus e trovai Wilt Chamberlain. L’avevo visto solo in fotografia su «Giganti del basket»
Fede rossonera Sono milanista, l’unica squadra vincente tra quelle per cui simpatizzo Amo squadre derelitte, problematiche o andate a rotoli. Ma dal 2011 non vado allo stadio
11 Feb 2024 - Corriere della Sera
di Flavio Vanetti
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Narratore di storie. Dunque un menestrello del terzo millennio? «Semplicemente, mi sento un privilegiato in un luogo inatteso» dice Federico Buffa, personaggio che definire poliedrico è poco. Avvocato, baskettaro (la «professione» nel Dna), agente di cestisti, radio-telecronista, ora storyteller e attore: quante esperienze, nel suo vissuto. Adattiamo Pirandello: uno e centomila. Il «nessuno», nel suo caso, non va.
Cominciamo però da Ucla e da sociologia, un bel po’ di anni fa.
«Fu un regalo di papà per la maturità classica. Aveva già provato a farmi studiare negli Usa. Il pass andava però conquistato. Due giorni di selezioni a Como. Verdetto: inadatto al mondo americano. Mio padre la prese male, io con filosofia. Quando mi fece quel dono, scelsi Ucla. Ho avuto un attimo di gloria il giorno in cui il professore domandò: “Massa di caproni, qualcuno sa chi ha scritto — pronunciandolo all’americana — il De senectute?».
Come andò a finire?
«Nel torpore alzai la mano e le vicine di posto, che venivano in classe in short e con i pattini a rotelle, allibirono quando dissi Cicerone. Il prof commentò: “Noi lo chiamiamo Sìsero”. Mi chiesero: “Come lo sai?” Per loro ero uno scappato di casa: rivedendo le foto, avevano ragione».
In compenso era in una grande università del basket.
«Entrai nel Campus e trovai Wilt Chamberlain: fino a quel momento era stato solo una foto sui Giganti del Basket. Più lo vedevo e più pensavo che non esistesse».
Perché sociologia?
«Ambivo a seguirla all’università. Mia mamma all’improvviso mi tolse la carne e mi diede uova fritte: “Se vuoi fare sociologia, comincia ad abituarti: la carne non la mangerai più”. Mi avvisava che non avrei guadagnato molto. Avevo promesso che sarei andato alla Bocconi, però non ero all’altezza. Ripiegai su giurisprudenza. Sociologia l’avrei fatta se avessi potuto scegliere la sede: c’era solo a Roma e a Trento, che era una cantera delle Br».
Lei ha fatto l’agente di giocatori.
«Prima però, quando ero ancora studente, fui coinvolto da Guido Bagatta. Mi chiese di partecipare all’ingaggio di cestiste negli Usa. Tramite la sua allenatrice, che aveva conosciuto, aveva fatto venire in Italia Lynette Woodard, la più forte di tutte. Per un po’ fui il legale di Guido: devo a lui tante cose imparate».
Il giro d’affari approdò al basket maschile. «Vito Amato, general manager di Pesaro, chiese a Bagatta di andare con lui negli Usa a cercare giocatori. Guido non poteva e gli suggerì un “deb” come me: proposta accolta. Amato aveva ottenuto l’upgrade in prima classe, io avevo sempre viaggiato in economy e mi ero presentato… in tuta. Ingaggiammo Antoine Carr, giovane fenomeno. Ma ricevemmo la telefonata di Toni Cappellari, g.m. dell’Olimpia: era arrivato secondo e chiedeva il permesso di inserirsi. Finì che Carr andò a Milano e Pesaro prese Cliff Pondexter. Bene, ma non benissimo».
Poi nacque lo studio Buffa-Santrolli.
«Dario è stato un maestro. Il giocatore a cui sono rimasto più legato è stato Mike Mitchell, buonanima. A Brescia lo pagarono in contanti. Ma erano biglietti da 1.000 lire, non da 100 mila. Rimase, da vero professionista. Firmò poi per il Maccabi, all’aeroporto di Tel Aviv superammo in 5 minuti controlli che durano ore. Al ritorno, però, ero solo: non mi diedero canali privilegiati, anzi pretendevano di verificare il contratto di Mike. Non lo mostrai. A Reggio Emilia, dove Mitchell è stato un idolo, mi chiamano per commemorarlo».
Ha seguito pure la sorella di Dennis Rodman.
«Debra è stata il cliente più duro. Dennis all’università prendeva 27 rimbalzi a partita, sullo yearbook avevano scritto Roadman. Lei venne a giocare ad Ancona e scoprii che erano fratelli. Alle 3 del mattino ricevevi la chiamata del vicino: non voleva che lasciasse la “monnezza” sul pianerottolo. In sottofondo udivi Debra che gli rifilava poderosi vaffa…».
Avrete parlato di Dennis, immaginiamo.
«Per Debra era un debosciato, altro che un duro. Diceva che si nascondeva ad ogni guaio: lo trattavano come un triste problema. Dennis fu poi semi-rapito da una famiglia dell’Oklahoma: si presentò in mutande. Quindi andò al college, acciuffò tutti i palloni che volavano e diventò Rodman. Ma quando la rividi, Debra mi confidò: “Sono molto più brava, forte e intelligente di quell’impedito che ora è una stella”».
L’esperienza a «Superbasket».
«Tornato da Ucla proposi un articolo sul fatto che avevo visto Chamberlain. Aldo Giordani lo pubblicò al volo. Scrissi poi una storia su Ann Meyers, la donna che aveva effettuato un provino nella Nba. L’avevo copiata dal Los Angeles Times, ma Giordani aggiunse perfino un fotomontaggio di Jabbar che stoppava Ann. Ero al settimo cielo».
Perché non s’è dedicato stabilmente al giornalismo?
«Qualche rimpianto c’è. Ma per un po’ ho dovuto fare l’avvocato, senza esserne in grado: non ho mai praticato ed è stato un bene per tutti. Ero però bravino a fare contratti: anni dopo ne lessi qualcuno, c’era qualcosa di familiare».
Federico Buffa radiocronista dell’Olimpia.
«Un amico collaborava con Radio Press Panda. Mi chiese un aiuto. Facevamo le radiocronache con il telefono “storto”, girando la cornetta».
Flavio Tranquillo l’ha trovato lei o viceversa?
«Mi avvicinò in un campetto. Aveva 19 anni, mi leggeva su Superbasket. Disse: “Sono arbitro, entro nei palasport: posso tenerti i punti?”. Poi un bel giorno, rientrato da due mesi negli Usa, la radio mi comunicò: le dirette le fa Flavio, ma puoi dargli una mano…”. Giusto così».
Capodistria, Tele+, la Svizzera: non manca un approdo da icona della tv?
«Dal 1994 al 2013 ho comunque commentato il basket Usa. Non potevo fare di più. Poi Sky mi ha dirottato su altri fronti, calcio in primis. Una volta a New York un avvocato mi disse: “Sei un baskettaro che fa l’avvocato, non un avvocato che deve fare il baskettaro”. Pura verità: la passione per il basket è superiore a quella per il calcio. Poi la vita ti porta dove ti porta».
Come vede il mondo del pallone?
«Dal 2011, da quando non devo più occuparmene, non sono più tornato in uno stadio. La Nba è il mio campionato».
Però lei è milanista.
«Senza il “però”. I genitori mi fecero vedere, a 6 anni, il Milan. Non potevo esercitare il libero arbitrio: mamma ha una foto con la bandiera della finale della Coppa dei Campioni vinta nel 1963».
Essere rossonero le va bene.
«Il Milan è l’unico club vincente tra quelli per cui simpatizzo. Amo squadre derelitte, problematiche o andate a rotoli».
Suo nonno aveva una villa a Sangiano, vicino a Laveno.
«Mamma diceva che avremmo potuto essere al posto dei Borghi, quelli della Ignis. Una cugina in Sicilia mi spiegò che mio nonno era anche suo zio ed era stato un braccio destro di Enrico Mattei. Ho afferrato allora la frase di mia madre: il nonno era imprenditore, ma si era fidato di gente inadeguata. Stava nella zona in cui fiorì la Ignis, chissà che cosa sarebbe successo se non avesse sbagliato».
Come nasce il racconto sportivo?
«Nasce nell’antica Grecia: il primo match di boxe lo narra Omero. Il racconto sportivo è poi frutto dell’immaginazione: l’Homo Sapiens vince il derby con quello di Neanderthal perché immagina di più. Da lì le storie si sono tramandate e lo sport è diventato un veicolo fondamentale».
Come organizza la narrazione?
«Non ho diritto di scelta, ma ho diritto di veto. Il direttore indica un tema: se mi sta bene, si parte. Poi è solo un problema mio: devo farmi trovare pronto. Su Muhammad Alì, per me il più grande sportivo, ho letto 12 libri, dei quali solo 2 in italiano».
Gira e rigira, è diventato attore.
«In teatro: è la mia occupazione principale. Stupito dai vari “tutto esaurito”? Più che altro sorpreso da quanti giovani ci sono. Sono del 1959 e di un altro “pianeta”. Però certe storie hanno evidentemente acquisito attualità nella contemporaneità».
Ha ricevuto critiche offensive?
«Non ne ho mai lette. Forse però in redazione sono stato visto come uno al quale era stata data la chance di arrivare ad un certo livello saltando la fila. L’ho notato pure in teatro: non sei nessuno, eppure ci sono tante date col tuo nome. Chi arriva dalla tv senza essere un attore passa per un parvenu che ha troppa visibilità: capisco la critica».
Quali personaggi l’hanno emozionata?
«Alì nello sport, assieme a Pierino Prati e a Chuck Jura, miei beniamini. Extra sport direi Enrico Mattei e Adriano Olivetti. Pensando al mondo, voto per Nelson Mandela. La parola terrorista ha un confine labile rispetto al concetto di eroe. Mandela da un lato era un terrorista: aveva ucciso e per Reagan e la Thatcher doveva pendere dalla forca. Poi ecco che cade il muro di Berlino e con esso un sistema: non c’è più Pieter Willem Botha, arriva Frederik de Klerk che vince assieme a lui il Nobel per la pace».
Gigi Riva, purtroppo appena mancato.
«Il top: siamo orfani quando perdiamo chi ci ha fatto amare lo sport. Andavo in bici a Leggiuno, che faceva comune con Sangiano: casa sua era a 300 metri dalla mia. Sapevo anche dove andava a fumare. Ho dovuto narrare pure il suo lato ombroso: ignorarlo avrebbe reso incompleta una strepitosa vicenda».
Aldo Grasso: «Buffa ha uno stile avvolgente». «Non ringrazierò mai a sufficienza. Ma ho avuto la fortuna di incontrare chi, ad esempio Gian Maria Vacirca o Federico Ferri, ha trovato per me strade che io non avrei mai scoperto».
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