Mandela, l’ultimo degli eroi
di Paolo Lepri
Corriere della Sera, 27 Apr 2024
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È stato «solo» un grande uomo, Nelson Mandela, oppure «l’ultimo dei grandi uomini», come si chiedeva lo scrittore sudafricano J.M. Coetzee all’indomani della sua morte? Michele Farina ci consegna le possibili chiavi di lettura per rispondere a questa domanda. Lo fa in un libro profondo quanto il mare — infestato di squali bianchi impazienti di attaccare gli eventuali fuggitivi — che circondava l’isola-prigione di Robben dove l’eroe della lotta contro l’apartheid venne rinchiuso per diciotto lunghissimi anni.
Non aspettiamoci, però, che L’isola di Mandela (Solferino) contenga soluzioni troppo semplici. Sarebbero in contrasto con lo spirito di un viaggio emozionante, dominato da una volontà estrema di conoscere, guardare e raccontare: un viaggio nell’anima di colui che Farina chiama più volentieri, nonostante i molti nomi, il «prigioniero 466/64», nelle sue parole e nei suoi luoghi (indimenticabile la descrizione della cella e, forse ancora di più, quella della stanza dei colloqui dove il futuro premio Nobel per la Pace posava sul vetro di separazione margherite appena raccolte per la moglie Winnie), nei suoi dolori e nelle sue scelte. E nella sua gloriosa vittoria, sulla quale le colpe di chi è venuto dopo, alla guida di una nazione liberata, non hanno fatto calare il sipario nello smemorato teatro dell’umanità.
Il Mandela di Farina — che ha dedicato al Sudafrica anni di incontri, pensieri, reportage e sentimenti, fin da quando lo visitò la prima volta nel 2004, l’anno in cui sua mamma morì di Alzheimer (lo stesso destino del carcerato diventato presidente) provocando una dolorosa ferita con cui ha camminato nel mondo — è un eroe, certamente, ma è soprattutto un essere umano «fatto di carne e sangue», come disse l’amica scrittrice Nadine Gordi parlando anche di «una eloquenza carica di verità». In questo libro, non a caso, si raccontano passioni. Si rivela la «rabbia», così tanto concreta, di chi «non perdonò mai il nemico, ma decise di condividere con lui lo stesso percorso».
Carne e sangue, è chiaro. Molto sudore, nel lavori forzati, ma nessuna lacrima. Anche se avesse voluto, il nemico numero uno dei segregazionisti bianchi non avrebbe potuto piangere: l’eccessiva esposizione alla luce, nella cava dove si spaccavano le pietre, gli aveva prodotto danni irreparabili agli occhi. L’ironia del nome: «cecità da neve», una neve che non sarebbe mai caduta nell’ex lebbrosario al largo di Città del Capo. Grazie a questo libro ora conosciamo tutta la terribile storia dell’isola dove migliaia di detenuti neri, umiliati e offesi, avrebbero sofferto sognando un futuro che è poi diventato realtà.
Parlare di sopraffazioni e violenze, fisiche e morali, non vuol dire accantonare le idee. Anzi. La forza di Mandela (animata da una gigantesca dignità personale che gli impediva di accettare i minimi privilegi offerti per il suo status di leader) è stata quella di cercare sempre un dialogo senza cedere ai suoi aguzzini. «Quando, tra gli anni Sessanta e Settanta, il regime dell’apartheid con i suoi appoggi esterni e la forza della sua repressione (migliaia di persone detenute e torturate senza processo) sembrava aver schiacciato ogni opposizione, sull’isola delle foche — scrive Farina — prendeva forma giorno dopo giorno, privazione su privazione, un modello di convivenza impensabile che sarebbe sfociato in qualcosa di più grande».
Ci sarebbe naturalmente voluto molto tempo. Passarono oltre trenta anni da quando Mandela fu messo in carcere (alla reclusione di Robben seguì nel 1982 il trasferimento nella prigione di Pollsmoor, dalla quale fu liberato quello storico giorno del 1990 che viene rievocato con eccezionale sensibilità) fino all’elezione alla massima carica nel 1994, trent’anni fa. Ma l’ergastolano «aveva compreso fin da subito di non avere scelta». «Non vi era altra strategia: non si trattava — osserva Farina — di vincere una guerra ma una partita a scacchi, facendo credere all’avversario che alla fine sarebbe stato meglio accettare un pareggio, un compromesso». La ragione, per quello che può contare, era saldamente dalla sua parte. In questa occasione ha contato.
Poi è arrivato il tempo degli errori. Il Sudafrica di oggi — un Paese corrotto e mal governato in cui, ricorda Farina, «le disuguaglianze sono rimaste o si sono addirittura accentuate nel processo di ricostruzione nazionale» — non è quello che il suo eroe aveva in mente. Delusione è la parola più comune. In un capitolo di "La maschera dell’Africa", freddo resoconto di un viaggio a Johannesburg, V.S. Naipaul sente dire che «l’amore non vale niente finché non è stato messo alla prova dalla sua stessa sconfitta».
Forse questo è così anche per le rivoluzioni, non solo per gli amori. La nostra epoca attuale, segnata da contro-rivoluzioni antidemocratiche o da forsennate violenze che colpiscono l’umanità nel suo complesso, ci porta a credere che Mandela sia stato, effettivamente, l’ultimo dei grandi uomini. Farina lo suggerisce. Sulle rive dell’isola di Robben avrebbe voluto portare via una bottiglia con il vento, «così intenso da sembrare vivo», profumato dalle alghe che i reietti raccoglievano «dando le spalle al mondo dove era proibito fare ritorno». In quella bottiglia c’è un messaggio da non smarrire.
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