IL TEMPO È CICLI(STI)CO


Non importa di che anno siete, né importa il secolo: in questo mondo i vostri orologi non funzionano, e nemmeno i calendari. Quel che è stato sta per ricominciare, e quel che sarà è in quel che è stato già. Un immenso girare. Da vedere. E ascoltare

23 Jun 2024 - Corriere della Sera - La Lettura
Di FABIO GENOVESI

Parte il Tour de France dall’Italia (da Firenze, per poi toccare Cesenatico, Bologna, Piacenza, Torino, Pinerolo) e noi sappiamo cos’è lo sport della bicicletta: un eterno presente in cui passato e futuro si impastano tra i pedali in un unico miscuglio

Eccoci, da tanto se ne parla, adesso finalmente succede: il Tour de France, tre settimane di corsa tra le Alpi e i Pirenei, tra la Provenza, il Massiccio Centrale e ogni profilo della Francia, sta per partire. E parte quest’anno da Firenze.

Chi non è pratico di ciclismo si stranisce, domanda come mai — se è il Giro di Francia — inizia in Italia. In realtà non è strano, sono settant’anni che il Tour parte dall’estero, Germania, Svizzera, Lussemburgo, Danimarca, Spagna, pure da Inghilterra e Irlanda. Dal Belgio è già successo cinque volte, dall’Olanda sei. La vera stranezza, insomma, è che dall’Italia parta solo adesso.

Ma lo farà in grande stile. Per la presentazione delle squadre i corridori pedaleranno da Palazzo Vecchio verso piazzale Michelangelo, con Firenze intera da raccogliere là sotto in un’immane occhiata. La tappa saluterà Piazza della Signoria, varcherà l’Arno su Ponte Vecchio e via a scavalcare gli Appennini selvaggi fino a Rimini che — accogliente com’è — tenderà il traguardo come un abbraccio.

Un abbraccio smisurato, milioni di braccia degli appassionati lungo le strade, di quelli che lo seguiranno da casa e pure di chi pedala ormai nell’Ade.

Il ciclismo è così, ci sono molti mezzi più veloci della bici per accorciare le distanze, ma nessuno che sappia come lui annullare il tempo. Passato, presente, futuro, si impastano tra i pedali fino a mostrarsi per quel che sono davvero: un unico miscuglio addosso a noi.

Si dice spesso che il ciclismo non dimentica, ma non è vero: nel ciclismo quel che è stato continua a essere, quindi non c’è un passato là dietro da ricordare, tutto è qui da vivere. Le imprese storiche ancora ci esaltano, le gesta dei campioni di altre epoche infiammano i cuori giovani di oggi.

È il rapporto unico e magico del ciclismo col tempo. Forse perché a un certo punto della sua corsa si è trovato davanti, invece di una montagna da scalare, il muro dritto e grigio del progresso. Che sempre corre a testa bassa, senza accorgersi del panorama intorno. Il progresso non si emoziona, non gli interessa dove sta, lui pensa solo ad andare altrove, ansia perenne, perenne cecità.

Un giorno il progresso ha messo davanti al ciclismo la dura novità dei motori: auto, moto, aerei... le stesse distanze ormai si potevano coprire in modo molto più rapido e con nessuna fatica, che senso aveva continuare a sfinirsi sulla bicicletta?

Il ciclismo ha risposto a modo suo, cioè senza rispondere, continuando a sbuffare e scalare, in un luogo che da quel giorno è diventato altro, e un altro pure il suo tempo. Il tempo del ciclismo, che non c’entra nulla con quello rigido della società, dove qualcosa che ci ha fatti innamorare resta alle spalle e scompare solo perché lo dice un orologio, dove le imprese di un uomo smettono di appassionare solo perché il suo corpo non pesa più su questa terra.

Nel ciclismo è normalissimo sentire due ventenni a bordo strada, che attendono il passaggio della Milano-Sanremo e intanto dibattono su come la vinse Girardengo nel 1918, quando i loro nonni erano solo abbozzi nei progetti del Cielo. Normalissimo leggere sulla strada e sugli striscioni i nomi di corridori che non son più in gara e a volte nemmeno in vita, tra cui il più ricorrente e gridato è ancora quello giallo e fiammante di Marco Pantani.

Ecco perché il Tour, arrivando in Romagna, non omaggerà il Pirata ma proprio lo incontrerà, come avrà già fatto in Toscana con l’immenso Bartali, il Leone Nencini, il grande spirito di Alfredo Martini e tante altre anime per sempre sulla strada con noi.

Esistono i motori, esistono gli aerei, esistono i calendari ed esiste la Morte. Sì, ma non qua.

Qua si pedala e si va. Qua per salire alle vette più alte ci si immerge a esplorare il fondo delle nostre riserve, sudando via tanti inutili pesi caricati addosso nel lungo cammino dell’uomo.

Oggi come quando il Tour de France è nato. Nel 1903. Col suo grande padre e padrone Henri Desgrange, così indelebile che le sue iniziali ancora stanno ricamate sulla maglia gialla.

Se fosse ancora qui, chissà cosa penserebbe Desgrange delle moderne innovazioni nel suo amato sport, una passione così prepotente che dopo aver visto una corsa mollò la carriera da avvocato per lanciarsi su quelle macchine d’acciaio e furore. E però, l’abbiamo appena detto, Desgrange in effetti è qui davvero, ancora controlla la corsa dal suo posto in piedi sull’auto cabriolet della giuria. Guarda le bici che non hanno quasi più peso, le auto delle squadre che riforniscono i ciclisti di ogni cosa, i minicomputer sul manubrio che traducono lo sforzo in watt e guidano il corridore nel dosarlo, i mille rapporti a disposizione con cambio elettronico.

Lui che da ragazzo, nel velodromo di Parigi dipinto da Toulouse-Lautrec e dove si era esibito Buffalo Bill, aveva stabilito il primo record dell’ora su una bicicletta che pesava 25 chili. Lui che già considerava molli e decadenti le aspre regole di inizio Novecento, che giudicava il primo rudimentale cambio un triste trucco, e se al Giro lo si usava ormai da anni, lui solo nel 1937 lo ammise al Tour, ma continuando a proporre: «Lasciamo il cambio di velocità agli uomini sopra i 45 anni».

Ma questo non fu l’unico dei suoi divieti, né il più severo: alcuni raggiungevano un’insensatezza giustificabile solo col sadismo, e gli valsero una serie di soprannomi tra cui «Aguzzino dei forzati», «Massacratore di atleti», e il magnifico «Nonno sanguinario».

Per esempio, durante l’intera tappa i corridori non potevano togliere né aggiungere alcun capo al loro vestiario, una volta scelto come partire, così dovevano arrivare. E la tappa spesso iniziava nel freddo notturno di paesi montani, per ritrovarsi nel pomeriggio sotto la canicola che scioglieva il raro asfalto delle strade, o al contrario si pedalava tutto il giorno nell’afa per poi arrivare sui monti in mezzo a una tormenta, ma ai corridori era vietato coprirsi o alleggerirsi: il tempo poteva cambiare da un estremo all’altro quanto voleva, i corridori dovevamo restare immutati.

Ma soprattutto, non potevano ricevere aiuto alcuno. In tappe lunghe più di 400 chilometri, su bici pesanti come cancelli e strade sterrate di polvere e sasso, era vietato accettare un pezzo di pane o un sorso d’acqua. Dovevano procurarsi tutto da soli, spesso saccheggiando bar e trattorie che incrociavano, e quando nel disperato vagare scorgevano il miraggio di una fontana, prima di bere dovevano assicurarsi che nessuno stesse azionando la pompa per loro, altrimenti scattava la penalità.

Caso limite ed epico di questo divieto fu il Tour de France del 1913, un lungo massacro di quasi 5.500 chilometri, che in pochi riusciranno a concludere.

Alla sesta tappa, di colpo l’orizzonte sparisce coperto dalla roccia glabra e tagliente dei Pirenei, all’epoca terra selvaggia dove si avventuravano solo trafficanti di malaffare, di cui la giustizia non si occupava perché a decimarli pensavano orsi e crepacci.

Appena la mulattiera si alza, si alza sui pedali Eugène Christophe, corridore fortissimo e sublime nel patimento, vincitore dell’infame Milano-Sanremo del 1910, partita sotto la pioggia per trovare poi la grandine e infine avvolgere i pochi rimasti in una bufera di neve. 63 partenti, quasi tutti ritirati, assiderati. Dopo dodici ore e mezza così, solo in quattro all’arrivo, primo Christophe.

Ma il suo sogno più grande resta il Tour de France, dove spesso primeggia e sovrasta i rivali, però a sconfiggerlo c’è sempre la sfortuna. Eppure stavolta sembra l’anno giusto, sui Pirenei solo Thys riesce a tenere il suo volo, gli altri sempre più lontani, cancellati là dietro. Prima l’Aubisque, poi i duemila metri del Tourmalet, Eugene arriva in vetta e si tuffa in discesa, ma una pietra gli spezza la forca della bici.

Oggi arriverebbe l’auto della squadra con una bici nuova e via, ma in quella notte pirenaica non c’erano auto né aiuti, e cambiare la bici era sommamente vietato. Allora Christophe, lasciando una traccia di sangue tra il buio dei sassi, si carica la bici in spalla e barcolla per quasi 15 chilometri in cerca di un paesino.

A Sainte-Marie de Campan trova finalmente segni di vita umana, e l’officina di un fabbro. Ma è vietato anche farsi sistemare la forca da lui, Christophe può solo prendere gli attrezzi e provare ad aggiustarla da sé. Tre ore ci mette, sotto gli occhi attenti della giuria ad assicurarsi che faccia tutto da solo. A un certo punto, affamati, decidono di allontanarsi a turno per cenare in una locanda, ma lui, furente come i colpi di maglio che dà alla sua bici: «Eh no! Se avete fame, mangiate questo carbone! Sono il vostro prigioniero, e voi sarete i miei carcerieri fino in fondo!».

La giuria annuisce e resta compatta, e alla fine lo penalizzerà di altri dieci minuti perché mentre lavorava un bambino di sette anni ha avviato il mantice per lui. Ma dieci minuti non sono più niente in quella notte infinita. Quando riuscirà a tornare in bici e raggiungere in qualche modo l’arrivo, il ritardo di Christophe sane rà di quattro ore. Scende così dal podio, ma entra per sempre nella leggenda.

Questo era un tempo il Tour de France, ma appunto, il tempo del ciclismo è fuori dal tempo, quindi questo è ancora oggi. Le differenze sembrano enormi, ma spariscono nel vortice eterno di fatica e sogno, sforzo e delirio, pedalando verso qualcosa di scellerato e sublime. Quel vortice spingeva i corridori di fine Ottocento a sfidare i cavalli da corsa, e fa lo stesso oggi col magnifico campione Pogacar, che ha appena vinto il Giro e subito si lancia nella folle, inedita impresa di conquistare nello stesso anno i tre grandi giri, Italia, Francia e Spagna.

Ci riuscirà? Se sì, questo succederà nei prossimi giorni e mesi, ma insieme sarà già successo al colpo di pistola nella notte che diede inizio al primo Tour, al sudore versato da chi provò a sfidare sé stesso sulla prima bicicletta, alle imprese dei pionieri lungo le strade della vecchia Europa, dove quel nuovo mezzo velocissimo era considerato diabolico, vietato ai preti e sconsigliato alle donne.

Per capirlo, basta andare lungo la strada dietro casa nostra, e vederlo passare. Anzi, il vedere è una minima parte, noi lo sentiamo passare. Sale nel rombo dei motori che lo anticipano e degli elicotteri che lo sorvolano, nel grido del pubblico prima di noi, poi ecco che finalmente ci arriva addosso quel suono. Il suo suono. Un fruscio. Come quello delle onde che rotolano in mare, delle foglie di un bosco intero nella brezza, è il fruscio delle ruote, dei cerchi che frullano l’aria. 176 partecipanti, più di 350 ruote a girare insieme. Arriva, ti tocca, ti avvolge, e subito va.

Chi non lo conosce ti chiede: «Che senso ha stare lì per ore in attesa di un attimo solo?». Ma appunto, il tempo del ciclismo è fuori dal tempo, e un attimo di gialla magia può durare molto più di una vita di grigissimo rigore. Perché il suono della corsa arriva, ti avvolge e in un attimo se ne va, ma ti porta via con sé per sempre.

Allora a vedere il Tour andateci coi vostri figli e i nipoti, perché vivrete con loro un’esperienza ancor più rara e preziosa del sentirvi padri, nonni, zii: avvolti stretti in quell’unico fruscio smisurato, sarete bambini insieme a loro, guardandovi con gli stessi occhi incantati, vibranti dello stesso fanciullo, eterno stupore.

Non importa di che anno siete, non importa il secolo, nel ciclismo i vostri orologi non funzionano, e nemmeno i calendari. Quel che è stato sta per ricominciare, e quel che sarà è da sempre in quel che è stato già. Un immenso girare, di un paese, di tante ruote lanciate, il giro delle stagioni e della nostra vita. È l’Eterno Ritorno, è continua novità, giro di danza a una musica che non ha attacco né chiusura, e sempre va. E noi, pedalando e tifando, tirando come muli, martellando come fabbri, volando come angeli, danziamo seguendo un tempo diverso e nostro, che ci avvolge e ci conduce. Avanti, indietro, di qua o di là, chi se ne frega: per sempre andiamo, amiamo, danziamo.

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