IL CICLISMO TOTALE DI MARIANNE VOS



Pubblicato il Ottobre 28, 2024 da Simone Basso

5 ottobre 2024, la settimana dopo (Zurigo): da Halle a Lovanio, 134 chilometri di Mondiale gravel, tra un paesino e l’altro del Brabante, un sentiero di campagna, un bosco e un birrificio.
La lista di partenza è da classica del Nord più che – una specie di – ciclocross.
Su Lorena Wiebes in fuga, piombano le due favoritissime del sabato (del villaggio): Lotte Kopecky e Marianne Vos.
Due generazioni di successo del ciclismo femminile.
A dispetto della cartà d’identità, si capisce che la belga, 28 anni, iridata su strada sette giorni prima, è nella ragnatela della veterana, 37 anni, olandese.
Se ne vanno via, fanno il vuoto, ed è Vos a tentare la progressione, sull’ultimo strappo a un chilometro dal traguardo.
Il finale non ha storia: in volata, Marianne scatta come fosse lanciata da una fionda.
Se in Svizzera, sette dì fa, non ci fosse stata Demi Vollering, erede di Annemiek van Vleuten ed esponente di punta del ciclismo ignorante (molti watt, pochi neuroni), Lotte l’arcobaleno l’avrebbe visto indossato – sul palco – dalla più grande ciclista di tutti i tempi.
Quattordicesimo campionato mondiale vinto da Vos, tra strada, ciclocross, pista e gravel.
Abbiamo sorpassato le 450 vittorie complessive, da adulta (...) e professionista, ma i numeri (spaventosi), per assurdo, ne miniaturizzano la grandezza.
Marianne Vos è stato, ed è, un fattore scardinante nello sport della bicicletta.
Dei freak che dominano il ciclismo di oggi, Tadej Pogačar, Mathieu van der Poel, ecc., Vos fu (è) il modello originale.


La famiglia di Marianne è del Brabante del Nord.
Salì su una bici a cinque anni, per emulare il fratello più grande (che correva).
Era una Mercier verde, troppo grande per lei: babbo Henk – che di mestiere faceva il falegname – gliela adattò.
A otto, cominciò con l’agonismo d’inverno, nel ciclocross.
Iniziò a vincere, sempre, nel fango, su strada, con le ruote grasse.
Vinceva anche nel pattinaggio su ghiaccio, culto olandese, e in linea, d’estate.
Anton, il fratellone, segue la sorellina – nelle corse – da decenni, come fotografo.
Comprese che quella bambina smilza, con le gambe lunghe e gli occhi azzurro ghiaccio, che pensava (da grande) di diventare un medico, era un fenomeno.
Mamma Connie approva, una sigaretta fatta a mano, fumata, dietro l’altra.
I Vos sono zingari felici della bici.


Vent’anni fa, Gerrie Knetemann – colui che beffò Francesco Moser al Nürburgring (1978) – indicò a un gruppo di giornalisti, alcuni stranieri, Marianne.
Il vecchio capitano dei pirati Ti-Raleigh, che accompagnava tutti i weekend la figlia Roxane a correre, disse che quella ragazzina era un mostro.
Vos aveva 17 anni quando si presentò, a Verona, ai Mondiali: dominò la gara juniores, facendo capire che stava arrivando – nel piccolo mondo del ciclismo donne – una rivoluzione.
Che colmava lo scarto, decisivo, tra l’èra delle pioniere e la modernità.
Per la bici tutta, prima di Cadel Evans (biker) e Bradley Wiggins (pistard) che vinsero il Tour, prima di Peter Sagan – un universale che comandava il gruppo in mille modi differenti – Vos presentò (presenta) l’idea di un ciclismo totale.
Non solo multidisciplinare, ma un approccio (aggressivo) che coniugava ogni aspetto dello sport.
Tecnico, tattico, istintivo, prepotente, scientifico, creativo.


Allo zenit – dal 2011 al 2014 – andavi a una corsa femminile – una qualsiasi: un ciclocross o la Freccia Vallone o il Giro d’Italia – e Vos era l’atleta da battere, il faro e l’attrazione principale (l’unica?) dell’evento.
Quella Marianne ci consentì di vedere, in diretta, l’effetto che facevano, ai tempi, Fausto Coppi ed Eddy Merckx.
E di osservare il futuro prossimo del ciclismo a tutto campo: ci stava preparando al ciclismo totale dei fenomeni di questi anni.
Le rivali erano consapevoli che si potesse batterla un pomeriggio, forse, ma che fosse impossibile essere meglio.
Una superiorità manifesta, quasi imbarazzante nella forma, alleggerita dalle rare sconfitte, pochissime ma cocenti.
Cinque beffe mondiali consecutive, con le italiane (Giorgia Bronzini, la sua ombra negli sprint...) bravissime, micidiali a sfruttare al meglio quella specie di Una Contro Tutte.
Vos intanto aggiungeva qualcosa alla sua gerla: finirono i paragoni con le fuoriclasse che l’avevano preceduta, Jeannie Longo, Maria Canins, Leontien van Moorsel, al Giro 2011.
Quando schiantò la concorrenza in pianura, in montagna, sugli strappi, in volata.
Emma Pooley, la migliore scalatrice di quel tempo, staccata sul Mortirolo.
Quella discesa, con Silvio Martinello (ammiratissimo...) a commentarla, ci si tuffava su Grosotto, fu una lezione di controllo del mezzo.
Mise in difficoltà le moto del seguito: Vos legge le curve, è perfetta, un corpo unico con la bici che guida colle mani sopra le maniglie dei freni.
Un vezzo da ciclocrossista, e lo si vede anche nella postura (raccolta), lei che pedala facile, di frequenza, come una pistard.
Verso Ceresole Reale, penultima frazione della corsa rosa, scattando, ruppe entrambe le pedivelle (!).
Cambiò la bici, rientrò, si isolò con la solita Pooley che lasciò sul posto a 200 metri dal traguardo.
Cinque tappe vinte su dieci, in quel Giro sbranato, e almeno un paio regalate.


Vos, che in nederlandese significa volpe, è il boss.
Seppure velocissima, con un cambio di ritmo senza pari, l’elemento naturale di Marianne è l’attacco, la fuga, l’improvvisazione.
Al Giro 2012, nella Mornago-Lonate Pozzolo, sfinì di “aperte” Judith Arndt ed Evelyn Stevens.
Uno spettacolo a sé, itinerante, quell’anno: a Londra, con mezzo gruppo alla ruota, partì a 45 chilometri dall’arrivo.
C’erano lei e il diluvio, due forze della natura, che impazzavano sul percorso olimpico.
Olga Zabelinksaja, la figlia di Sergei Soukhouroutchenkov, riuscì – con Lizzie Armitstead – a seguire quel mostro in missione.
Nella conferenza stampa post podio, la descrisse con un lampo costruttivista: “Una macchina.”
Quella volta Vos aveva preparato le Olimpiadi alla sua maniera, monopolizzando il Tour en Limousin: infilandosi in ogni fuga, scavò un abisso in classifica (14 minuti).
Quattro anni prima, a Pechino, l’oro fu nell’individuale a punti.
E’ sempre la stessa campionessa che, sedici anni dopo, a Parigi ha comandato, stravolto, la gara.
E se Kopecky avesse marcato Kristen Faulkner, che aveva una gamba esagerata quel pomeriggio, nel finale corrida, quello sprint di Vos non sarebbe stato (solo) per l’argento.
Vos, anticipando lo stile di Pogačar, van der Poel, Van Aert, Evenepoel, caratterizza la corsa, non la subisce.
Al Giro 2013 ci arrivò reduce da una bronchite, sapeva bene di non avere la benzina per la generale.
Allora, nella tappa intorno al Parco Nazionale d’Abruzzo, in maglia rosa, decise di tirare il collo a tutte.
Scattò sul primo GPM, appena dopo la partenza, e proseguì in una discesa a tomba aperta.
Tiffany Cromwell, con un numero da circo, riuscì a unirsi: nemmeno il traguardo fosse dietro l’angolo, fecero su un Trofeo Baracchi o una sorta di Eddy Merckx-Gösta Pettersson ’72.
Il plotone, a pezzi, che rincorreva à bloc e le due, 30 secondi avanti, pancia a terra.
L’epilogo, straordinario, nella giornata che si avvistò pure un orso marsicano osservare le cicliste (sigh): l’australiana – sull’ottovolante – cadde, seguendo le acrobazie di Marianne.
Al Castello Pandone di Cerro al Volturno, 500 metri con un tratto al 20 percento sul porfido, la Vos giunse solitaria: 85 chilometri davanti, le velociste a mezz’ora.
Quasi tre ore di ciclismo totale.


Lo spartiacque fu il 2015, quando Vos pagò il biglietto di un’attività continua, snervante, folle.
Una costola rotta, il tendine del ginocchio e poi una sindrome da burnout.
Nel 2016 ricomparve, forte, fortissima, ma non più la stessa (belva) sulle salite lunghe e nel recupero.
Marianne declinante – nelle condizioni giuste – è ancora la numero uno.
Sparge estro e meraviglia: si nota meglio l’arsenale tecnico della campionissima.
A Vargarda – 2018 – fece l’ultima curva in testa, con tutte in scia: prese dieci metri al gruppo, disegnando una traiettoria da motociclista.
2019, La Course by Le Tour de France, si finiva a Pau, in cima a uno strappo.
Amanda Spratt che pareva imprendibile, l’accelerazione di Vos ai 400 metri dallo striscione, salendo Rue Mulot (al 17 percento), uno sparo.
Vinse per dispersione delle avversarie.
All’Amstel Gold Race di quest’anno, volatona di Lorena Wiebes che alza le braccia prima della fettina bianca.
Vos si materializza al suo fianco e, come in un gioco di prestigio, la batte con un colpo di reni – roba da Patrick Sercu – d’alta scuola.


Ogni tanto accade: oggi, nell’alveo dello sport femminile, Marianne Vos e Mikaela Shiffrin.
Andando a ritroso, come rigirare una pellicola nelle pizze del cinema, Kim Yuna, Lena Neuner, Martina Navratilova, Evelyn Ashford...
Dare l’impressione di appartenere a un’altra dimensione, quasi spazio-temporale.
Questa apologia della regina, della sua parabola esagerata, prossima all’epilogo, prova a cristallizzare un’eredità impossibile da raccogliere tutta.
Vent’anni così, di Marianne Vos, nell’illusione che sia eterna.
Chissà se ha già pensato a quando e come smetterà.
Una vita in bici, il suo giocattolo preferito, nel suo personalissimo caso un’estensione di sé.
Che andasse in Sri Lanka a fare l’ambasciatrice o in Bhutan a presenziare al matrimonio reale, le due ruote ci sono sempre.
Che organizzi una gara segreta (...) notturna coi colleghi, in una città dei Paesi Bassi, o si schieri a L’Eroica nel Chianti come un amatore qualsiasi, con una maglia di lana rossa e un trabiccolo degli anni ’70, la simbiosi col ciclismo è senza soluzione di continuità.
Ha traghettato il movimento nel professionismo, vero, con la sua classe in bici e il suo impegno da rappresentante, ambasciatrice, sindacalista, del ciclismo rosa. Se le colleghe più giovani hanno il (loro) Tour, il merito è di Vos, che convinse dell’investimento la ASO.
Una Billy Jean King delle due ruote, al di là delle vittorie in serie.
Sui tubeless (una volta avremmo scritto tubolari...), non sappiamo cosa rimanga da sommare a quella ridda di trofei e premi.
Forse una Parigi-Roubaix, lei che – si fosse corsa nel suo evo d’oro – ne avrebbe potuto vincere a iosa.
E’ stato un privilegio vederla, un unicum sportivo che ha stravolto i canoni, imponendone uno nuovo.

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