La storia in pugno


ALI-FOREMAN MITO SENZA FINE IL MONDO CAMBIÒ CINQUANT’ANNI FA

Il 30 ottobre l’anniversario del Mondiale dei massimi 1974: il primo in Africa, mise a confronto due idee di America
Ali, con la tattica di appoggiarsi alle corde, tolse tutte le energie a Foreman
Foreman certo non aveva la personalità del rivale e ne fu sovrastato

16 Oct 2024 - La Gazzetta dello Sport
di Riccardo Crivelli

The Rumble in the Jungle. Il terremoto (in realtà il rombo del tuono, ma anche la rissa di strada, ndr) nella giungla. Un ring. Due campioni. Una notte memorabile. Il 30 ottobre, saranno passati cinquant’anni dal Mondiale dei massimi tra Ali e Foreman a Kinshasa: non un semplice incontro di pugilato. Ma lo sport che si fa storia, cultura, messaggio planetario di riscatto sociale e presa di coscienza. Un giorno che rimarrà eterno.

La vigilia 

Nel 1974, il campione WBC dei pesi massimi è George Foreman. Nato in Texas nel 1949, da giovane deve fronteggiare molti problemi con la legge per il carattere violento e rissoso. La boxe lo salverà, come spesso accade. Alto 1,92, con un fisico impressionante, aveva vinto l’oro olimpico a Città del Messico e da professionista si confermerà una macchina da pugni circondandosi di un’aura di forza e imbattibilità che sembra quasi sovrumana. In gennaio la seconda sfida tra Ali e Frazier decide lo sfidante di "Big" George: ne esce vincitore Ali e a quel punto si prospetta uno degli incontri economicamente più ricchi, sportivamente più affascinanti e agonisticamente più attesi della storia. A sorpresa, la spunta un modesto manager di Cleveland, Don King, un ex galeotto, le cui caratteristiche principali sono la capigliatura incredibilmente elettrica e una risata tonitruante. Per ottenere l’organizzazione promette ai due pugili una borsa di cinque milioni di dollari a testa. Con un piccolo dettaglio: non li ha. Così cerca sponsor influenti fuori dagli Stati Uniti, fino a quando gli viene in aiuto Mobutu Sese Seko, spietato dittatore dello Zaire, in cerca di quella visibilità internazionale che gli permetta di presentarsi come padre nobile di una nazione che lui invece tiene sotto il duro giogo dell’oppressione. Per la prima volta un campionato del mondo dei massimi verrà ospitato dal continente africano. Una scelta che avrà una valenza storica e culturale di portata epocale. Le particolari condizioni climatiche e ambientali consigliano ai pugili di trascorrere gran parte dell’estate a Kinshasa per acclimatarsi: la sfida è fissata per il 25 settembre 1974, ma un infortunio di Foreman la posticipa di cinque settimane. E Ali le sfrutta per cominciare a costruire le fondamenta della sua strategia di comunicazione che demolirà le certezze di Foreman, il cui peccato originale, agli occhi della comunità afroamericana, è la sostanziale indifferenza alla lotta per l’integrazione razziale. Non appena sceso dall’aereo Ali, che invece è già un simbolo dopo la condanna per essersi rifiutato di andare in Vietnam, si fa portavoce della liberazione dell’Africa dal colonialismo e paladino dei diritti violati della gente di colore, trascinando tutta la popolazione dalla sua parte.

Il match 

Di più: fin dall’inizio, insegna alla gente un coro di poche parole ma dal significato secco e preciso, «Ali bomaye», «Ali uccidilo». Considerate le premesse, è ovvio che tra i centomila presenti allo stadio «20 maggio» il giorno del match il tifo si indirizzi a senso unico. Ma se la gente sta con Ali, i tecnici e i commentatori ritengono largamente favorito Foreman, imbattuto in 40 match con 37 KO. Si comincia alle quattro del mattino, per evitare il caldo torrido e consentire la diretta tv in prima serata negli Stati Uniti. Ali mette in atto una strategia semplice, sorprendente e al tempo stesso molto efficace, chiamata “Rope a Dope”. In pratica, con la guardia ben chiusa, si appoggia alle corde per attutire le bordate dell’avversario, che scarica le sue mazzate sulle braccia e al tronco, ma non trova mai la strada per entrare al volto. Mentre montano la rabbia e l’impotenza di George, che si sfianca in serie inutili, Muhammad assume pian piano il controllo fino al fatidico ottavo round. Là, un gancio sinistro di Ali solleva la testa di Foreman, un rapidissimo diretto destro lo centra alla mascella: l’uomo del Texas, che non aveva mai subito atterramenti, si ritrova al tappeto. Quando Foreman si rialza, l’arbitro ha già ultimato il conteggio fino a 10: i pesi massimi hanno un nuovo campione del mondo, Ali ha saputo trasformare un match di pugilato nella lotta etnica e politica tra il Bene e il Male, dimostrando tutta la sua grandezza di atleta e di uomo. E i centomila dello stadio, in un trionfo di danze tribali, cantano insieme «Ali bomaye».

***


Idolo - Muhammad Ali tra le strade di Kinshasa 
osannato dalla folla come il profeta dell’integrazione

L’INTERVISTA - Sturla 

«Mi è rimasto in testa il coro dei 100 mila: “Ali uccidilo”»

Il medico pavese è stato tra i pochi italiani presenti quella notte: «Fu estasi collettiva, evento epocale»

di Riccardo Crivelli

Lui c’era. Tra i centomila della notte magica di Kinshasa si muoveva anche un giovane dottore pavese, Mario Ireneo Sturla, classe 1948, oggi medico chirurgo e specialista in Medicina dello Sport di fama mondiale, grande esperto di nobile arte nonché presidente della Commissione Medica dell’Ebu, la federazione europea di boxe, e co-presidente della Commissione Medica Mondiale del Wbc. Uno dei pochissimi italiani che respirò dal vivo quell’atmosfera irripetibile. 

- Professor Sturla, ci racconti di quel suo viaggio nell’allora Zaire.

«Stavo facendo la specializzazione, ero già responsabile medico della scuderia di Umberto Branchini ma quella trasferta me la pagai io con i primi guadagni, da semplice appassionato di boxe, un amore che ho ereditato da mio padre».

- Qual è il suo primo ricordo dell’Africa?

«Ero già stato nel continente per lavoro, sfruttai l’amicizia con alcuni colleghi. Certo, i voli aerei non erano così frequenti e gli hotel accettabili erano ancora pochi, mio padre provò a fermarmi dicendo che il match l’avrebbero dato in tv e io gli risposi “Sì, ma il giorno dopo, non è la stessa cosa”. Più che altro, fui obbligato a fare avanti e indietro due volte, perché l’incontro, inizialmente fissato per la fine di settembre, slittò di un mese. Amplificando i miei timori: stavo aspettando la chiamata per il servizio militare, teoricamente non avrei potuto espatriare e infatti mi mossi quasi in incognito e non ho fotografie di quel giorno. Temevo di essere riconosciuto...».

- Se torna a quella notte di 50 anni fa, qual è la prima immagine che le si fissa nella mente?

«Più che un’immagine, è un suono: la cantilena ritmata dei centomila dello stadio che cantavano “Ali bomaye”. Cominciarono molto prima del match, che peraltro venne preceduto solo da un altro incontro, e continuarono anche dopo la fine, in un clima di estasi collettiva che aveva creato un’atmosfera quasi sciamanica».

- Un ambiente che esaltò Ali e depresse Foreman, che certo non possedeva la debordante personalità del rivale.

«Vero, dal punto di vista mentale non ci fu match, ma Foreman venne anche sfavorito dall’orario di inizio del match, le quattro di notte»

- Scelto per evitare l’umidità e il caldo e soprattutto per consentire la diretta in prima serata in America.

«Un orario insolito anche per uno sport “notturno” come la boxe, cui occorreva adattarsi. E Ali lo fece meglio di Foreman. A ogni modo durante il match cominciò a piovere, quindi l’umidità fu comunque un fattore e Muhammad, nonostante fosse di sette anni più vecchio, impose la sua migliore condizione fisica».

- Dal punto di vista tecnico, che match fu?

«Ali compì un capolavoro: grazie alla “Rope the dope”, la tecnica di appoggiarsi alle corde, fece stancare Foreman che non riuscì quasi mai a colpirlo al volto, e poi nell’ottavo round si avventò su un avversario ormai scarico». Ali si adattò meglio alle condizioni, fu più forte mentalmente e fisicamente: gli riuscì un capolavoro

- Lei che c’era: si capì subito che era andato in scena un evento capace di trascendere lo sport?

«Le dirò di più: lo si respirava già da prima. Camminavo per la strada i giorni precedenti il match e leggevo negli occhi della gente l’orgoglio di far parte di qualcosa che avrebbe riscritto la storia».

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Il documentario su quella notte Oscar nel 1997

The Rumbe in the Jungle è entrata presto nel mito. Nel 1976 Johnny Wakelin scala le classifiche mondiali con la canzone «In Zaire» dedicata a quella notte. Lo scrittore americano Norman Mailer, uno dei profeti della Beat Generation, seguirà passo passo l’avvicinamento al match e poi la sfida, raccontandoli nel libro «The Fight». Nel 1997 il documentario «Quando eravamo re» di Leon Gast, che attraverso interviste e filmati d’archivio ricostruisce quella sfida impossibile, vince l’Oscar e alla premiazione sarà proprio Foreman ad accompagnare Ali, ormai minato dal male, sul palco.

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