Quando Donald Trump organizzava corse in bicicletta
di MICHELE PELACCI
Ultimo Uomo - 07 nov 2024
Una storia breve e non particolarmente fortunata.
Una storia breve e non particolarmente fortunata.
«Come chiameresti una gara ciclistica che si snoda lungo la valle del fiume Hudson, rischia la vita tra i tossicodipendenti, i tagliagole, i saltatori a luci rosse, i briganti e i pazzi di New York City, poi si dirige verso la Pennsylvania, la Virginia, il Maryland e il Delaware prima di terminare nel cuore filantropico di Atlantic City? Si potrebbe chiamare Giro delle Colonie. Si potrebbe chiamare Tour dell’Est. Si potrebbe chiamare Tour del Medio Atlantico. Se si volesse essere solo leggermente pretenziosi, si potrebbe chiamare Tour de l’Est o Tour de Printemps. Lui lo chiama Tour de Trump».
Questo assurdo incipit, datato dicembre 1988, è uno dei primi pezzi del New York Times ad occuparsi dell’ultima iniziativa di Donald Trump. Pare voglia organizzare una corsa di biciclette. L’articolo s’intitola: «Will Donald now become a big wheel?» e ironizza sul fatto che big wheel è traducibile come pezzo grosso.
Un titolo del New York Times di allora.
Il ciclismo arriva a Trump per vie traverse. Un giovane inviato a seguire il Tour de France negli anni Ottanta per CBS, John Tesh, propose al ben più noto commentatore della stessa emittente Billy Packer di creare una cosa simile negli Stati Uniti. Oltre a essere un imprenditore, Packer fu per decenni una delle voci più riconoscibili del basket NCAA. La celeberrima finale del campionato collegiale americano tra la Michigan State di Magic Johnson e l’Indiana State di Larry Bird? C’è Billy Packer al commento. Per sua stessa ammissione, di ciclismo non sa «nulla, neanche come si gonfia una camera d’aria». Eppure, tra sé pensa: «Dannazione, il New Jersey ha diverse montagne, io ho molti interessi ad Atlantic City e i casinò potrebbero essere interessati a sponsorizzare l’evento».
Sebbene l’idea del nome della corsa sia di Packer, quando chiedono a Trump perché non lo chiama Tour of America, lui risponde: «Potremmo, se volessimo una gara meno riuscita. Se volessimo ridimensionarla».
Se c’è un’idea strampalata nell’aria, proposta da qualcuno che a malapena sa cosa sta dicendo, il Trump degli anni Ottanta è proprio il tipo che può dire “okay, buttiamoci milioni di dollari su sta cosa”. Un ex pattinatore su ghiaccio che lavorava nel comitato olimpico americano, Mike Plant, è la persona che gestisce per Trump e Packer gli aspetti più prettamente ciclistici. Per organizzare il primo Tour de Trump, ricorda Plant, partono talmente da zero che i primi acquisti furono «matite e penne, ma dopo siamo riusciti a fare un piccolo miracolo in sei mesi».
Trump non nasconde di essere totalmente estraneo al ciclismo: non pedala da quando ha «sette o otto anni» e si meraviglia della modernità delle bici contemporanee. Se ci fosse bisogno di un’ulteriore prova di quanto non gli piaccia il ciclismo, un’arringa del 2015 contro il Segretario di Stato John Kerry, che si rompe il femore pedalando tra la Svizzera e la Francia, è esemplare di una retorica che mette assieme di tutto e di più: «Impedirò all'Iran di dotarsi di armi nucleari. E non conteremo su un uomo come il Segretario Kerry, che sta facendo un accordo orribile e ridicolo, [...] e poi va a una gara di ciclismo a 72 anni, cade e si rompe una gamba. Io non lo farò. E prometto che non parteciperò mai a una gara ciclistica».
Nel 1988 Trump ha 42 anni, ha preso in mano la ricca società immobiliare di famiglia e si appresta a fare dentro-e-fuori dalla lista di Forbes degli uomini più ricchi del mondo. La presentazione del Tour de Trump (dieci tappe dal 5 al 14 maggio dell’anno successivo, un montepremi totale da $250,000 che fa vacillare alcuni corridori dall’andare alla Vuelta a España, la co-sponsorizzazione di NBC, distribuzione in oltre cento Paesi, aperto sia ad amatori che a professionisti) avviene al Plaza Hotel, uno dei più famosi alberghi di Manhattan. Trump lo aveva acquistato pochi mesi prima grazie a oltre $400 milioni prestati da svariate banche.
Foto: John Pierce | PhotoSport.
Una delle stelle della corsa è Alexi Grewal, da Aspen, Colorado, che vinse la medaglia d’oro a Los Angeles ‘84. «Il ciclismo combina l’atletismo puro dei giocatori di basket con l’autocontrollo dei golfisti. Ha più tattiche di quelle usate dalla maggior parte dei giocatori di calcio e i ciclisti hanno la forma fisica dei maratoneti. Ed è potenzialmente fatale in qualsiasi momento» afferma Grewal alla presentazione del primo Tour de Trump.
La corsa dev’essere, fin dalla prima edizione, l’evento ciclistico più sfavillante d’America. Un’importante corsa a tappe negli Stati Uniti c’era già, si svolge soprattutto a ovest (Colorado, Wyoming e stati confinanti) ed è sponsorizzata da una birra: nel 1986 la Coors Classic fu dominata dagli stessi due compagni di squadra che trionfarono al Tour de France, Bernard Hinault e Greg LeMond. Il californiano due volte campione del mondo è la stella più luminosa di una generazione notevole: a LeMond e Grewal si aggiungono Andrew Hampsten (vincitore del Giro d’Italia 1988), Ron Kiefel (nel 1985 vince una tappa al Giro e il Trofeo Laigueglia), Jeff Pierce (tappa al Tour), Davis Phinney, padre di Taylor e vincitore di due tappe al Tour.
Al via del primo Tour de Trump ci sono otto squadre professionistiche, undici dilettantistiche (tra queste la Sauna Diana, sponsorizzata da un locale a luci rosse di Amsterdam) e pure LeMond. Alcuni dei suoi rivali più quotati in questa corsa, Steven Rooks, Eric Vanderaerden e Viatcheslav Ekimov, «non sono conosciuti qui» ammettono i giornali. Il percorso è piuttosto vario: prologo a crono, sei tappe in linea poi altra crono. Segue una tappa con secondi di bonus sul circuito di 6,7 chilometri ad Arlington (VA), un criterium nel circuito della zona portuale di Baltimora e una terza cronometro con partenza da Atlantic City – la città che forse meglio di tutte ne rappresenta la ricchezza e al contempo la decadenza – e arrivo davanti al Trump Plaza hotel.
Merita una parentesi la piccola storia esemplare della tappa nel porto di Baltimora. Un piccolo ricatto tra ricchi, in sostanza. L’imprenditore locale Frank Joe DeFrancis farà in modo di concedere i permessi alla corsa se lo yacht “Princess” rimane ormeggiato nel porto di Baltimora finché la corsa è in città. La barca di Trump in quegli anni è la terza più grande del mondo, è lunga 85 metri, la fece costruire Adnan Khashoggi e Trump la comprò dal sultano del Brunei. Che se ne stia pure nel porto di Baltimora, per qualche ora.
Proteste contro il Tour de Trump e la sua megalomania a New Paltz,
durante il Tour de Trump 1989. Foto: Kevin Hogan | Politico.
Trump assicura che il suo finanziamento di $750,000 è rientrato («e pure qualcosa di più») ancor prima dell’inizio della corsa. Grazie a 19 sponsor (tra cui Gatorade, BMW, Nike, Hewlett-Packard, Domino’s Pizza) e dieci fornitori, il Tour de Trump sembra partire col piede giusto. La produzione di NBC Sports è mastodontica: sette tra telecronisti e inviati per produrre interviste, video, servizi in loco; oltre sei ore al giorno di copertura televisiva live a livello nazionale, più di quanto NBC offra per il Tour de France. D’altronde «sono una persona istintiva, le cose migliori le faccio quando seguo il mio istinto» disse Trump. Alla vigilia della corsa, Trump chiede a Greg LeMond se sia amico o no coi suoi rivali, quei ragazzi che deve battere sui pedali. LeMond annuisce. «Mai accaduta questa cosa nella vita» risponde Trump.
Certo, le assurdità abbondano. Una pioggia torrenziale accompagna i corridori nel prologo ad Albany, la prima tappa in linea fece scalpore perché vinta da Ekimov e quindi risuona l’inno sovietico, pur essendo una corsa ispirata al Tour de France la maglia di leader è rosa brillante. Un altro articolo del NYT riporta una frase del democratico Mario Cuomo, all’epoca Governatore dello Stato di New York, mentre con Trump si gode il passaggio dei corridori a Manhattan: «Quando ti candidi hai bisogno di due cose: un kit per il trucco e una conversazione con Donald Trump su come entrare nei giornali».
Greg LeMond non sta bene, gambe vuote e stomaco sottosopra. Grewal peggio. Il primo americano a vincere una tappa è Davis Phinney, l’ottava. Di quel giorno esiste un resoconto di Phinney stesso: «La prima cosa che il governatore [Mario] Cuomo mi ha chiesto è stata quanto pesassi. Ora, i ciclisti non sono tipicamente minuscoli come i ginnasti, ma una cosa è certa: siamo piccoli per gli standard di una nazione abituata con i linebacker».
Il finale della prima edizione del Tour of Trump è tutto un programma. Il ciclista più forte è Eric Vanderaerden, belga vincitore di un Giro delle Fiandre e di una Parigi-Roubaix, ma nella cronometro finale sbaglia strada e a spuntarla è l’ex paracadutista Dag Otto Lauritzen. Il norvegese assicura che nessun imbroglio è stato perpetrato, il belga recrimina. Un altro ciclista, l’olandese Gert-jan Theunisse, ricorda che un suo compagno di squadra si perde due volte perché gli steward danno indicazioni alle macchine anziché ai ciclisti. Primo vincitore del Tour of Trump, quindi, Lauritzen. Corre nell’americana 7-Eleven con Phinney, che lo definisce «l’epitome dello stoico dio norreno».
Trump e i ciclisti del Tour de Trump.
Si nota Lauritzen, “race champion”.
Subito dopo la prima edizione, il direttore di corsa Mike Plant è entusiasta: «Siamo già una corsa grossa, e diventeremo ancora più importanti». Trump aggiunge: «Abbiamo già ricevuto telefonate dalle città più grosse della costa est, l’anno prossimo potremmo raggiungere Boston, Philadelphia o Washington, o andare da costa a costa». Già pochi mesi dopo, nel lanciare la seconda edizione, Trump ci va più piano: «in quattro o cinque anni» arriveremo da New York a Los Angeles.
Effettivamente, pur toccando solo Boston come nuova grande città, il Tour de Trump cresce nella seconda edizione: dodici giorni di corsa, due semi-tappe, una frazione molto dura sui monti Catskill. Mentre i suoi affari scricchiolano, Trump raddoppia, con la stessa retorica piatta che abbiamo imparato a conoscere: «Sento che quando lego il mio nome a qualcosa, devo fare in modo che questa cosa abbia successo. Il mio nome è probabilmente la mia più grande risorsa e io ho delle belle risorse». Fa anche spedire, dai suoi avvocati, una lettera agli organizzatori della corsetta locale del Tour de Rump, ad Aspen, Colorado, intimando loro di cambiare nome. Essendo nata un anno prima del Tour de Trump, la corsa risponde picche. Esiste ancora oggi.
Per il secondo anno di fila, LeMond non è in forma. Il grande favorito sembra Viatcheslav Ekimov, appena diventato professionista per la cifra record di mezzo milione a stagione. Una descrizione del nativo di Vyborg forse ne esagera la polivalenza: «Immaginate Carl Lewis che vince una gara su strada, poi i 100 metri piani, poi la maratona di New York, e avrete un’idea delle possibilità e delle ambizioni di Ekimov».
Alla presentazione dell’edizione 1990 Trump arriva in elicottero, atterrando sul tetto del DuPont Plaza di Wilmington, Delaware. Era a Tokyo, in Giappone, occupato in un’altra delle sue tante passioni sportive, la boxe: incredibilmente Mike Tyson perse il titolo dei pesi massimi contro Buster Douglas. Scende dall’elicottero, annuncia che il suo matrimonio con Ivana sta per finire, appena vede Billy Packer gli dice: «So come attirare la folla, eh?».
via timesmachine.nytimes.com.
È la terza tappa a scombussolare inaspettatamente la classifica generale. Una fuga bidone prende fino a dodici minuti sul gruppo, e arriva al traguardo. La compongono tre dilettanti poco considerati. Il primo è Thierry Bock, una vittoria al Giro di Svizzera; il secondo è Mike McCarthy, del quale sappiamo l’apporto calorico in quella giornata. Se non ti interessa skippa pure al prossimo paragrafo. Colazione a base di succo d’arancia, succo di mela, french toast, due once di sciroppo, patate rosolate, polenta e melone. Durante la corsa: tre barrette energetiche Fin-Halsa, una mela sbucciata, due bottiglie d’acqua e una di Gatorade. Merenda, diciamo, con roast beef su pane di segale, insalata di patate, insalata verde, due biscotti al cioccolato e una Pepsi-Cola. La cena, poi, quella classica del corridore: tre pinte di acqua, zuppa di cipolle, insalata, parmigiana di vitello e ziti al forno. Infine, spuntino di mezzanotte con altri biscotti e la terza bottiglia da mezzo litro di Gatorade.
Il terzo membro della fuga bidone è quello che vince la tappa e si ritrova un considerevole vantaggio in classifica generale: è Vladislav Bobrik, corre per la squadra amatoriale sovietica ed è nato a Novosibirsk. Alla prima vittoria da professionista, Bobrik in carriera vincerà, tra le altre cose, anche il Giro di Lombardia ‘94.
Dopo questo acuto, la seconda edizione del Tour de Trump procede placida. LeMond viene penalizzato due volte di 30” per non essersi presentato al foglio firma. Uno dei corridori più in forma, Steve Bauer, cade su delle rotaie, deve cambiare la bici ma è quella di scorta è inadeguata, e perde un’eternità. Il newyorkese Mike McCarthy, quello della parmigiana di vitello, prima della tappa di casa afferma che «preferirei vincere a Central Park che al Tour de France». Dopo la tappa di casa, in cui arriva terzo, si dice «un po’ deluso, questi erano i miei Mondiali».
Il leader della classifica generale cambia alla penultima tappa, sui monti Catskill. Sui tre chilometri al 10,9% medio di Devil’s Kitchen, il messicano Raul Alcalá fa la differenza. Non solo vince la tappa e la classifica generale del Tour de Trump, ma partecipa al Tour de France pensando di poter vincere pure quello. Non ci va poi così lontano: ottavo con una vittoria di tappa. Quella Grand Boucle è vinta nientemeno che da Greg LeMond, tornato in forma dopo mesi passati tra eventi di sponsor e kermesse varie. Lui stesse ammette: «Per tutto l’inverno la gente mi ha lanciato soldi, centinaia di migliaia di dollari. Cosa avrei dovuto dire, di no?».
Raul Alcala e Greg LeMond al Tour de Trump 1990.
Foto: Don Emmert | Getty Images.
Alla fine della seconda edizione, organizzare il Tour de Trump costa $5 milioni e non è facile coprire tutte le spese. Nonostante sia la corsa a tappe più in vista d’America, non è ancora in grado di attirare grandi nomi da oltreoceano. Mike Plant è frustrato: «Stiamo ancora facendo capire alla gente che si tratta di un evento sportivo grandioso. Ci sono quattro gare professionistiche negli Stati Uniti e più di duemila in Europa». Ostacoli organizzativi quali spostamenti lunghi, percorsi assurdi e fondo stradale non manutenuto sono alcuni problemi citati spesso dai corridori.
Eppure il Tour de Trump è visto come un’occasione, specie dai nordamericani. Il direttore sportivo della 7-Eleven Jim Ochowicz è sicuro che «grazie al Tour de Trump i ragazzi possono leggere di atleti americani che guadagnano cifre a sette zeri e pensare che da grandi potranno farlo anche nel ciclismo e in altri sport». Le finanze di Trump, però, si mettono male: due suoi hotel-casinò di Atlantic City falliscono, il suo impero immobiliare ha basi solide come la Parmalat, perde $250 milioni l’anno, arriva molto vicino alla bancarotta. La corsa va avanti solo grazie a uno sponsor che collaborava con LeMond, aveva una squadrina piccola, e ora vuole investire davvero nel ciclismo: il colosso chimico DuPont.
Il nome stesso della corsa diventa il Tour DuPont, Donald Trump esce da questa storia e quindi anche questo pezzo volge al termine. «Ammiro ciò che ha fatto» ricorda Billy Packer, pur ammettendo che la sua personalità larger than life ha contribuito a togliere attenzioni dalla corsa. «È così popolare che mette in ombra il ciclismo».
Due ciclisti del Team Eurocar-Mosoca-Galli al Tour de Trump 1989,
forse Matt Eaton e Jeff Rutter. Foto: Bob Mical.
Com’era correre, in quegli anni? Se ciclisti italiani partecipano fin dalle prime edizioni del Tour de Trump ma non è facile risalire a chi siano di preciso (startlist complete non se ne trovano), è certo che nel 1995 al Tour DuPont ci sia Angelo Citracca. L’ex general manager della Vini Zabù ha memoria di cosa volesse dire correre in quell’America: «Nelle varie cittadine in cui entra la corsa ricordo il puzzo di cibo americano, sai, uovo, pancetta cotta?».
L’edizione a cui partecipa Citracca è la prima di due consecutive vinte da un Lance Armstrong, già campione del mondo, non ancora corridore da corse a tappe: «Arriva con tutto lo squadrone, ricordo che andava come il vento. Io volevo entrare nella top-10, perché sennò [Bruno] Reverberi non mi avrebbe portato al Giro d’Italia. Non ci riesco, per poco, per colpa di una cronometro finale lunghissima: vialoni lunghissimi e controvento, non passava mai». A quel Giro d’Italia va lo stesso. A un certo punto la moglie gli suggerisce un ricordo: «È vero, partii per l’America con un solo paio di pantaloncini. Feci tutta la corsa senza mai cambiarli».
Cosa rimane, oggi, del Tour de Trump? Non molto a dire il vero. Quel ragazzo dei due Tour DuPont consecutivi, Armstrong, vince anche gli ultimi due Tour DuPont. La corsa sparisce nel 1996, tra gli scandali: l’erede dell’impero chimico, John, uccide con tre colpi di pistola il lottatore Dave Schultz. Di grandi appuntamenti ciclistici negli Stati Uniti se ne vedono sempre meno. Un Mondiale (Richmond 2015), un’altra corsa a tappe sparita (il Tour of California, che però ha fatto in tempo ad essere la prima corsa a tappe di livello World Tour nel palmarès di Tadej Pogačar) e tanti giovani talenti che devono andare a vivere in Europa molto presto.
Un ottimo riassunto di cosa sono stati i due anni di quel baraccone del Tour de Trump lo fa il giornalista Ed Swift di Sports Illustrated: «Se riuscite a farvi una ragione del cognome per il quale la corsa è conosciuta senza perdere l’appetito e se riuscite a separare l’aspetto prettamente sportivo dagli eccessi del suo magnate – come ad esempio l’idea di percorrere alcuni giri intorno alla Casa Bianca –, quello che rimane è una bella corsa di biciclette».
Michele Pelacci nasce a Parma nell’anno della doppietta Giro-Tour di Pantani. Scrive di ciclismo per Alvento e traccia percorsi per Komoot. Ritiene la Milano-Sanremo una corsa perfetta.
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