Solo chi Cadel può risorgere

di Simone Basso, Il Giornale del Popolo

A Como, la domenica dell’ultimo monumento stagionale, il Lombardia, Cadel Evans si è presentato con Robel, il figlio di quattro anni: voleva portarlo almeno una volta, l’ultima, a fargli vedere il mestiere del babbo. Che, per l’epilogo della sua carriera in Europa, aveva scritto «grazie» (in italiano) sul nastro che incolla il radiomicrofono all’orecchio. Sia alla partenza che all’arrivo, in quel di Bergamo, l’emozione di tutti - non solamente la sua - era palpabile.
Evans chiuderà con l’agonismo, definitivamente, correndo il primo febbraio, nel 2015, la Great Ocean Race; una gara che sarà battezzata col suo nome. Quello di un ciclista che è diventato una leggenda.

«È stato un viaggio fantastico, qualcosa che non avrei mai potuto immaginare quando ho iniziato ad andare in bicicletta sulle strade sterrate...».

Cadel è cresciuto in un luogo sperduto, nella comunità aborigena di Barunga, a un’ottantina di chilometri da Katherine. A sette anni rischiò la pellaccia: scalciato da un cavallo, rimase sei giorni in coma farmacologico. L’approccio allo sport fu naturale, quasi quanto casuale è stato il suo scoprirsi campione. Nelle ruote grasse bruciò le tappe: due Coppe del Mondo (1998 e 1999) giovanissimo (a 21 e 22 anni) e poi l’infatuazione decisiva per la strada.
Esordì in Saeco ma divenne Cadel alla Mapei, la squadra che mai avrebbe lasciato se non avesse chiuso i battenti. Era un evo di transizione, complesso e tempestoso. Anticipando i tempi lo portarono al Giro 2002 per testarlo sulle tre settimane, lui “pane e acqua” in mezzo a un discreto campionario di robosport. Arrivò in maglia rosa ai piedi dell’ultima salita della corsa, il Passo Coè, e scoppiò. Una crisi spaventosa e commovente. Diciassette minuti di ritardo e la promessa di riprovarci.
Aldo Sassi sosteneva che, nella sua carriera di allenatore, non si era mai imbattuto in un atleta con la resistenza organica di Cadel. Da vero signore disse che - in un ciclismo normale - Evans si sarebbe giocato il Tour contro gli Armstrong del momento. 

«Negli anni bui, come atleta, non potevo arrabbiarmi. Continuavo a lavorare, accettando la situazione com’era, ma sono sempre andato avanti con il mio passo. Con orgoglio». 

In una frazione di quelle Grande Boucle andò in fuga, sfuggendo per un pò al volere della US Postal di Darth Vader: al traguardo Lance, maglia gialla oggi estinta, per prenderlo in giro si complimentò. Ma dove vuoi andare piccolo aussie?
Per qualche stagione sembrò Paperino, simpatico e sfortunato. Nel 2007 perse il Tour per appena 23 secondi. Alla Vuelta 2009, salendo l’Alto de Monachil, gli si ruppe il cambio della bici e senza l’ammiraglia dietro... Di sicuro, mentre implorava aiuto, smarrì più di un minuto; certamente il 1’32’’ che lo separò - a Madrid - dall’amarillo di Valverde. Al Tour 2010, in giallo, cadde: chiuse la tappa in lacrime e con un gomito rotto. Ma non pensiate che se ne sia andato a casa... Stoico, proseguì fino ai Campi Elisi.

«Io, per principio, non mi ritiro. Io, sulla bici, piuttosto ci muoio. Se parto, voglio sempre arrivare. Meglio primo. Ma piuttosto ultimo».

Evans è apolide per scelta, vive a Stabio con la moglie Chiara, insegnante di musica. Timido ma tosto, provvisto di un’autoironia rassicurante, difficilmente lo sentirete dire cose banali. Per esempio, ha sposato la causa tibetana.

«Non voglio che sia distrutta un’altra cultura, un’altra civiltà, come è avvenuto con gli aborigeni in Australia».

Il caso non esiste, è il caos che regola le nostre esistenze. A Mendrisio, proprio nel Ticino che lo ha adottato, mise assieme il capolavoro della carriera. Opposto al miglior Cancellara di sempre, il primo Gilbert e l’ultimo Cunego. E la solita, tragicomica, faida spagnola. Colse l’attimo perfetto e volò verso l’iride.

«Il momento più bello della mia carriera sono stati gli ultimi chilometri del Mondiale 2009, correvo verso casa e avevo il mondo dietro di me». 

La leggenda di Cadel Evans sta tutta nel suo magico 2011. Vinse la Tirreno Adriatico, il (secondo) Romandia e disputò un gran Dauphiné Libéré. Il Tour se lo giocò il pomeriggio dell’Izoard, quando Andy Schleck - fiutando l’impresa - evase dal plotoncino dei ras. Sfruttando la littorina Monfort, fece il numero della vita tra la Valle della Guisane e il Galibier. Non avremmo più rivisto il lussemburghese a quei livelli: crudele che i due, divisi da ben otto anni di differenza, abbiano annunciato il ritiro nello stesso periodo.
Evans, capendo che non c’era più margine, improvvisò una cronoscalata per rosicchiare, chilometro dopo chilometro, il vantaggio del fuggitivo. La rincorsa, straordinaria, gli permise pure di “finire” Contador e Samu Sanchez. Con quei novemila metri a perdifiato Evans, in cima al mostro alpino, si mise in tasca la Festa di Luglio.
Fu una vittoria di portata storica per l’intero sport australiano, avvicinabile all’America’s Cup 1983. Quando vedemmo Cadel sul podio più alto, agli Champs-Elysées, capimmo che il ciclismo - Araba fenice - era sopravvissuto alle follie dei Novanta e di Epolandia. E che ne era valsa la pena percorrere tutta quella strada irta, dolorosa, un’anabasi.

«Combattere contro tutti gli aspetti negativi del nostro sport è qualcosa che va oltre. Altri sport dovrebbero vedere che cosa abbiamo fatto noi del ciclismo 
e alzarsi al nostro stesso livello». 

Il 2014 di Evans è stato fiero e degno della sua fama. Ha vinto il Trentino, indossando la maglia rosa al Giro dodici anni dopo la vernice (e la cotta) verso Folgaria. Nello Utah - d’estate - si è imposto in bello stile in un paio di occasioni: la seconda con un colpo da maestro, piombando come un falco sugli avversari e dipingendo la traiettoria del curvone che precedeva il traguardo.
A proposito di discese: ha capito di aver quasi finito il fuoco agonistico scendendo, al Giro, dal Passo dello Stelvio. Il dì della Val Martello, con la neve e il gelo che rendevano difficili (e pericolose) persino le cose più banali. Aveva paura: nella bufera pensava alla famiglia, a Robel. Giusto allora lasciare, senza rimpianti. Diventerà ambasciatore della BMC, il marchio che lui - con le sue gesta - ha reso famoso.

«Devo dire grazie alla mia famiglia e agli amici, allenatori e mentori, squadre e compagni di squadra, ai tifosi e a tutte le persone che in ogni angolo del mondo sanno apprezzare una pedalata in bicicletta...».

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