FOOTBALL PORTRAITS - Hoeneß, da Patriarca a santo peccatore



di Christian Giordano, Ultimo Uomo

Martedì 11 marzo 2014, Hoeneß era soltanto il presidentissimo che dai VIP boxes della Allianz Arena applaudiva in piedi l’1-1 con cui il suo Bayern, dopo lo 0-2 dell’Emirates, aveva appena eliminato l’Arsenal negli ottavi di finale di Champions League. Giovedì 13, in un’aula di tribunale a Monaco, era anche e soprattutto l’imputato eccellente che ascoltava seduto in silenzio la sentenza di condanna a trentasei mesi di prigione. «La più lunga squalifica nella storia della Bundesliga», twitterà il blogger Daniel Mack, ex parlamentare dei verdi tedeschi. Bild, il tabloid più venduto nel paese, scriverà invece di verdetto «amaro per Hoeneß ma dolce per la giustizia fiscale». Per Herr Uli, più semplicemente, erano le «conseguenze da accettare» del «più grande errore della mia vita». 

La vita da predestinato del Patriarca del Bayern. E da lì il santo peccatore del fussball tedesco.

Secondo la ricostruzione fatta da Nathalie Versieux, corrispondente da Berlino del quotidiano francese Libération, tutto era cominciato nel 2000, allo scoppio della prima bolla speculativa del terzo millennio. Giocatore di borsa incallito, Hoeneß aveva nascosto in un conto off-shore svizzero parte dei redditi provenienti dalle sue transazioni sul mercato azionario. Redditi mai dichiarati e sui quali, quindi, non aveva pagato le tasse.

http://www.liberation.fr/sports/2014/03/07/uli-Hoeneß-dans-la-nasse-fiscale_985344

Tra il 2003 e il 2010 Hoeneß aveva realizzato una trentina di milioni, ma per via di speculazioni sbagliate avrebbe dovuto versare al fisco tedesco “soltanto” 3,5 milioni. Il problema, per i super evasori tedeschi, è che dal 2008 l’Alta Corte Federale vieta ai tribunali nazionali la sospensione della sentenza in casi di frode fiscale oltre il milione di euro. Il rischio, più che concreto, era quindi non solo di andare a processo – poi iniziato il 10 marzo – ma di finire in prigione.

Per evitare entrambi Hoeneß, come migliaia di suoi connazionali, sperava di mettersi in regola rilasciando una «dichiarazione spontanea», versando il 6% d’interessi sulle imposte non pagate e magari cavandosela con l’anonimato grazie al cosiddetto “accordo Rubik” – allora in negoziazione – tra la Svizzera e la Germania sul rientro dei capitali. Hoeneß in realtà già prima di Natale voleva rivolgersi alle autorità fiscali, ma il suo commercialista era andato in ferie per due settimane e così tutto era stato rimandato al nuovo anno.

Il 18 gennaio, Uli aveva versato all’erario un iniziale conguaglio di 10 milioni. Nelle carte però qualcosa non quadrava. La dichiarazione spontanea, peraltro incompleta, era stata stesa in modo sciatto, e in varie annate riportava ricavi e perdite al netto delle transazioni sui mercati azionari e valutari, il che non è consentito. «Un errore da principiante», aveva commentato su Stern – protetto dall’anonimato – un legale di Monaco specialista in criminalità fiscale.

http://www.spiegel.de/international/germany/bayern-president-uli-hoeness-may-end-up-in-jail-for-tax-evasion-a-897474.html

Avendo chiuso in negativo per un paio di esercizi, quelle perdite Hoeneß (o chi per lui) le aveva inserite a bilancio. E neanche questo è permesso. Non sorprende quindi che il fisco ne avesse rigettata la dichiarazione, ritenuta insufficiente e non conforme. Trasferito il dossier all’ufficio del procuratore di Monaco, il primo febbraio 2013 era così scattata l’indagine per sospetta evasione fiscale. Arrestato, e subito liberato su cauzione (da 5 milioni), Hoeneß aveva rivisto la propria dichiarazione, giudicata ora plausibile ma ancora non sufficientemente dettagliata. I procuratori si erano detti soddisfatti, ma essa ormai non aveva più alcuna influenza sull’eventuale immunità rispetto al procedimento giudiziario. Stando alla procura, Hoeneß aveva evaso le tasse per 3,2 milioni di euro, prontamente saldati all’erario dopo i 10 versati al momento dell’autodenuncia e prima dei 30 pagati come secondo conguaglio l’estate successiva. Adesso però gli inquirenti volevano sapere anche perché cifre tanto ingenti erano state depositate in quel conto svizzero. Per esempio: in solo una transazione valutaria, oltre 20 milioni. Motivi che Hoeneß mai ha spiegato.

A quel punto lo scandalo era già di pubblico dominio. E il paese, come sempre per le cose bavaresi, si era spaccato. Al sud, specie per chi tifa Bayern, si trattava di una leggerezza; per qualcuno del mestiere, persino del «classico errore da principiante». Al nord, per chi il Bayern e la ricca Baviera mal li sopporta, si invocava invece l’ancor più classica pena esemplare. È finita invece alla tedesca: tardiva ammissione di colpa del reprobo, redenzione senza sconti e con certezza della pena, successiva riconciliazione fra il mito rivelatosi fin troppo umano e il popolo, tornato a dividersi secondo tifo e/o convenienza.

SPECCHIO DELLE SUE BRAME

Oltre a quella di frode fiscale, Hoeneß doveva affrontare altre accuse. Corruzione in transizioni d’affari, per dirne una. Perché mai, si chiedevano gli investigatori, e con loro il pool di dieci-cronisti investigativi-dieci sguinzagliati dal settimanale Der Spiegel (lo Specchio), Louis-Dreyfus gli aveva prestato, senza interessi, milioni e milioni da giocare in borsa? Erano forse un incentivo per il rinnovo della sponsorizzazione fra adidas e Bayern? Accordo difatti poi prolungato nel settembre 2001, nonostante la Nike fosse disposta a offrire molto di più rispetto al concorrente.

Del resto, stando a Der Spiegel, non si trattava certo del primo affare sospetto concluso tra la multinazionale tedesca e il club bavarese. Quella stessa primavera, il Bayern stava negoziando il trasferimento di Claudio Pizarro del Werder Brema. Sulla scia dei 19 gol segnati la stagione precedente, l’attaccante peruviano e il suo manager avevano sparato alto: 7 milioni di dollari netti per quattro anni, più 8 netti di bonus. Il Bayern così tanto non voleva spendere, e così subentrò lo sponsor tecnico. Pizarro firmò con loro un contratto pubblicitario di otto anni per un valore di 21,6 milioni di dollari; che, tolte le tasse, facevano 8 milioni netti. A margine dell’accordo c’era una scrittura confidenziale («due originali, niente copie») nella quale era il club a garantire quel bonus.

LE SUE PRIGIONI

Si è molto chiacchierato anche sulla «prigionia all’acqua di rose» e sui presunti trattamenti di favore che a un personaggio così noto e potente sarebbero stati riservati al Landsberg. Il carcere in cui Adolf Hitler (ma in un’altra ala) aveva dettato al compagno di cella Rudolf Hess la prima parte del Mein Kampf. Come rivelato dall’edizione tedesca della rivista Focus, nel fondato timore che le guardie passassero ai media informazioni e/o immagini riservate, Hoeneß aveva fatto preventiva richiesta di trasferimento, ma era stata respinta. Accolta invece, dopo sette mesi di detenzione, quella per la semilibertà. 

Secondo il Süddeutsche Zeitung – quotidiano liberal di Monaco che vende 430 mila copie e attento ai temi sociali – grazie a un permesso speciale Natale e capodanno Hoeneß li aveva trascorsi in famiglia, dormendo nel suo letto per la prima volta dal 2 giugno e concedendosi spiragli di vita “normale” come fare jogging al parco con la moglie Susi e il loro labrador Kuno. Poi, dal 7 gennaio, due giorni dopo il suo 63esimo compleanno, un’auto lo avrebbe prelevato dal carcere e portato al centro sportivo del Bayern. La sera il tragitto opposto – un’ottantina di km tra andata e ritorno – dopo una giornata di lavoro da supervisore del vivaio: Assistent der Abteilungsleitung Junior Team, assistente del Direttore delle giovanili, l’incarico ufficiale. «Era il suo desiderio lavorare con i giovani» spiega Karl Hopfner, suo successore alla presidenza.

Prima di ottenere la semilibertà, Uli si era occupato della distribuzione delle divise ai carcerati: un lavoro da 7 ore il giorno per 1,12 euro l’ora. E aveva perso una ventina di chili. «Non era così magro dalla vittoria al mondiale ’74», la battutona del medico della prigione. Vero è, invece, che dopo le prime due settimane, «per ragioni mediche» e adattarsi alla vita dietro le sbarre, Hoeneß era stato messo in una cella doppia «più grande» prima di essere trasferito in una singola.

Quanto alla sua condizione di detenuto eccellente, Uli correva in realtà più rischi degli altri reclusi. E difatti aveva sporto denuncia alla polizia bavarese dopo aver ricevuto una lettera anonima di minacce: se non avesse pagato 200 mila euro – scrisse Bild –, una volta in gabbia Hoeneß sarebbe incorso in «serie difficoltà». Che si trattasse di un mitomane o di un balordo era parso subito chiaro. All’appuntamento per ritirare i soldi, si presentò un 50enne in bicicletta che fu arrestato da agenti in borghese. «Caduto durante la tentata fuga», l’estorsore finirà in ospedale per accertamenti.

«IL SUO TAMAGOTCHI»

Al processo, nella sua arringa anche mediatica il legale di Uli, Hanns Feigen, aveva puntato molto sulle cause sociali cui l’ex presidente del Bayern da sempre si è dedicato. Hoeneß, infatti, era riuscito a fare del Bayern il club più ricco e più vincente di Germania senza però fargli perdere quell’atmosfera da attività familiare. Oltre all’ostilità delle altre tifoserie però, “pagava” anche l’immagine virtuosa che si era costruita in quasi mezzo secolo da protagonista del calcio tedesco. 

Inevitabili quindi che qualcuno gli rinfacciasse certe esternazioni. «So che è stupido, ma io le mie tasse le pago tutte», aveva dichiarato al Bild nel 2005, tre anni dopo aver detto che «non ha alcun senso finire in prigione per pochi euro di tasse». Mentre al magazine economico Brandeins nel 2012 aveva dichiarato: «Certo che inseguo il successo, ma non a qualunque prezzo. Sono solo soldi, deve esserci un punto in cui ti devi sentire soddisfatto».

Dal 2001 al 2010 Hoeneß aveva fatto oltre 50 mila transazioni sul mercato azionario. Ormai a livelli di dipendenza compulsiva, spiegabile forse solo con la Teoria dei giochi, Uli viveva attaccato al suo pager, spesso persino durante le partite, in riunione e nelle lunghe nottate insonni negli hotel superlusso durante le trasferte con la squadra. Quale che fosse l’aggeggio tecnologico del momento, dai colleghi al Bayern era stato ribattezzato «il suo Tamagotchi». 

E a esplicita domanda se giocare in borsa gli avesse dato dipendenza, Hoeneß a Die Zeit rispose: «Non mi considero un malato se è questo che intende. Forse ci sono andato vicino per un paio d’anni ma oggi mi ritengo guarito». Su questo, però, i parenti dissentono. Specie il figlio 34enne, Florian, che in famiglia conta: esperto bancario, gestisce lui il salumificio HoWe Wurstwaren, nato a Norimberga dall’ex macelleria del nonno Erwin e che oggi dà lavoro a 350 persone e produce 150 mila insaccati per un totale di 10.000 tonnellate il giorno. Lo slogan è «Es kann nur eine schmecken»: puoi assaggiarli, ma solo uno per volta.

Come il fratello anche Sabine – a curriculum un dottorato nel Land del Baden-Württemberg e un’esperienza lavorativa nel Bayern – è legatissima al padre, cui nel 2014 ha regalato un nipotino. Gli Hoeneß sono la classifica famiglia borghese tedesca – quasi un clan – che però ha rischiato di disgregarsi quando, nel 1996, Uli ebbe una relazione, divenuta pubblica, con una hostess. In pieno stile-Hoeneß, la risposta di Susi a un giornalista che la incalzava su cosa avesse detto al marito una volta scoperto che lui, il patriarca, la tradiva: «Il sesso è stato bello? Buon per te».

IL PATRIARCA

E proprio Der Patriarch è il titolo del biografico doku-drama di quasi 90’ della ZDF, diretto da Christian Twente, che in Germania ha raccolto più critiche che consensi. «Ben recitata ma inverosimile» la recensione più benevola sulla fiction che ha per protagonisti i credibili Thomas Thieme e, per gli anni giovanili, Robert Stadlober. E che si è avvalsa della consulenza di una dozzina di persone che al Patriarca sono state vicine: cronisti, biografi, allenatori delle giovanili, persino l’ex sindaco di Monaco, Christian Ude.

La fiction però svela al grande pubblico due aspetti sorprendenti: fino a che punto era arrivata la sua dipendenza dal gioco in borsa e il suo rapporto morboso col denaro.

Del primo sono stati attendibili testimoni due suoi antichi competitor nel calcio: “Calli” e “Willi”, al secolo Reiner Calmund, ex business manager del Bayer Leverkusen, e Wilfried Lemke, intimo amico di Uli e per diciotto anni manager del Werder Brema.

Il secondo si deve a Waldemar “Waldi” Hartmann, giornalista sportivo di Norimberga la cui carriera è corsa parallela a quelle di Hoeneß. È sua la dritta su Hoeneß che si fa immortalare sul fondo della piscina decorato col mosaico del toro e dell’orso.

Come non bastasse, ci si è messo pure l’ex presidente federale Theo Zwanziger che, citando il suo predecessore Egidius Braun, ha detto che Uli aveva «col denaro un rapporto quasi erotico».


TANTI NEMICI, POCO ONORE

Sabato 20 aprile 2013 Focus aveva pubblicato l’indiscrezione che Hoeneß fosse sotto indagine per sospetta evasione fiscale. La bomba deflagrò nella più incredibile settimana in 113 anni di Bayern: l’arresto del presidente-filantropo-moralizzatore e il suo rilascio su cauzione (per 5 milioni); il Barcellona spazzato via 4-0 nella semifinale di andata in Champions League; il duplice scippo al Borussia Dortmund dei gioielli Mario Götze (pagati i 37 milioni di clausola rescissoria per averlo la stagione dopo) e Robert Lewandowski (rifiutati 25 milioni, ma il polacco arriverà a parametro zero nel 2014). 

Un doppio colpo che in Vestfalia aveva fatto dimenticare che nel 2005 era stato lo stesso Hoeneß – nonostante la rivalità e dopo un incontro con i tifosi in campo neutro ad Amburgo – a salvare la società dal fallimento autorizzando il prestito di 2 milioni dal Bayern. Finanziamento confermato al Ruhr Nachrichten dall’amministratore delegato giallonero, Hans-Joachim Watzke. E che sempre Hoeneß, nel 2000, aveva comprato di tasca sua azioni del Borussia (5.000 al collocamento, a 11 euro l’una), intestandole alla moglie Susi. Ci aveva perso 42 mila euro e lo avevano pure preso in giro, ma a ridere ultimo, col Borussia campione nel 2012, era stato lui. E come a Dortmund devono dirgli grazie – per sostegni economici diretti o attraverso partite benefiche – altri club in difficoltà finanziarie quali St. Pauli, Hertha Berlino, Monaco 1860 e Hansa Rostock.

Intanto, mentre sul campo la squadra avrebbe mandato in pensione Jupp Heynckes centrando il primo, storico Das Triple, il club era travolto dalla vergogna. I grandi sponsor del Bayern (Audi e adidas ne detengono ciascuna poco meno del 10% e nel consiglio direttivo sono rappresentati anche Allianz, Deutsche Telekom e Volkswagen, che di Audi è la controllante) volevano discutere del futuro di Hoeneß e della società: un evasore, per quanto influente, non poteva essere nemmeno lontanamente accostato ai loro brand e core-business.

Al presidente della Volkswagen, Martin Winterkorn – che Hoeneß lo conosce da quando la partnership Audi-Bayern nacque, una decina d’anni fa – sfuggirono commenti tipo «ha combinato un casino» e «chiunque punti il dito contro gli altri deve essere irreprensibile». Frase ancora più adamantina se a pronunciarla era il capo dell’azienda che, nel giugno 2005, era stata scossa dallo scandalo di bustarelle e luci rosse che, nei mesi successivi, aveva portato alle dimissioni il capo del personale Peter Hartz e il suo omologo alla Skoda (controllata ceca della VW) Helmut Schuster più quello del consiglio sindacale Klaus Volkert.

E Winterkorn era uno che a Uli chiedeva consigli su quale allenatore ingaggiare al Wolfsburg, club della holding Volkswagen. Cosa che tecnicamente, per via di quel 9% abbondante controllato dall’Audi, è pure il Bayern. Persino più diretto Rupert Stadler, suo omologo all’Audi, che al Bayern, come al Milan, fornisce la flotta aziendale: «Hoeneß dovrà andarsene». E al board certo non aveva fatto piacere sapere dai media della perquisizione in villa e del suo arresto: «Almeno saremmo stati preparati, invece che presi alla sprovvista».

Per Dagmar Freitag, presidentessa del Comitato Sportivo della Camera Bassa al Bundestag (il parlamento tedesco), «evadere le tasse è un reato grave che richiede pene adeguate. E chi per soldi tradisce il suo paese, non può essere ritenuto un buon modello di comportamento». 

La cancelliera Angela Merkel dei conservatori cristianodemocratici (CDU) e il primo ministro della Baviera, Horst Seehofer, leader dei loro storici alleati, i cristianosociali (CSU) l’hanno subito scaricato. Ed erano gli stessi che prima facevano a gara per averne i consigli, andarci a cena e farsi vedere in pubblico con lui. «La prima volta che ho sentito di quelle accuse, ho pensato “non può essere vero”» dichiarò Seehofer a Der Spiegel, il settimanale di maggior tiratura in Germania: un milione di copie a numero. Memorabile la copertina del 29 aprile 2013: uno squalo che in un mare di banconote si azzanna la coda; e, più sotto, il titolo: «Das Hoeneß-Prinzip. Gier, Steuerbetrug und der FC Bayern». I princìpi di Hoeneß: avidità, frode e Bayern.

http://www.spiegel.de/international/germany/bayern-president-uli-hoeness-may-end-up-in-jail-for-tax-evasion-a-897474.html

In dieci giorni, Hoeneß era diventato l’ennesimo totem nazionale buttato giù dal piedistallo. Come Margot Kässman, l’ex capo della chiesa protestante tedesca, beccata ubriaca alla guida; oppure Karl-Theodor zu Guttenberg, l’ex ministro della difesa spesso citato come possibile successore della cancelliera Merkel, ma poi coinvolto nello scandalo per plagio della tesi di dottorato che alla fine lo aveva costretto alle dimissioni.
Da pilastri della comunità a reietti sulla pubblica piazza mediatica. Un fenomeno, quello del dare addosso al VIP, che in Germania forse più che altrove riguarda spesso i campioni dello sport. E che Walter Straten, caporedattore dello sport al Bild, ha spiegato così al quotidiano londinese Telegraph: «Voi britannici avete i reali d’Inghilterra, noi tedeschi le nostre stelle dello sport»; il totem Franz Beckenbauer (mai troppo amato, e certo non per il figlio illegittimo); le icone del tennis Boris Becker (divorzio-choc e causa di paternità) e Steffi Graf (problemi di tasse); le ex regine dell’atletica (doping di Stato DDR) Heike Drechsler e Katrin Krabbe, Grit Breuer e Silke Gladisch-Möller. E si potrebbe continuare.

http://www.telegraph.co.uk/sport/othersports/athletics/2996937/Germanys-golden-girl-taking-the-fast-lane-to-obscurity.html


I FURBETTI DEL QUARTIERINO

In realtà Hoeneß si era sì autodenunciato, ma senza raccontare tutta la verità. E soprattutto senza farlo nei termini di legge. A cominciare dalle somme occultate, dieci volte quelle dichiarate. Inizialmente, intendeva avvalersi dell’accordo Rubik, il trattato bilaterale tra Svizzera e Germania che in cambio dell’autoaccusa, e del recupero delle somme trafugate all’estero, garantiva agli evasori l’anonimato. Sostenuto dai conservatori della cancelliera Merkel e osteggiato da verdi e socialdemocratici, l’accordo era stato approvato dal parlamento elvetico ma rigettato, nel dicembre 2012, dalla Camera dei Länder, il consiglio federale tedesco (Bundesrat). E così le migliaia di evasori tedeschi che sulla scia del caso-Hoeneß si erano autodenunciati non poterono beneficiarne: oltre 9 mila nella prima metà del 2013, contro gli 11.800 dell’intero 2012. 

Prima ancora che uscisse la sua sentenza di condanna, in 26 mila – tra i quali la giornalista, scrittrice e leader femminista Alice Schwarzer, per 200 mila euro nascosti, pure lei, in Svizzera – avevano presentato una «dichiarazione spontanea». Nella sola Baviera il quadruplo rispetto al 2012, per oltre 3,5 miliardi di euro rientrati all’erario tedesco: effetto-Hoeneß sì, ma merito anche della paura per i CD rubati contenenti dati sensibili su potenziali evasori fiscali, degli “spettacolari” e mediatizzati arresti vip e dell’impunità generale comunque garantita da una sorta di condono nazionale applicato su vasta scala.

Per il colorito ospite di talk show, che teneva conferenze da 30 mila euro l’ora (da devolvere in beneficenza), che amava definirsi «uomo d’affari onesto e di carattere», era cominciata un’altra vita. Ora, tornerà a mangiare sulla terrazza del Freihaus Brenner, ristorante vecchio di 140 anni a un’ora da Monaco. E ai VIP boxes della Allianz Arena. Nulla però sarà come prima.

Christian Giordano, Ultimo Uomo

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