"Herr" Hoeneß, il campione e il bandito


4028BEA. Non è il numero di matricola del più illustre fra i 109 detenuti a Rothenfeld, ma quello del suo ex conto segreto alla Bank Vontobel di Zurigo, istituto finanziario di rinomata discrezione. Ed è il motivo per cui Ulrich (per tutti Uli) Hoeneß c’è finito, al Landsberg, ex convento riadattato a carcere di minima sicurezza, a 65 km a ovest di Monaco. Sette i capi d’imputazione, e tre anni e mezzo di reclusione per «un caso particolarmente grave di evasione fiscale», secondo il PM Achim von Engel, che di anni ne aveva chiesti due in più. E un totale di 28,5 milioni di euro sottratti al fisco. Cifra che il giudice Rupert Heindl ha ritenuto più precisa dei 27,2 milioni «stimati per difetto», e comprovati in sede di dibattimento, dall’ispettore delle tasse Gabriele Hamberger.

Martedì 11 marzo 2014, Hoeneß era il presidentissimo che dai vip boxes della Allianz Arena applaudiva in piedi l’1-1 con cui il “suo” Bayern, dopo lo 0-2 dell’Emirates, aveva appena eliminato l’Arsenal negli ottavi di finale di Champions League. Giovedì 13, in un’aula di tribunale a Monaco, era l’imputato eccellente che ascoltava seduto in silenzio la sentenza di condanna a trentasei mesi di prigione. «La più lunga squalifica nella storia della Bundesliga», twitterà il blogger Daniel Mack, ex parlamentare dei verdi tedeschi. Bild, il tabloid più venduto nel paese, scriverà invece di verdetto «amaro per Hoeneß ma dolce per la giustizia fiscale». Per Herr Uli, più semplicemente, erano le «conseguenze da accettare» del «più grande errore della mia vita». La vita da predestinato del Patriarca del Bayern. E da lì il santo peccatore del fussball tedesco.

Sciatto di forza

Secondo la ricostruzione fatta da Nathalie Versieux, corrispondente da Berlino del quotidiano francese Libération, tutto era cominciato nel 2000, allo scoppio della prima bolla speculativa del terzo millennio. Giocatore di borsa incallito, Hoeneß aveva nascosto in un conto off-shore svizzero parte dei redditi provenienti dalle sue transazioni sul mercato azionario. Redditi mai dichiarati e sui quali, quindi, non aveva pagato le tasse.


Per ripianare a due, tre anni di perdite, Uli aveva chiesto liquidità a un facoltoso amico parigino: Robert Louis-Dreyfus, presidente dell’adidas dal 1994-2001 ed ex azionista di maggioranza dell’Olympique Marsiglia. Louis-Dreyfus, deceduto nel 2009, gli aveva fatto da garante per un prestito di 25 milioni di marchi: 5 milioni cash (circa 2,56 milioni di euro) più 20 milioni in titoli. In seguito, la Bank Vontobel farà trapelare di aver garantito a Hoeneß un prestito di 15 milioni di marchi. Denaro, parcheggiato in quel conto segreto, che a Hoeneß serviva per speculare in borsa; più che una seconda passione, per lui una vera ossessione. Per dire: a Bad Wiessee, località termale dove vive dal 2006, ha comprato la villa che fu di Gunter Sachs, nipote del fondatore della Opel, amico di Gianni Agnelli e celebre fotografo-playboy che in terze nozze aveva sposato Brigitte Bardot. E sul fondo della piscina ha fatto dipingere a mosaico un orso e un toro: nel gergo finanziario anglosassone il periodo “orso” (bear in inglese) si contrappone al periodo “toro” (bull); nel primo caso il mercato è al ribasso, nel secondo c’è un rialzo delle quotazioni.

Tra il 2003 e il 2010 Hoeneß aveva realizzato una trentina di milioni, ma per via di speculazioni sbagliate avrebbe dovuto versare al fisco tedesco “soltanto” 3,5 milioni. Il problema, per i super evasori tedeschi, è che dal 2008 l’Alta Corte Federale vieta ai tribunali nazionali la sospensione della sentenza in casi di frode fiscale oltre il milione di euro. Il rischio, più che concreto, era quindi non solo di andare a processo – poi iniziato il 10 marzo – ma di finire in prigione.

Per evitare entrambi Hoeneß, come migliaia di suoi connazionali, sperava di mettersi in regola rilasciando una «dichiarazione spontanea», versando il 6% d’interessi sulle imposte non pagate e magari cavandosela con l’anonimato grazie al cosiddetto “accordo Rubik” – allora in negoziazione – tra la Svizzera e la Germania sul rientro dei capitali. Hoeneß in realtà già prima di Natale voleva rivolgersi alle autorità fiscali, ma il suo commercialista era andato in ferie per due settimane e così tutto era stato rimandato al nuovo anno.

Fra Stern e Merkel

Ai primi di gennaio 2013 però, era stata la stessa Bank Vontobel a telefonargli per avvertirlo che il settimanale tedesco Stern ne aveva scoperto il conto segreto: «Qualcuno va in giro a fare domande stupide, almeno lo sai». Uli, furioso, doveva quindi muoversi, e in fretta. 

Sabato 12 gennaio aveva fatto recapitare all’ufficio delle tasse di Miesbach, cittadina meridionale della Germania, una dichiarazione spontanea sulle sue pendenze fiscali. A redigerla non era stato uno specialista ma, dal suo studio nel nord del paese, Günter Ache, suo storico fiscalista che Uli aveva conosciuto andando a sciare in Svizzera negli anni 80. Ache, allora 65enne, vantava una straordinaria reputazione come consulente delle tasse, ma redigere dichiarazioni spontanee è sempre “complicato” oltre che un’arma a doppio taglio. Per quanto riguarda le speculazioni sul mercato azionario, acquisizioni e cessioni dovevano essere riportate scrupolosamente. E se errori c’erano stati, era sempre nella speranza di evitare eventuali condanne o ammende.

Tre giorni dopo, Uli aveva preso la mattina presto un volo per Berlino e partecipare a una riunione fra dirigenti della Fondazione per l’Integrazione in Germania. A chiedergli se gli avrebbe fatto piacere prenderne parte era stata la cancelliera Angela Merkel in persona. L’indomani, nel suo ufficio in Säbener Strasse, Hoeneß aveva raccontato del caffè preso con Merkel dopo il meeting e della loro amabile chiacchierata: «“Signor Hoeneß”, mi ha detto, “ora dovremo giocare in Europa, ci aspettano 90, forse 120 minuti. Speriamo di non dover arrivare ai rigori, perché in quelli il Bayern non è mica tanto bravo”».

Otto giorni dopo aver depositato la dichiarazione spontanea, Hoeneß era stato invitato nella cittadina bavarese di Peissenberg, dove la sezione locale dei cristianosociali (CSU) teneva la tradizionale convention d’inizio anno. Al suo cospetto Alexander Dobrindt, presidente del comitato di zona e segretario generale del partito, era parso emozionato come un bambino. Con la sua semplice presenza Hoeneß raccolse 25.000 euro, poi devoluti a organizzazioni benefiche, e non mancò di esprimere tutto il suo sdegno per il socialdemocratico Peer Steinbrück, candidato del centro-sinistra alla cancelleria, che invece l’intero onorario se lo era tenuto per sé. 

«Di questi tempi, in un club di calcio come in politica, si deve andare avanti per la propria strada, parlare chiaro ed essere credibili», aveva dichiarato Uli quel giorno a Peissenberg. E ai politici di sinistra che auspicavano un aumento delle tasse per i redditi più elevati, aveva risposto che «ci sono certi limiti oltre i quali i cittadini semplicemente si stufano di fare sempre di più per gli altri». Ed è sbagliato, aveva aggiunto, «credere che togliendo ai ricchi, le cose andranno meglio per chi ha meno. Non funziona così. Anzi, è il contrario. Se il ricco a un certo punto ne ha abbastanza e decide di darsi di meno da fare, chi ha meno dovrà mettersi a lavorare ancora di più, e solo per mantenere lo status che ha raggiunto».

Due giorni prima, il 18 gennaio, Uli aveva versato all’erario un iniziale conguaglio di 10 milioni. Nelle carte però qualcosa non quadrava. La dichiarazione spontanea, peraltro incompleta, era stata stesa in modo sciatto, e in varie annate riportava ricavi e perdite al netto delle transazioni sui mercati azionari e valutari, il che non è consentito. «Un errore da principiante», aveva commentato su Stern – protetto dall’anonimato – un legale di Monaco specialista in criminalità fiscale.


Avendo chiuso in negativo per un paio di esercizi, quelle perdite Hoeneß (o chi per lui) le aveva inserite a bilancio. E neanche questo è permesso. Non sorprende quindi che il fisco ne avesse rigettata la dichiarazione, ritenuta insufficiente e non conforme. Trasferito il dossier all’ufficio del procuratore di Monaco, il primo febbraio 2013 era così scattata l’indagine per sospetta evasione fiscale. Il 20 marzo, alla sua villa in collina sul lago Tegernsee, nota meta turistica sulle Alpi bavaresi, gli agenti si erano presentati con un duplice mandato: di perquisizione e di arresto.

Subito liberato su cauzione (da 5 milioni), Hoeneß aveva rivisto la propria dichiarazione, ora giudicata plausibile ma ancora non sufficientemente dettagliata. I procuratori si erano detti soddisfatti, ma essa ormai non aveva più alcuna influenza sull’eventuale immunità rispetto al procedimento giudiziario. Stando alla procura, Hoeneß aveva evaso le tasse per 3,2 milioni di euro, prontamente saldati all’erario dopo i 10 versati al momento dell’autodenuncia e prima dei 30 pagati come secondo conguaglio l’estate successiva. Adesso però gli inquirenti volevano sapere anche perché cifre tanto ingenti erano state depositate in quel conto svizzero. Per esempio: in solo una transazione valutaria, oltre 20 milioni. Motivi che Hoeneß mai ha spiegato.

A quel punto lo scandalo era già di pubblico dominio. E il paese, come sempre per le cose bavaresi, si era spaccato. Al sud, specie per chi tifa Bayern, si trattava di una leggerezza; per qualcuno del mestiere, persino del «classico errore da principiante». Al nord, per chi il Bayern e la ricca Baviera mal li sopporta, si invocava invece l’ancor più classica pena esemplare. È finita invece alla tedesca: tardiva ammissione di colpa del reprobo, redenzione senza sconti e con certezza della pena, successiva riconciliazione fra il mito rivelatosi fin troppo umano e il popolo, tornato a dividersi secondo tifo e/o convenienza.

Vendetta per Breno

Tante però le domande ancora senza risposta. Dall’ambiente giudiziario era trapelato che gli investigatori avevano scelto la linea dura perché con Hoeneß c’era (almeno) un precedente. Il 24 settembre 2011 il non ancora 21enne Breno, difensore brasiliano del Bayern, era stato arrestato per aver appiccato il fuoco, dopo aver fatto il pieno di alcool, alla villa da lui affittata in periferia, a Grünwald (sì, come il formaggino di cui Karl-Heinz Rummenigge era testimonial negli anni 80). Bravata che per fortuna non produsse vittime ma rovinò per sempre la carriera dell’ex promessa, segnalata al suo vecchio club dal connazionale Giovane Élber. 

Indignato per la severità usata contro il suo giocatore poco più che adolescente, Hoeneß si era lanciato in una pubblica tirata contro le autorità: «Il pm di Monaco sta facendo un disastro. Spiccare un mandato di arresto contro un ragazzo completamente distrutto, e con la ridicola giustificazione che avrebbe potuto occultare delle prove – ma se neanche parla tedesco!». Intemerata di cui Uli poi si pentirà: «Il mio grande errore è stato attaccare l’ufficio del procuratore. Non la presero bene». 

Chiusa con la condanna di tre anni e nove mesi per Breno (poi estradato in Brasile), la vicenda portò a Hoeneß altri nemici. A difesa del giocatore furono ascoltati anche Élber e lo stesso Uli, duramente criticato dal diesse del Norimberga, Martin Bader, e dal presidente dell’Eintracht Francoforte, Heribert Bruchhagen. Rummenigge invece se la prese con la Federcalcio brasiliana, rea secondo lui di aver abbandonato Breno e di aver invece fatto di tutto per ottenere il rilascio di altri due nazionali brasiliani del Bayern, Dante e Luis Gustavo, così da averli in campo nella Confederations Cup del 2013. Torneo che la Seleção poi vinse battendo in finale 3-0 la Spagna. Sarà un caso ma quell’estate Luis Gustavo passerà al Wolfsburg, club come il Bayern in ottica Volkswagen. E Dante lo raggiungerà due anni dopo. Niente conflitto d’interessi tra fratelli Hoeneß, però: il contratto di Dieter, direttore generale dei Lupi dal gennaio 2010, era stato stracciato con il ritorno in panchina di Felix Magath nel marzo 2011.

Oltre a quella di frode fiscale, Hoeneß doveva affrontare altre accuse. Corruzione in transizioni d’affari, per dirne una. Perché mai, si chiedevano gli investigatori, e con loro il pool di dieci-cronisti investigativi-dieci sguinzagliati dal settimanale Der Spiegel (lo Specchio), Louis-Dreyfus gli aveva prestato, senza interessi, milioni e milioni da giocare in borsa? Erano forse un incentivo per il rinnovo della sponsorizzazione fra adidas e Bayern? Accordo difatti poi prolungato nel settembre 2001, nonostante la Nike fosse disposta a offrire molto di più rispetto al concorrente.

Del resto, stando a Der Spiegel, non si trattava certo del primo affare sospetto concluso tra la multinazionale tedesca e il club bavarese. Quella stessa primavera, il Bayern stava negoziando il trasferimento di Claudio Pizarro del Werder Brema. Sulla scia dei 19 gol segnati la stagione precedente, l’attaccante peruviano e il suo manager avevano sparato alto: 7 milioni di dollari netti per quattro anni, più 8 netti di bonus. Il Bayern così tanto non voleva spendere, e così subentrò lo sponsor tecnico. Pizarro firmò con loro un contratto pubblicitario di otto anni per un valore di 21,6 milioni di dollari; che, tolte le tasse, facevano 8 milioni netti. A margine dell’accordo c’era una scrittura confidenziale («due originali, niente copie») nella quale era il club a garantire quel bonus.

Le sue prigioni

Si è molto chiacchierato anche sulla «prigionia all’acqua di rose» e sui presunti trattamenti di favore che a un personaggio così noto e potente sarebbero stati riservati al Landsberg. Il carcere in cui Adolf Hitler (ma in un’altra ala) aveva dettato al compagno di cella Rudolf Hess la prima parte del Mein Kampf. Come rivelato dall’edizione tedesca della rivista Focus, nel fondato timore che le guardie passassero ai media informazioni e/o immagini riservate, Hoeneß aveva fatto preventiva richiesta di trasferimento, ma era stata respinta. Accolta invece, dopo sette mesi di detenzione, quella per la semilibertà. Secondo il Süddeutsche Zeitung – quotidiano liberal di Monaco che vende 430 mila copie e attento ai temi sociali – grazie a un permesso speciale Natale e capodanno Hoeneß li aveva trascorsi in famiglia, dormendo nel suo letto per la prima volta dal 2 giugno e concedendosi spiragli di vita “normale” come fare jogging al parco con la moglie Susi e il loro labrador Kuno. Poi, dal 7 gennaio, due giorni dopo il suo 63esimo compleanno, un’auto lo avrebbe prelevato dal carcere e portato al centro sportivo del Bayern. La sera il tragitto opposto – un’ottantina di km tra andata e ritorno – dopo una giornata di lavoro da supervisore del vivaio: Assistent der Abteilungsleitung Junior Team, assistente del Direttore delle giovanili, l’incarico ufficiale. «Era il suo desiderio lavorare con i giovani» spiega Karl Hopfner, suo successore alla presidenza.

Prima di ottenere la semilibertà, Uli si era occupato della distribuzione delle divise ai carcerati: un lavoro da 7 ore il giorno per 1,12 euro l’ora. E aveva perso una ventina di chili. «Non era così magro dalla vittoria al mondiale ’74», la battutona del medico della prigione. Vero è, invece, che dopo le prime due settimane, «per ragioni mediche» e adattarsi alla vita dietro le sbarre, Hoeneß era stato messo in una cella doppia «più grande» prima di essere trasferito in una singola.

Quanto alla sua condizione di detenuto eccellente, Uli correva in realtà più rischi degli altri reclusi. E difatti aveva sporto denuncia alla polizia bavarese dopo aver ricevuto una lettera anonima di minacce: se non avesse pagato 200 mila euro – scrisse Bild –, una volta in gabbia Hoeneß sarebbe incorso in «serie difficoltà». Che si trattasse di un mitomane o di un balordo era parso subito chiaro. All’appuntamento per ritirare i soldi, si presentò un 50enne in bicicletta che fu arrestato da agenti in borghese. «Caduto durante la tentata fuga», l’estorsore finirà in ospedale per accertamenti.

«Il suo Tamagotchi»

Al processo, nella sua arringa anche mediatica il legale di Uli, Hanns Feigen, aveva puntato molto sulle cause sociali cui l’ex presidente del Bayern da sempre si è dedicato. Hoeneß, infatti, era riuscito a fare del Bayern il club più ricco e più vincente di Germania senza però fargli perdere quell’atmosfera da attività familiare. Oltre all’ostilità delle altre tifoserie però, “pagava” anche l’immagine virtuosa che si era costruita in quasi mezzo secolo da protagonista del calcio tedesco. 

Inevitabili quindi che qualcuno gli rinfacciasse certe esternazioni. «So che è stupido, ma io le mie tasse le pago tutte», aveva dichiarato al Bild nel 2005, tre anni dopo aver detto che «non ha alcun senso finire in prigione per pochi euro di tasse». Mentre al magazine economico Brandeins nel 2012 aveva dichiarato: «Certo che inseguo il successo, ma non a qualunque prezzo. Sono solo soldi, ci deve essere un punto in cui ti devi sentire soddisfatto».

Dal 2001 al 2010 Hoeneß aveva fatto oltre 50 mila transazioni sul mercato azionario. Ormai a livelli di dipendenza compulsiva, spiegabile forse solo con la Teoria dei giochi, Uli viveva attaccato al suo pager, spesso persino durante le partite, in riunione e nelle lunghe nottate insonni negli hotel superlusso durante le trasferte con la squadra. Quale che fosse l’aggeggio tecnologico del momento, dai colleghi al Bayern era stato ribattezzato «il suo Tamagotchi». 

E a esplicita domanda se giocare in borsa gli avesse dato dipendenza, Hoeneß a Die Zeit rispose: «Non mi considero un malato se è questo che intende. Forse ci sono andato vicino per un paio d’anni ma oggi mi ritengo guarito». Su questo, però, i parenti dissentono. Specie il figlio 34enne, Florian, che in famiglia conta: esperto bancario, gestisce lui il salumificio HoWe Wurstwaren, nato a Norimberga dall’ex macelleria del nonno Erwin e che oggi dà lavoro a 350 persone e produce 150 mila insaccati per un totale di 10.000 tonnellate il giorno. Lo slogan è «Es kann nur eine schmecken»: puoi assaggiarli, ma solo uno per volta.

Come il fratello anche Sabine – a curriculum un dottorato nel Land del Baden-Württemberg e un’esperienza lavorativa nel Bayern – è legatissima al padre, cui nel 2014 ha regalato un nipotino. Gli Hoeneß sono la classifica famiglia borghese tedesca – quasi un clan – che però ha rischiato di disgregarsi quando, nel 1996, Uli ebbe una relazione, divenuta pubblica, con una hostess. In pieno stile-Hoeneß, la risposta di Susi a un giornalista che la incalzava su cosa avesse detto al marito una volta scoperto che lui, il patriarca, la tradiva: «Il sesso è stato bello? Buon per te».

E proprio Der Patriarch è il titolo del biografico doku-drama di quasi 90’ della ZDF, diretto da Christian Twente, che in Germania ha raccolto più critiche che consensi. «Ben recitata ma inverosimile» la recensione più benevola sulla fiction che ha per protagonisti i credibili Thomas Thieme e, per gli anni giovanili, Robert Stadlober. E che si è avvalsa della consulenza di una dozzina di persone che al Patriarca sono state vicine: cronisti, biografi, allenatori delle giovanili, persino l’ex sindaco di Monaco, Christian Ude.

La fiction però svela al grande pubblico due aspetti sorprendenti: fino a che punto era arrivata la sua dipendenza dal gioco in borsa e il suo rapporto morboso col denaro. 

Del primo sono stati attendibili testimoni due suoi antichi competitor nel calcio: “Calli” e “Willi”, al secolo Reiner Calmund, ex business manager del Bayer Leverkusen, e Wilfried Lemke, intimo amico di Uli e per diciotto anni manager del Werder Brema.

Il secondo si deve a Waldemar “Waldi” Hartmann, giornalista sportivo di Norimberga la cui carriera è corsa parallela a quelle di Hoeneß. È sua la dritta su Hoeneß che si fa immortalare sul fondo della piscina decorato col mosaico del toro e dell’orso. 

Come non bastasse, ci si è messo pure l’ex presidente federale Theo Zwanziger che, citando il suo predecessore Egidius Braun, ha detto che Uli aveva «col denaro un rapporto quasi erotico».

Tanti nemici, molto onore?

Sabato 20 aprile 2013 Focus aveva pubblicato l’indiscrezione che Hoeneß fosse sotto indagine per sospetta evasione fiscale. La bomba deflagrò nella più incredibile settimana in 113 anni di Bayern: l’arresto del presidente-filantropo-moralizzatore e il suo rilascio su cauzione (per 5 milioni); il Barcellona spazzato via 4-0 nella semifinale di andata in Champions League; il duplice scippo al Borussia Dortmund dei gioielli Mario Götze (pagati i 37 milioni di clausola rescissoria per averlo la stagione dopo) e Robert Lewandowski (rifiutati 25 milioni, ma il polacco arriverà a parametro zero nel 2014). 

Un doppio colpo che in Vestfalia aveva fatto dimenticare che nel 2005 era stato lo stesso Hoeneß – nonostante la rivalità e dopo un incontro con i tifosi in campo neutro ad Amburgo – a salvare la società dal fallimento autorizzando il prestito di 2 milioni dal Bayern. Finanziamento confermato al Ruhr Nachrichten dall’amministratore delegato giallonero, Hans-Joachim Watzke. E che sempre Hoeneß, nel 2000, aveva comprato di tasca sua azioni del Borussia (5.000 al collocamento, a 11 euro l’una), intestandole alla moglie Susi. Ci aveva perso 42 mila euro e lo avevano pure preso in giro, ma a ridere ultimo, col Borussia campione nel 2012, era stato lui. E come a Dortmund devono dirgli grazie – per sostegni economici diretti o attraverso partite benefiche – altri club in difficoltà finanziarie quali St. Pauli, Hertha Berlino, Monaco 1860 e Hansa Rostock.

Intanto, mentre sul campo la squadra avrebbe mandato in pensione Jupp Heynckes centrando il primo, storico Das Triple, il club era travolto dalla vergogna. I grandi sponsor del Bayern (Audi e adidas ne detengono ciascuna poco meno del 10% e nel consiglio direttivo sono rappresentati anche Allianz, Deutsche Telekom e Volkswagen, che di Audi è la controllante) volevano discutere del futuro di Hoeneß e della società: un evasore, per quanto influente, non poteva essere nemmeno lontanamente accostato ai loro brand e core-business. 

Al presidente della Volkswagen, Martin Winterkorn – che Hoeneß lo conosce da quando la partnership Audi-Bayern nacque, una decina d’anni fa – sfuggirono commenti tipo «ha combinato un casino» e «chiunque punti il dito contro gli altri deve essere irreprensibile». Frase ancora più adamantina se a pronunciarla era il capo dell’azienda che, nel giugno 2005, era stata scossa dallo scandalo di bustarelle e luci rosse che, nei mesi successivi, aveva portato alle dimissioni il capo del personale Peter Hartz e il suo omologo alla Skoda (controllata ceca della VW) Helmut Schuster più quello del consiglio sindacale Klaus Volkert.

E Winterkorn era uno che a Uli chiedeva consigli su quale allenatore ingaggiare al Wolfsburg, club della holding Volkswagen. Cosa che tecnicamente, per via di quel 9% abbondante controllato dall’Audi, è pure il Bayern. Persino più diretto Rupert Stadler, suo omologo all’Audi, che al Bayern, come al Milan, fornisce la flotta aziendale: «Hoeneß dovrà andarsene». E al board certo non aveva fatto piacere sapere dai media della perquisizione in villa e del suo arresto: «Almeno saremmo stati preparati, invece che presi alla sprovvista». 

Per Dagmar Freitag, presidentessa del Comitato Sportivo della Camera Bassa al Bundestag (il parlamento tedesco), «evadere le tasse è un reato grave che richiede pene adeguate. E chi per soldi tradisce il suo paese, non può essere ritenuto un buon modello di comportamento». La cancelliera Angela Merkel dei conservatori cristianodemocratici (CDU) e il primo ministro della Baviera, Horst Seehofer, leader dei loro storici alleati, i cristianosociali (CSU) l’hanno subito scaricato. Ed erano gli stessi che prima facevano a gara per averne i consigli, andarci a cena e farsi vedere in pubblico con lui. «La prima volta che ho sentito di quelle accuse, ho pensato “non può essere vero”» dichiarò Seehofer a Der Spiegel, il settimanale di maggior tiratura in Germania: un milione di copie a numero. Memorabile la copertina del 29 aprile 2013: uno squalo che in un mare di banconote si azzanna la coda; e, più sotto, il titolo: «Das Hoeneß-Prinzip. Gier, Steuerbetrug und der FC Bayern». I princìpi di Hoeneß: avidità, frode e Bayern.


In dieci giorni, Hoeneß era diventato l’ennesimo totem nazionale buttato giù dal piedistallo. Come Margot Kässman, l’ex capo della chiesa protestante tedesca, beccata ubriaca alla guida; oppure Karl-Theodor zu Guttenberg, l’ex ministro della difesa spesso citato come possibile successore della cancelliera Merkel, ma poi coinvolto nello scandalo per plagio della tesi di dottorato che alla fine lo aveva costretto alle dimissioni.

Da pilastri della comunità a reietti sulla pubblica piazza mediatica. Un fenomeno, quello del dare addosso al vip, che in Germania forse più che altrove riguarda spesso i campioni dello sport. E che Walter Straten, caporedattore dello sport al Bild, ha spiegato così al quotidiano londinese Telegraph: «Voi britannici avete i reali d’Inghilterra, noi tedeschi le nostre stelle dello sport»; il totem Franz Beckenbauer (mai troppo amato, e certo non per il figlio illegittimo); le icone del tennis Boris Becker (divorzio-choc e causa di paternità) e Steffi Graf (problemi di tasse); le ex regine dell’atletica (doping di Stato DDR) Heike Drechsler e Katrin Krabbe, Grit Breuer e Silke Gladisch-Möller. E si potrebbe continuare.


I furbetti del quartierino

In realtà Hoeneß si era sì autodenunciato, ma senza raccontare tutta la verità. E soprattutto senza farlo nei termini di legge. A cominciare dalle somme occultate, dieci volte quelle dichiarate. Inizialmente, intendeva avvalersi dell’accordo Rubik, il trattato bilaterale tra Svizzera e Germania che in cambio dell’autoaccusa, e del recupero delle somme trafugate all’estero, garantiva agli evasori l’anonimato. Sostenuto dai conservatori della cancelliera Merkel e osteggiato da verdi e socialdemocratici, l’accordo era stato approvato dal parlamento elvetico ma rigettato, nel dicembre 2012, dalla Camera dei Länder, il consiglio federale tedesco (Bundesrat). E così le migliaia di evasori tedeschi che sulla scia del caso-Hoeneß si erano autodenunciati non poterono beneficiarne: oltre 9 mila nella prima metà del 2013, contro gli 11.800 dell’intero 2012. 

Prima ancora che uscisse la sua sentenza di condanna, in 26 mila – tra i quali la giornalista, scrittrice e leader femminista Alice Schwarzer, per 200 mila euro nascosti, pure lei, in Svizzera – avevano presentato una «dichiarazione spontanea». Nella sola Baviera il quadruplo rispetto al 2012, per oltre 3,5 miliardi di euro rientrati all’erario tedesco: effetto-Hoeneß sì, ma merito anche della paura per i cd rubati contenenti dati sensibili su potenziali evasori fiscali, degli “spettacolari” e mediatizzati arresti vip e dell’impunità generale comunque garantita da una sorta di condono nazionale applicato su vasta scala.

Il destino eccezionale di “Jung Siegfried”

Jung Siegfrid, il giovane Sigfrido: così era chiamato quando, come tutti gli eroi, il calciatore Uli Hoeness era giovane e bello; e trattandosi di mitologia germanica, inevitabilmente biondo, con occhi chiari e mascella volitiva. Perfetto per riadattare in chiave postmoderno il poema medievale tedesco Nibelungenlied (Il Canto dei Nibelunghi) a un semidio buttato giù dall’olimpo da un destino cinico e baro – forse più di lui – per un crack non finanziario, ma del ginocchio destro. Eppure capace di rialzarsi, e diventare, da manager, persino più grande. L’uomo più potente nel calcio tedesco che si sfasciava di birra nel corpo e per cupidigia nell’animo: lui che si ergeva a fustigatore di costumi altrui e faceva della dirittura morale del suo Bayern una specie di religione laica, se ci perdonate l’ossimoro. Come ha scritto Libération, Hoeneß è sempre stato una figura polarizzante, segnata da un «destino eccezionale, di quelli che i tedeschi adorano». Di più: era l’incarnazione stessa del mantra bavarese «Mia san Mia». Noi siamo noi.

Ed eccezionale, il suo triplice destino di campione, geniale dirigente e presidente illuminato (39 trofei), lo è stato di sicuro. Ala da centro metri in undici secondi netti, fisico atletico e asciutto (1,80x76 kg), sguardo vivido e mandibola squadrata da angelo ribelle, dei due fratelli Hoeneß non poteva che essere Uli, il maggiore, il più talentuoso, il prescelto. Quello destinato a grandi cose. 

È sulle sue sgroppate in contropiede che nei primi anni settanta il Bayern e la Germania Ovest avevano costruito le rispettive fortune. Ancora oggi alcuni suoi gol – vedi lo 0-1 nel 3-3 con la Dinamo Dresda al ritorno dei 16esimi Coppa dei Campioni o la doppietta all’Atlético Madrid nel replay della finale ’74 – meravigliano per la levità, l’apparente facilità con cui s’involava per 50-60 metri, prima di crossare in mezzo o battere a rete con sicurezza, magari beffando il portiere.



E con Gerd Müller, più che intesa, c’era telepatia. Discesa sul fondo del cavallone biondo, movimento a ricciolo del “Bomber della Nazione” e gol: so einfach ist das. Più semplice di così. 

Come vincere la coppa del mondo in rimonta dopo che l’avevi cominciata regalando all’Olanda il primo rigore nella storia delle finali mondiali. Sì, perché fu Hoeneß, e non come tanti credono Berti Vogts a stendere Johan Cruijff su quella pazzesca accelerata dell’olandese dopo 15 tocchi degli oranje senza che i tedeschi avessero ancora toccato palla. Uli, scalato a raddoppiare, lo aveva steso tagliandogli la strada per impedire all’olandese d’involarsi verso la porta di Sepp Maier.


Uli però era anche un signor realizzatore: 86 gol in 239 partite col Bayern in Bundesliga, mica pochi per un’ala; meno prolifica però con i bianchi della Nationalmannschaft dell’Ovest: 5 in 35. Sarebbero potuti essere di più senza quella lesione, non operabile, alla cartilagine. E risalente già alla finale di Coppa Campioni ’75. Hoeneß, ala sinistra come l’anno prima nel tridente con lo svedese Conny Torstensson e Müller, era uscito al 42’, sullo 0-0, per Klaus Wunder. Il Bayern poi, tra mille polemiche arbitrali e incidenti dentro e fuori lo stadio, batterà 2-0 (Roth e Müller) il Leeds di Jimmy Armfield, sostituto in panchina di Brian Clough dopo 44 giorni. Quelli, turbolenti, del «Maledetto United». L’anno successivo, il Leeds verrà bandito dalle competizioni europee. Per il Bayern invece arriverà la terza Coppa Campioni consecutiva: all’Hampden Park di Glasgow, 1-0 sul Saint-Étienne firmato dal solito Franz “Bulle” Roth, il mediano dai gol pesanti, con Hoeneß ormai rifinitore dietro le punte Müller e Rummenigge.

All’inizio della stagione 1978-79 Hoeneß era stato cercato dall’ex compagno di nazionale Günther Netzer, nel frattempo diventato general manager dell’Amburgo. Netzer, che da giocatore era stato una bandiera del più grande Borussia Mönchengladbach della storia, era a caccia di veterani di classe. E quale miglior occasione di scippare agli eterni rivali addirittura Beckenbauer e Hoeneß?

Secondo radio-spogliatoio e tanta stampa dell’epoca era stato “Kaiser” Franz, suo nemico giurato, a fare fuori Netzer dalla squadra che aveva vinto il mondiale casalingo del 1974. E sfiorato a Belgrado ’76 il bis europeo consecutivo: sconfitta ai rigori in finale contro la Cecoslovacchia; dopo il 2-2 dei 120’ sbagliò solo Hoeneß, che dal dischetto centrò una porta nel cielo simil-Roby Baggio a Pasadena ’94. A decidere fu il leggendario colpo “sotto” di Antonín Panenka. Da allora, prima dell’irreversibile deriva di «cucchiai» e «cucchiaini» post-Totti a Euro2000, il penalty a pallonetto si dirà «alla Panenka». E gli spagnoli, geneticamente innamorati dei gesti bianchi del fútbol, intitoleranno a lui, attuale presidente del Bohemians Praga, una rivista letteraria di culto.


Dello squadrone che aveva dominato Euro ’72, forse la Germania più forte e bella d’ogni epoca e la prima nazionale a vincere il mondiale dopo l’europeo, Netzer era stato il faro. Due anni dopo però – secondo Beckenbauer prima ancora che il Ct Helmut Schön – erano più funzionali le lucide geometrie del mancino Wolfgang Overath, ordinato regista laterale, che le fantasiose, dirompenti sgroppate del cavallone Netzer, talento impetuoso quanto imprevedibile.

E così la squadra che fino allo storico ko nel derby con la DDR aveva zoppicato, e la fortissima Polonia l’aveva battuta grazie al diluvio al Waldstadion di Francoforte, era arrivata in finale. Nonostante il gruppo spaccato sulla questione-premi e un Ct ormai esautorato. Ad aspettarla c’era la super favorita Olanda; assieme alla grande Ungheria di vent’anni addietro, la Cicala più grande di sempre. Parentesi per dire che, antagonisti o no, Netzer matricola dietro una scrivania e il declinante Kaiser in campo, chiusa l’esperienza USA nei New York Cosmos della NASL, si sarebbero ritrovati due anni dopo, nel 1980, all’Amburgo. Senza Hoeneß.

Era quello l’altro colpo di mercato che Netzer avrebbe potuto chiudere a inizio 1978/79, e invece sfumò. Campione d’Europa e del mondo da titolare, Hoeneß al Bayern era in crisi, un po’ perché sia, lui sia il suo compare Paul Breitner non facevano che complottare contro l’allenatore Gyula Lóránt, ungherese di origine croata, e molto per quel maledetto ginocchio.

Netzer, quindi, era sul chi va là e aveva preteso esami clinici approfonditi prima di offrirgli un contratto. Forse avendo qualcosa da nascondere, Hoeneß si era però rifiutato di dimostrare la propria idoneità fisica e così a fine ottobre, anziché all’Amburgo che puntava al titolo, finì in prestito al neopromosso Norimberga. Storicamente, col Monaco 1860, gli altri rivali locali del Bayern. Con “Der Club” però giocherà solo 11 partite di campionato (senza segnare), e a marzo 1979 era già chiaro che la sua carriera era finita. A 27 anni e due mesi.

Non che la nazione si vestì a lutto, eh. La Germania perdeva un grande giocatore, un vincente, ma certo non un idolo dei tifosi o un pupillo della stampa. Neanche quella specializzata, e spesso benevola se non amica, tipo Kicker. Nel 1975, era stato proprio l’editore della rivista a pubblicarne la biografia, Uli Hoeneß: Der programmierte Weltmaister; gioco di parole su tre livelli: il campione (del mondo) di programmazione e programmato. Per vincere. Illuminante un passaggio dell’opera, già allora piuttosto critica, di Peter Bizer. Giornalista che lo conosce dai tempi di Ulm prima e di Monaco poi, che nel 2014, prima ancora che Hoeneß fosse condannato, pubblicò una nuova edizione: Nachspiel – Mensch, Macher, Mythos (Ferito – L’uomo, il genio, il mito). 

«La sua carriera irradia l’algido fascino di un computer – si legge nell’opera prima – Ci sono giocatori che giocano per il pubblico, dal quale si fanno esaltare o deprimere. Altri semplicemente giocano al calcio per come ritengono vada giocato, che alla gente sugli spalti piaccia oppure no. E poi ci sono calciatori che giocano per la panchina, perché è la che siede l’allenatore. Un primo esempio di questi ultimi è Uli Hoeneß».

Tra le righe si evince che Hoeneß faceva tutto con uno scopo. Agiva secondo un piano, e sempre nel proprio interesse. Più spesso che no, quell’interesse significava soldi. A inizio 1974, diceva: «Se vinciamo questo mondiale…». La conclusione sottintesa non riguardava aspetti agonistici o romantici legati alla storia del calcio tedesco: tutt’altro. «Se vinciamo il mondiale, ci sistemiamo per la vita». Persino Paul Breitner, mai stato un ingenuo idealista – nonostante la retorica sul “Maoista” che si faceva fotografare con in mano il libretto rosso e alle spalle il poster del Grande Timoniere – si meravigliava del particolare talento dell’amico nel far soldi: «Senza di lui non avrei mai guadagnato un centesimo al di fuori del calcio. È incredibile come riesca sempre a tirar fuori un’idea quando si parla di affari».

Era sempre stato così, Uli. Il figlio maggiore di un macellaio di Ulm, 120 mila anime che guardano il Danubio e dove il Baden-Württemberg è già quasi Baviera. Con i soldi dimostra presto di saperci fare: in negozio è lui, sin da ragazzino, a star dietro ai conti. A differenza di papà Erwin e mamma Paula, che mai hanno voluto espandere la macelleria di famiglia, Uli è sempre stato «incredibilmente, quasi perdutamente ambizioso». 

Se dal registratore di cassa mancavano 5 pfennig, il padre chiudeva il negozio finché non saltavano fuori. Uli invece sin da piccolo ha sempre pensato in grande. Al padre chiedeva di svegliarlo alle 5,30 per andare a correre prima di scuola, dove ovviamente fu subito capoclasse, gestì il giornalino d’istituto e superò brillantemente gli esami. Col calcio aveva cominciato nelle squadrette della sua città, prima l’Ulm poi il TSG Ulm 1846, e sui campetti. Di rado però sceglieva Dieter, più piccolo di un anno, perché lo riteneva troppo scarso. Da gm del Bayern, però, avrebbe cambiato idea.

Perdere era la peggior cosa che potesse capitargli. Prendeva ogni sconfitta come un affronto personale. A quindici, al TSG Ulm, disse a un compagno: «Guarda, gli altri sono fuori a bersi una birra, noi un giorno giocheremo nel Bayern». Tempo tre anni e succederà, ma solo a Uli.

Personalità? Subito debordante. A otto anni aveva disobbedito al prete che lo voleva accanto in processione e si era fatto cinquanta km in bici per raggiungere la sua squadretta, che sta perdendo 4-0. Uli entrò nella ripresa, segnò cinque gol e ribaltò la partita: 6-5. Ovvio capitano della nazionale Under 15, se giocava bene faceva in modo che la stampa locale ne desse ampio risalto. «Non c’è stato giorno in cui non mi abbia dato l’impressione di sapere esattamente che cosa volesse», dirà decenni dopo il suo allenatore dell’epoca. A 20 anni aveva già debuttato in nazionale maggiore (da titolare, segnando il 2-0 all’Ungheria nell’amichevole del 29 marzo 1972) e vinto l’Europeo. A 22, il mondiale con la Nationalmannschaft forse più forte e più bella di sempre. E nel palmarès col Bayern aveva già la Coppa di Germania, tre Bundesliga in fila e la prima di altrettante Coppe dei Campioni consecutive. E nel 1976 arriverà pure l’Intercontinentale (2-0 e 0-0 col Cruzeiro).

Nel gennaio 1970, compiuti i 18 anni, appena firmato (col sodale Breitner) per il Bayern, aveva telefonato al maggior quotidiano di Ulm perché pubblicasse la notizia. Subito dopo era alla guida di un’auto nuova fiammante. Lui però era diverso dagli altri calciatori. Giocava nel Bayern ma non lasciò gli studi: nel ’71 conseguì l’Abitur (la Maturità tedesca), ma anziché a economia s’iscrisse ai corsi per diplomarsi insegnante di inglese e storia. Abbandonò dopo due semestri per i troppi impegni calcistici ma così aveva mantenuto lo status di “dilettante” per partecipare all’olimpiade di Monaco ’72 nel “suo” Olympiastadion. La storica casa del Bayern, costruita per quei Giochi. Quella attuale – l’Allianz Arena, iniziata nel 2001 e completata nel 2005, in anticipo sul mondiale dell’anno dopo – sarà invece uno dei suoi maggiori successi da dirigente: 340 milioni l’esborso del club per il nuovo, avveniristico stadio di proprietà.

In quella nazionale olimpica Hoeneß faceva coppia in attacco con Ottmar Hitzfeld, che poi da gm Uli chiamerà per due volte (1998-2004 e 2007-08) ad allenare il Bayern, e segnò nel 2-3 contro la Germania Est il suo unico gol nel torneo. Quella sconfitta, storica perché fu il primo scontro diretto tra le due Germanie, costò ai bianchi dell’Ovest l’accesso alla semifinale.

Titolare già 18enne (6 gol in 31 gare nel campionato 1970-71, chiuso dietro il Borussia Mönchengladbach campione ma vincendo la Coppa di Germania, 2-1 al Colonia), nello stesso anno aveva messo su casa e famiglia. Qualche mese dopo, annunciate le nozze con Susi, cedeva per 25 mila marchi (75 mila secondo Der Spiegel) i diritti per le foto del matrimonio e un’intervista esclusiva. La stagione successiva, in pochi mesi aveva venduto – e autografato a pagamento – trecentomila copie del libro sulla coppa del mondo appena vinta. Per una ditta di abbigliamento maschile aveva posato a torso nudo in pantaloncini (inaudito, all’epoca). E aperto metà della sua nuova dimora a un gruppo di turisti, con i quali si era fatto ritrarre in guanti da forno mentre serviva loro della Leberkäse, specialità bavarese di carne. Il tutto a neanche 23 anni.

Arrivato al Bayern aveva incontrato Franz Beckenbauer – il cui padre riteneva i calciatori troppo stupidi per risparmiare – e non pochi problemi. «All’inizio la sua sfrontatezza non a tutti piaceva», raccontava di quei primi mesi il suo allenatore-mentore Udo Lattek. Sia il Kaiser sia Hoeneß si erano già promessi al Monaco 1860, ai tempi il maggiore club cittadino. Poi il Bayern aveva assunto Lattek, che i due avevano avuto nelle nazionali giovanili: e così il duplice voltafaccia cambiò la storia del calcio (non solo) tedesco. Come e quanto, lo racconta Ulrich Hesse-Lichtenberger nel suo Tor! The Story of German Football.

Beckenbauer a volte si sentiva in dovere di prendere da parte il giovanotto per spingerlo a concentrarsi di più sul calcio, e redarguirlo per l’eccessiva “cocciutaggine”. Per farla breve, Hoeneß andava a genio a pochi, pure tra i compagni. Netzer una volta lo definì un «bandito». Successe a inizio 1974, quando, si narra, Hoeneß lo mise in ridicolo per farlo fuori dalla nazionale. Anche per questi aspetti fu quindi uno choc quando, a maggio 1979, il presidente del Bayern, Wilhelm Neudecker, lo nominò come rimpiazzo del business manager Robert Schwan. A 27 anni e quattro mesi, Uli divenne così il più giovane manager nella storia della Bundesliga.

Il denaro lo conosceva, questo è sicuro; ma Hoeneß aveva l’istinto, il tatto, l’esperienza e i contatti che servivano? Le incertezze sul presente e sul futuro del club s’intensificarono poche settimane dopo quando, a sorpresa, Neudecker si dimise. Presa la decisione di esonerare l’ungherese Pál Csernai, allenatore ad interim dal 1978, per sostituirlo con il più autoritario Max Merkel (in passato per due volte al Monaco 1860), il patron aveva dovuto fronteggiare l’ammutinamento della rosa che, guidata da Breitner e dall’ex capitano Maier, aveva minacciato lo sciopero. E allora, il 24 marzo, aveva salutato. Csernai invece sarebbe rimasto fino al 1983.

Intanto lo squadrone un tempo orgoglio del club affrontava una terribile crisi tecnica ed economica, culminata nello 0-4 casalingo contro una pericolante come l’Arminia Bielefeld. In campionato veniva da un 12esimo e un settimo posto, e il rimpasto ai piani alti unito alle umiliazioni in campo faceva sembrare che il Bayern fosse avviato a diventare una medio-piccola qualsiasi, non troppo diversa da un Norimberga o uno Schalke 04.

Il 24 marzo la squadra vinse in trasferta a Mönchengladbach, come ai vecchi tempi. Nessuno si aspettava granché, ma Karl-Heinz Rummenigge segnò tre gol e il Bayern asfaltò gli ex rivali: 7-1. Poi perse solo una delle restanti dieci partite, non bastò per agganciare l’Amburgo ma era un segnale. All’ultima giornata, il Bayern giocò ad Amburgo, ormai già campione. Kevin Keegan segnò il gol del pareggio, ma a dieci minuti dalla fine ancora Rummenigge vinse la partita. E per certi versi, fu quello il vero inizio degli anni 80. Il decennio del Bayern. Il primo dell’era-Hoeneß.

«Mi ero messo una cravatta, me ne stavo seduto alla scrivania e dopo tre ore non c’era altro da fare», così Hoeneß descrive il suo primo giorno da general manager in un club che, nella primavera del 1979, aveva debiti per 7 milioni di marchi. Un fardello pesante almeno quanto quello di un glorioso passato che pareva irriproducibile, con Beckenbauer ai New York Cosmos già da due anni e Müller pronto a raggiungerlo nella NASL (ai Fort Lauderdale Strikers). Da questo sfascio costruirò «un altro Real Madrid», confidò Uli all’amicone Breitner, che in merengue ci aveva giocato tre stagioni (due con Netzer) prima di rientrare al Bayern nel 1978, dopo un anno all’Eintracht Braunschweig.

Fratello Sole

Quella stessa estate ’79, Uli chiamò dallo Stoccarda il fratello Dieter. Uno che non aveva la sua classe ma che la porta la vedeva eccome: 102 gol in 224 partite con il Bayern; 28 in 52 nelle coppe europee, terzo miglior marcatore del club dopo le leggende Gerd Müller e “Kalle” Rummenigge. La sua miglior stagione è la 1981-82: 21 reti in 33 gare. Più l’eroica prestazione nel derby di finale in Coppa di Germania, 4-2 in rimonta sul Norimberga con torre per l’1-2 di Rummenigge e gol, entrambi con la testa fasciata da un turbante a causa della zuccata contro Alois Reinhardt. 


Negli annali però ci entra il 25 febbraio 1984 con la cinquina in 22’ nel 6-0 in casa sull’Eintracht Braunschweig, 23a di Bundesliga. Per vedere di meglio, in Säbener Straße dovranno aspettare l’exploit di Lewandowski del 22 settembre 2015: pokerissimo in 9’ al Wolfsburg alla sesta. 


Dieter arrivò per appena 175 mila marchi e fu il primo colpo di Uli sul mercato. La mossa suscitò mugugni e accuse di conflitto d’interessi se non proprio di nepotismo, ma per tanti aspetti l’improbabile ascesa del Kopfballungeheuer (alla lettera “mostro dal colpo di testa facile e micidiale”), esemplifica al meglio come si muoveva il Bayern del primo Hoeneß. 
Per buona parte degli anni 80, al club i giocatori-chiave erano stati dei duri come Klaus Augenthaler, Wolfgang Dremmler, Bernd Dürnberger e Hans Pfügler. Nessuno di loro era, neanche alla lontana, della stessa classe di Beckenbauer, Breitner o Rummenigge, ma erano affidabili, dotati di “mentalità vincente” e arrivati per un prezzaccio.

Per capire con formazioni titolari il Bayern dominasse comunque il campionato, basta guardare quella finalista in Coppa dei Campioni del 1982. I tifosi dell’Aston Villa di una certa età di sicuro ricorderanno quella con cui i loro Villans lo batterono, quel Bayern: 1-0 a Rotterdam (Peter Withe); ma a quanti vengono in mente i nomi degli sconfitti? Sì, c’erano tre nazionali (Breitner capitano, Rummenigge e Dremmler), ma gli altri? Chi ricorda comprimari come il portiere Manfred Müller, il libero Hans Weiner, i centrocampisti Wolfgang Kraus e, dalla panchina, Günter Güttler e Kurt Niedermayer? Persino i più accaniti tifosi bavaresi li ricordano a malapena, e forse è giusto così.

Con giocatori tecnicamente limitati ma determinati, il Bayern anni 80 praticava davvero quel calcio noioso e controllato di cui, a torto, veniva accusato negli anni 70. In parte, era un segno dei tempi, ma quel calcio rifletteva anche il carattere di Hoeneß, che stava rapidamente diventando l’uomo più importante nelle gerarchie del club. L’idea però di dover ingaggiare superstar straniere o talenti esotici solo per offrire al pubblico il «giusto valore per i soldi spesi» o anche solo per giocare a calcio come si deve è però un concetto che al Bayern mai avrebbe attecchito, perlomeno fino a quando Beckenbauer – conclusa l’esperienza nel Comitato organizzatore del mondiale 2006 – non fu coinvolto più direttamente nella gestione tecnica. Per Hoeneß, invece, quel giusto «valore per i soldi spesi» voleva dire trofei, e più se ne alzavano a basso costo, meglio era.

«Nuovo Real Madrid»

Altro che «nuovo Real Madrid» confidato all’amico Breitner. Il Bayern veniva da oltre un decennio di calcio piuttosto grezzo. Una volta segnato un gol, la squadra – guidata dietro da un guerriero come Augenthaler – praticava un gioco difensivo, noioso, votato a mantenere il risultato. E appena in campionato si metteva in mostra qualche giovane talento, Hoeneß era il primo a soffiarlo alla concorrenza. Nei primi anni 90 il Karlsruher si piazzò stabilmente nelle prime posizioni, e uno dopo l’altro il Bayern gli portò via Michael Sternkopf, Oliver Kreuzer, Mehmet Scholl e Oliver Kahn, seguiti poi da Thorsten Fink e Michael Tarnat. Altra politica che certo non ti porta amici.

E sue infelici uscite come «dobbiamo massacrare gli avversari» o «dobbiamo diventare più arroganti» non potevano che alienargli simpatie, non solo di chi non tifava Bayern. Sorprende relativamente quindi che la stessa tifoseria del Bayern abbia sì sostenuto Hoeneß, ma forse non con la convinta partecipazione che ci si sarebbe aspettati verso un’ex bandiera che al club aveva dedicato otto stagioni da calciatore, trenta da manager e cinque da presidente. Sì, c’era stato lo striscione «Mia san Uli» (noi siamo Uli), ma poco altro. In Champions, in casa contro il Barcellona, il cartello di un tifoso «Uli, io sto con te» e, all’intervallo, timidi applausi quando sul maxi-schermo era apparso un video di Hoeneß che applaudiva per un gol del Bayern. Nessun coro in suo favore però, e in generale un’atmosfera stranamente freddina, specie per gli standard bavaresi.


Un altro duro colpo alla competitività degli avversari Hoeneß lo aveva rifilato a inizio dicembre 1999. Firmò un accordo segreto con il gruppo Kirch, che all’epoca tramite le emittenti SAT.1 e Premiere trasmetteva le partite della Bundesliga. Il contratto televisivo garantiva al club bavarese l’equivalente di 15 milioni di euro annui per le prime tre stagioni. Dal 2003, la cifra sarebbe salita fino a 40 milioni l’anno. La ragione principale dietro l’accordo strettamente riservato era che il Bayern aveva acconsentito alla cessione collettiva dei diritti tv da parte della Lega dopo che, nell’estate 1999, lo stesso Bayern si era battuto per la cessione “individuale”, che al club avrebbe portato ricavi ben maggiori. In seguito, nel 2000, davanti alla Commissione di Lega lo stesso Hoeneß aveva invece appoggiato l’offerta di Kirch. Un’esposizione tale da spingere lo studio legale Lovells a rilasciare un comunicato da cui si arguiva che i bavaresi, sotto Hoeneß, erano stati “comprati” dal gruppo Kirch.

Il piano di cessione individuale era poi rientrato sulla resistenza degli altri club. Il Bayern (cioè Hoeneß) aveva agito come se fosse disposto a fare delle concessioni, ma poi aveva sottoscritto quell’accordo segreto. E fino al 2002, quando il gruppo Kirch fallì, circa 20 milioni di euro furono depositati sul conto numero 6105308, intestato alla Bayern Monaco Sport-Werbe srl presso la Hauck & Aufhäuser, la principale banca a cui la società si appoggia. Quello stesso anno, il 2002, per le sue attività benefiche e l’impegno sociale Hoeneß fu nominato Cavaliere al merito bavarese.

Hoeneß, al Bayern, ormai aveva voce in capitolo su tutto: accordi commerciali e sponsorizzazioni, contratti del personale e dei giocatori, budget per il centro di allenamento. Uli però non cercava munifici sponsor ansiosi di appiccicare i propri nomi e logo sulla maglia del Bayern; e neanche semplici partnership da cui spillare quattrini senza però fargli mettere becco nella gestione di squadra e società. Cercava solidità a lungo termine, e visioni condivise. Il Bayern doveva sì autofinanziarsi, e radicarsi nel territorio, ma in contiguità con le élite dell’imprenditoria locale. «È lui l’anima del club», sostiene Edmund Stoiber, capo del cda del Bayern oltre che ex ministro-presidente della Baviera ed ex candidato alla Cancelleria. E non a caso, a sostituire il dimissionario Hoeneß alla presidenza del consiglio direttivo è stato chiamato il ceo dell’adidas, Herbert Hainer.

Non si creda però allo stereotipo del super manager avido e senza scrupoli, capace di produrre utili al club per 21 anni consecutivi e al contempo dominare il calcio tedesco e, spesso, continentale: sotto la sua gestione sono arrivati 20 titoli in Bundesliga, 12 Coppe di Germania, 4 Supercoppe tedesche e una Europea, 6 Coppe di Lega, 2 Champions League, una Coppa UEFA, un’Intercontinentale e un Mondiale per club. Prima, di trofei importanti il Bayern ne aveva conquistati sette. E con lui al comando la società ha prodotto profitti finanziari fino a 430 milioni.

Hoeneß però è stato, ed è, tutt’altro. È uomo di quasi patologica ambizione e superiore intelligenza, ma con profonde radici “popolari” e sociali. L’abbonamento stagionale minimo per le partite del Bayern non arriva a costare 150 euro, meno di ogni club britannico: per l’Arsenal ne servono quasi 1500. Per il Barcellona ne bastano 100, ma i blaugrana contano su 140 mila socios. Il Bayern, che al mondo per numero di tesserati è secondo solo al Barça, vanta invece 270.329 azionisti, raccolti nella FC Bayern München eV (eingetragener Verein, associazione registrata), che controllano il 75% del club, a sua volta facente capo a una società per azioni, la FC Bayern München AG.



«Noi crediamo che i tifosi non siano vacche da mungere», è un altro suo mantra. Come sue sono state l’idea dei Fan Shop ufficiali e il catalogo da oltre 60 pagine e un milione di copie che ha contribuito a fare del Bayern, davanti a Manchester United e Real Madrid, il leader mondiale del merchandising calcistico. E siccome il Bayern – ribattezzato “FC Hollywood” per le bizze dei suoi campioni – le teste calde le tollera al più in squadra o in panca, ma non sugli spalti, è stato Uli a nominare un responsabile per comunicare e collaborare con i numerosi gruppi del tifo organizzato. 

Oltre al fiuto economico-finanziario, Hoeneß ha però affinato anche le sottili arti del diplomatico. Autoproclamatosi il «fronte offensivo» del Bayern, Uli attacca sempre per vincere e mai stravincere. Non cerca la rottura, ma il compromesso che soddisfi tutte le parti coinvolte, e a quel punto si trasforma nel più fedele degli alleati. Ecco perché il fatto che proprio Merkel e Seehofer avessero subito preso le distanze lo aveva amareggiato. Li aveva sempre difesi, e adesso, si chiedeva, dov’era finito il loro senso della decenza? Le campagne elettorali in vista delle elezioni federali (del settembre 2013) erano più importanti della lealtà?

Questo il manager che aveva fatto del Bayern il più importante club del paese, il dirigente illuminato capace di anticipare trend e sfide e diventare uno degli uomini più influenti di Germania, nel calcio e fuori. Per quanto preciso però, il ritratto non è completo. L’Hoeneß cuore di pietra, il freddo calcolatore interessato solo ai risultati (sul campo e a bilancio) è l’uomo pubblico che la massa conosce e spesso disprezza. In lui c’è però un altro lato, perché Uli del Bayern non è solo il cervello ma anche l’anima, il cuore, lo spirito. E tutto risale alle 19,45 di un maledetto mercoledì.


La sciagura di Hannover

Il 17 febbraio 1982, Uli fu l’unico sopravvissuto dell’incidente aereo in cui perirono tre dei suoi migliori amici: Helmut Simmler, 35enne direttore editoriale della Copress di Monaco, il 30enne pilota Wolfgang Junginger, bronzo ai mondiali di sci alpino nel 1974, e il co-pilota Thomas Kupfer, studente 25enne. «Quel giorno il ragazzo solare che era in me morì», dirà in seguito, ma quelli che lo conoscono bene sostengono che a morire fu piuttosto l’egoista che c’era in lui. 

Hoeneß era diretto a Hannover per assistere alla partita della Germania Ovest contro il Portogallo. Voleva vedere dal vivo in che condizioni era il suo vecchio compagno Breitner a pochi mesi dal mondiale e aveva invitato il presidente del Bayern, Willi Hoffmann. Hoffmann però, all’idea di volare con un bimotore a propulsore, aveva declinato. «In realtà volevo andarci – ricorda Hoffmann – ma poi rinunciai. Neanche Uli era sicuro di partire, aveva passato tutto il pomeriggio a discutere contratti con diversi giocatori e aveva deciso all’ultimo». Forse proprio perché aveva lavorato tanto, a differenza di Simmler si era sdraiato in coda per riposare. E quel pisolino gli aveva salvato la vita. 

Forse per insufficienza di carburante – in assenza di scatola nera, le vere cause del disastro non furono mai chiarite – il velivolo, un Piper Seneca a sei posti, era precipitato nella brughiera di Brelingen a circa 18 chilometri da Langenhagen, cittadina della Bassa Sassonia nei pressi di Hannover. Dopo lo schianto, una guardia forestale, al ritorno da una battuta di caccia, lo aveva ritrovato che vagava sotto choc: «Ho freddo, sto congelando», le uniche parole di Hoeneß, che ancora oggi nulla ricorda – né vuole raccontare – della sciagura. Breitner, che passò la notte al suo fianco in ospedale, racconta che la prima cosa che Uli, al risveglio, gli chiese fu: «Come ha giocato la nazionale?». Benino, dai: 3-1 con doppietta di testa di Klaus Fischer e autorete di Humberto (per anticipare Rummenigge); per i portoghesi gol, l’unico in nazionale, di Luis Norton de Matos.


La salvezza nella coda

Karl-Heinz Doppe, la guardia forestale che lo aveva salvato, non seguendo il calcio non lo aveva riconosciuto. Anzi, nemmeno sapeva chi fosse. «Quando mi dissero di chi si trattava, chiesi: “E chi è, Uli Hoeneß?”», ha raccontato a Die Welt (il Mondo). Da quel giorno Doppe ha preso l’aereo solo una volta, e per far contenta la consorte. Della volpe argentata appena cacciata che, scaldandolo, a Uli aveva salvato la vita, ne ha fatta una stola e l’ha donata alla moglie di Hoeneß «per ricordo. Senza di me, probabilmente il marito non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe morto d’ipotermia». Non essendo scoppiato l’incendio, e ormai nella piena oscurità, forse i quaranta soccorritori lo avrebbero trovato troppo tardi. Uli si era addormentato con la cintura di sicurezza slacciata, nell’impatto era stato sbalzato fuori e così si era salvato, cavandosela con nove giorni di ospedale, una commozione cerebrale, una lesione polmonare e fratture multiple alla parte destra del corpo. Da allora, se gli capita di volare con piccoli aeroplani, Hoeneß siede sempre in coda. A destra.


«Wohlfahrtsorganisation»

Sotto la sua guida, il Bayern pian piano e spesso in segreto era diventato quello che lo scrittore Dietrich Schulze-Marmeling ha definito «Wohlfahrtsorganisation», una sorta d’istituto per il welfare sociale. Nessun altro club tedesco ha giocato più amichevoli per beneficenza e più si è prodigato per la raccolta fondi da devolvere ai bisognosi. 

Da quando Markus Babbel se n’è andato al Liverpool sbattendo la porta, nel 2000, ha sempre ripetuto che mai avrebbe parlato male di Hoeneß: «Tra i top club in Europa, il Bayern è il più umano. Se c’erano dei problemi, si è sempre dimostrato generoso. Prendete Alan McInally, rimasto invalido (a un ginocchio) e senza assicurazione. Il club gli disse: “Ti daremo l’indennità di buonuscita”. Quei soldi non glieli dovevano, glieli donarono. Il nostro business manager è uno con cui di cose come queste si può parlare».

McInally non è un caso isolato. A fine 1987, il centravanti danese Lars Lunde ebbe un grave incidente stradale. Era chiaro che non avrebbe più giocato ai massimi livelli ma Hoeneß fece tutto ciò che poté per aiutarlo, e non solo finanziariamente. Per settimane se lo tenne in casa e avrebbe fatto qualcosa di simile parecchi anni dopo quando Mehmet Scholl aveva bisogno di aiuto, anche se in quel caso il problema (la depressione) era psicologico e non fisico. 

Hoeneß era stato anche la forza motrice del recupero di Gerd Müller dall’alcolismo. Fissando per l’ex compagno il primo ricovero in un centro di disintossicazione, e poi offrendogli un lavoro nelle giovanili del club nonostante i tanti lo avessero messo in guardia sulla presunta inaffidabilità di quello che un tempo neanche troppo lontano era Der Bomber. Müller però era un amico, che in Florida – non parlando inglese – s’era attaccato alla bottiglia per la solitudine, il traumatico divorzio dalla moglie Ursula, con cui molto tempo dopo si sarebbe riconciliato, e i problemi di tasse aggravati dal fallimento del suo ristorante. Uli non lo avrebbe mai abbandonato. 

Ora però che nel quadro generale è entrata la figura di “Big Mac” McInally, urge puntualizzare che nel Bayern a cavallo degli anni 80-90 non tutto era andato secondo i piani. Hoeneß talvolta aveva dovuto agire contro le proprie convinzioni e comprare, oltre che pensare, in grande. Successe perché, molto semplicemente, il Bayern non era riuscito a rimpiazzare Rummenigge, ceduto nel 1984 per 8,5 miliardi di lire all’Inter del presidente Ernesto Pellegrini. La lista di acquisti per provarci è lunga ed esotica: il gallese Mark Hughes, lo jugoslavo Radmilo Mihajlović, lo stesso “Rambo” scozzese McInally (nell’estate 1989 dall’Aston Villa per 1,2 milioni di sterline, cifra-record per i Villans), ribattezzato in patria McI-null-y o McI-nil-ly per l’idiosincrasia al gol, il colombiano Adolfo “El Tren” Valencia, persino un ex Pallone d’oro come il francese Jean-Pierre Papin. Tutti arrivati tra il 1987 e il 1994, e ripartiti dopo altrettanti fallimenti che procurarono al club la nomea di “cimitero dei centravanti”. Se c’è una cosa che lo stesso Hoeneß può rimproverarsi in trent’anni di Bayern, è non essere riuscito a trovare un erede di Gerd Müller. Una missione impossibile anche per lui.

“Il Tacco di Allah”

La vera, più profonda ragione per la quale il Bayern si sentiva obbligato a quei super acquisti in attacco era che, per quanto dominasse in campionato, in Europa non riusciva a ripetere i trionfi degli anni 70. Spesso le sue bestie nere erano britanniche. In semifinale di Coppa dei Campioni ’81 il Liverpool passò per i gol segnati in trasferta. L’anno dopo, l’Aston Villa vinse in finale. Nell’83, in Coppa delle Coppe l’Aberdeen di Alex Ferguson si dimostrò troppo forte e finì per conquistare il trofeo contro nientemeno che il Real Madrid. La stagione seguente, il Tottenham lo estromise dalla Coppa UEFA. E nel 1985, fu l’Everton a sbarrargli la strada in Coppa delle Coppe.

Poi ci fu la serata più traumatica – almeno fino a Barcellona ’99 – nella storia del club. Il 27 maggio 1987 al Praterstadion di Vienna, finale di Coppa Campioni contro il Porto. I tedeschi erano strafavoriti e Uli ebbe l’infausta idea di proclamare quella partita «l’alba di una nuova, grande era». L’allora presidente Frizt Scherer preparò in anticipo il discorso per la vittoria, e sembrava a ben donde quando, al 25’, Ludwig Kögl portò il Bayern avanti 1-0. Ma a 12’ dalla fine, un cross basso attraversò l’area bavarese. Spalle alla porta di Jean-Marie Pfaff c’era Rabah Madjer, l’attaccante algerino che cinque anni prima, al mondiale spagnolo, aveva segnato il famoso 2-1 sulla Germania Ovest. Quel gol era passato alla storia come la “Disgrazia di Gijón”. Questo, un felpato sinistro no-look, come “il Tacco di Allah”. Due minuti dopo, con il Bayern sotto choc, il Porto raddoppiò con Juary. Per i tedeschi, era finita. Anche un decennio dopo Hoeneß – fatalmente ignaro di quanto gli sarebbe toccato nel 1999 – definiva quella sconfitta la peggiore della sua vita.

Der Kokain-Affäre

Ma dello strapotere del Bayern e di Hoeneß c’era anche altro che a tanti in Germania non andava giù; ad esempio le ingerenze del gm in questioni generali del calcio tedesco, tipo la nomina del Ct. Nel 2000, esaurita la gestione-Erich Ribbeck, la federazione affidò la nazionale a Rudi Völler: contratto di un anno come traghettatore in attesa che dal Colonia si liberasse Christoph Daum.

Nessuno, tantomeno Rudi, vedeva Völler allenatore, e figuriamoci della nazionale; nemmeno aveva il patentino, ma era rispettato quasi quanto lo era l’imminente Team Chef Beckenbauer nel 1984, e persino più popolare del Kaiser. Nessuno lo avrebbe criticato per la probabile mancanza di risultati o per l’eventuale brutto calcio, perché era nuovo del mestiere e lì solo per un anno. Un piano perfetto per una DFB che sembrava tornata in controllo della situazione. Poi però a scuotere il paese ci fu il più grande scandalo del calcio germanico dalla storica combine del 1972.

Nel settembre 2000, un tabloid di Monaco pubblicò un articolo che gettava altro fango su Daum per una causa intentatagli da un ambiguo ex socio d’affari. Nel pezzo si rimestava nel passato di Daum, che aveva lasciato moglie e due figli per una cantante molto glamour, Angelika Cramm: 47 anni lui, 33 lei. L’articolo però conteneva una strana frase, lasciata un po’ a metà, che poteva essere interpretata come un legame tra Daum e l’assunzione di droghe. Lì per lì nessuno le diede peso, ma il primo ottobre Hoeneß rilasciò un’intervista nella quale chiedeva alla DFB di riconsiderare l’eventuale nomina di Daum come Ct. Hoeneß disse che se un giornalista si permetteva di insinuare, senza essere smentito, che Daum si faceva di cocaina, «allora mi meraviglierei. (…) E se qualcuno portasse delle prove, non potrei ignorarlo. Allora il signor Daum non potrebbe diventare l’allenatore della nazionale».

Hoeneß non disse mai che Daum aveva un problema di droga, ma è così che le sue parole furono interpretate. Hoeneß divenne all’istante il nemico pubblico numero uno. Fu fischiato e insultato in ogni stadio, e persino minacciato di morte. Daum, nel frattempo, sembrava perfettamente calmo in mezzo alla tempesta. Professò la propria innocenza ma lo fece basandosi sul principio che «è l’accusatore a dover dimostrare la colpevolezza dell’accusato». E rifiutò il suggerimento di sottoporsi al test del capello.

Tempo una settimana e cambiò idea, ma senza mai spiegare perché. Daum poi disse di essere stato ingannato: «Pensavo che l’avrei scampata». Venerdì 20 ottobre, a Daum e all’amico Reiner Calmund, il business manager del Bayer Leverkusen che di Hoeneß era competitor, oltre che sul mercato, anche nel gioco in borsa, furono consegnati i risultati del test. I due aprirono la lettera, la lessero e si guardarono l’un l’altro. «Non può essere!», gridò Daum. Calmund, con calma olimpica, gli rispose: «Ti serve aiuto».

La mattina dopo, sul presto, Daum s’imbarcò su un aereo per la Florida prima che la notizia della sua positività giungesse alla stampa. Mentre Daum era in volo, a Völler fu chiesto di prendersi carico, temporaneamente, anche del Bayer Leverkusen, che Daum allenava dal 1996. Non appena Völler si sedette in panchina a guardare il suo Bayer che batteva il Borussia Dortmund, si sapeva già che presto avrebbe lasciato il posto a un allenatore “da Bundesliga” (poi però il 12 novembre arrivò Berti Vogts); ma Rudi ormai era il Ct e lo sarebbe rimasto fino al 2004. Tutto questo a causa – anche – delle parole mai dette di Hoeneß.

A volte quelle da lui invece pronunciate somigliavano tanto a sentenze. Inappellabili. Per referenze chiedere agli “ex” bavaresi Jürgen Klinsmann e a Lothar Matthäus, che nel 2000 perse la causa contro il club per la sua partita d’addio. Quando il pupillo di Beckenbauer sembrava in corsa per la panchina del Bayern, Uli lo gelò così: «Finché io e Rummenigge saremo in carica, (Matthäus) qui non troverà lavoro neanche come giardiniere nel nuovo stadio». Più morbido, ma neanche troppo, sul biondo ex Ct, che il Bayern l’ha poi allenato dieci mesi (luglio 2008-aprile 2009): «Ci ha dato il corpo, mai la mente e figuriamoci il cuore», ha detto Uli al biografo di “Klinsi”, Michael Horeni. Salvo poi rivalutarne, almeno in parte, il contributo in un momento difficile della nazionale e dell’intero movimento. Nel 2004 il calcio tedesco aveva bisogno di punti fermi e di professionalità e Klinsmann «ha tagliato i costi, è intelligente e ha portato energia». Con il suo esonero però sono subito spariti i piccoli Buddha che l’alternativo Jürgen “Klapptnix” (Jürgen va-bene-niente, copyright del Bild Zeitung) aveva preteso al rinnovato centro di allenamento del club.

Senza appello

Per un uomo così potente e determinato, abituato a ottenere quel che voleva, sorprende ancora di più – ma forse solo a certe latitudini – che abbia rinunciato all’appello, suggerito invece dal suo pool di avvocati. Sul sito ufficiale il Bayern aveva emesso un comunicato in cui Hoeneß dichiarava che «dopo averne discusso con i miei familiari, ho deciso di accettare il giudizio della Corte Distrettuale di Monaco. E ho dato mandato ai miei legali di non ricorrere in appello, in linea con la mia idea di decenza, comportamento e responsabilità personali. Questa frode è stata il più grande errore della mia vita e posso solo accettare le conseguenze del mio stesso errore, di cui sono l’unico responsabile. Inoltre, con effetto immediato, per non danneggiare ulteriormente il club, mi dimetto dagli incarichi di membro del consiglio di sorveglianza e di presidente. Il Bayern è sempre stato la mia vita, e sempre lo sarà. Resterò in contatto con questo grande club e la sua gente in ogni altro modo possibile e finché vivrò. Con tutto il cuore ringrazio per il sostegno i miei amici e i tifosi».

Parole scontate e però sincere, che evitavano al Bayern l’imbarazzo di un presidente evasore a capo di una società che aveva fra gli azionisti fior di «capitani d’industria» come i boss di Volkswagen (non proprio delle verginelle, visti le tangenti e il sexy-gate del 2005 e lo scandalo emissioni diesel del 2015), Audi e adidas, qualcosa di più che uno storico sponsor/investitore. 

In maggio il board ne aveva respinto le dimissioni, ma pur considerando ancora l’ipotesi di un eventuale ricorso in appello, già l’aver ammesso l’evasione fiscale rendeva Hoeneß incompatibile con la presidenza. Il che però non significava che poi, una volta in semilibertà, Uli avrebbe smesso di lavorare per il club. 


«Nessuno è insostituibile – ha raccontato a Gabriele Marcotti nell’autunno 2010 in un’intervista poi ripresa nel marzo 2014 per The Wall Street Journal – Abbiamo lavorato tanto e siamo arrivati al punto di avere così tanti bravi collaboratori, che questo club può tranquillamente andare avanti con successo anche senza di me». Per il colorito ospite di talk show, che teneva conferenze da 30 mila euro l’ora (da devolvere in beneficenza), che amava definirsi «uomo d’affari onesto e di carattere», era cominciata un’altra vita. Scontata mezza pena (21 mesi) Hoeneß, che il 2 gennaio compirà 64 anni, tramite il suo avvocato Michael Nesselhau ha fatto richiesta per la libertà anticipata e a metà marzo 2016, due anni dopo le sue dimissioni, potrà uscire per buona condotta. Tornerà a mangiare sulla terrazza del Freihaus Brenner, ristorante vecchio di 140 anni a un’ora da Monaco. E ai vip boxes della Allianz Arena. Nulla però sarà come prima. «Mia san Uli». Nel toro e nell’orso.
Christian Giordano
Ultimo Uomo, 7 gennaio 2016




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