FOOTBALL PORTRAITS - Cesarini, i diari del Cè (2006)


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Storia e mito di un Maestro di calcio e di vita e di un’altra epoca, quando lo stile-Juventus non era soltanto un’astrazione ma una splendida realtà, anche e non solo vincente

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Guerin Sportivo ©

"La cosa più simile alla vita? Un campo di calcio. Lì ci sono tutti i personaggi". Come nella vita, non sorprende che anche lì quelli che vale la pena di conoscere siano pochi, e maledettamente difficili da trovare.

Deve quindi esserci qualcosa di speciale sui dolci pendii che proteggono Senigallia (Ancona) prima che essa si conceda al quieto Adriatico. 

Proprio lì, nella frazione di Castellaro, l'11 aprile 1906 comincia la straordinaria vicenda umana di Renato Cesarini, maestro di fútbol e di vita al quale da settant'anni si deve l'omonima "zona": gli ultimi istanti di gioco, in cui il - una volta in azzurro, tre in A - decise le partite.

A raccontarla, questa bella e per molti aspetti inedita storia, è il suo concittadino Luca Pagliari, che fino a pochi anni fa - per sua stessa ammissione - di Cesarini poco o nulla sapeva. E che strada facendo se n'è innamorato. Al punto da istituire in suo nome un premio, organizzare serate a tema, scriverne una biografia-tributo: Zona Cesarini. Il calcio, la vita. Tutto in onore di "el Tano", l'italiano, l'altro appellativo con cui don Renato viene ricordato (e venerato) in Argentina. Perché è la che con la famiglia emigrò in cerca di fortuna.

Lo fece, da Genova e a bordo del piroscafo "Mendoza", perché oggi in quella campagna dall'aria così anacronisticamente poco inquinata e dove il tempo pare scorrere più lento, ci si vive sin troppo bene - e gli affitti s'impennano di conseguenza - ma un secolo fa si faceva la fame. Specie il papà Giovanni, ciabattino, la moglie Annetta Manoni e la nuova bocca da sfamare. A Buenos Aires, nella Borgata Palermo, altro che golondrinas (le rondini, erano i lavoratori immigrati temporanei), Giovanni riprende a fare lo zapatero, mentre Renato, intelligenza e spirito libero non negoziabili, si guadagna la pagnotta come saltimbanco in un circo. Inutile aggiungere che, anche nella poco nobile arte del pallone, che presto imparerà ad amare, quella esperienza gli tornerà utile. 

“La mia università è stata la strada, e la vita di ogni giorno mi ha insegnato qualcosa. Basta saper guardare” è una delle massime di quest’uomo infinitamente romantico – da intendersi nella più vasta accezione del termine, compresa quella di inguaribile sciupafemmine – e dal carisma innato. Omar Sivori, uno dei protagonisti di queste pagine, lo considerava un padre. Ed è solo il più famoso in una lista interminabile di personaggi non solo calcistici.

Al pallone Renato si avvicina da adolescente come giocatore della squadretta chiamata come il quartiere dove è sbarcato. Poi, passa al Chacarita Juniors, con cui nel 1925 conquista la promozione in prima divisione. Fantasista dotato di un bel destro e discreto fisico (1,72 x 70 kg), colpo di testa, tecnica e grinta, il 29 maggio dell’anno dopo, 2-1 al Paraguay, raccoglie la prima delle due presenze (un gol) nella Seleccion argentina. A fine 1929, per 40.000 lire di ingaggio, e 4.000 di stipendio mensili, lo acquista la Juventus.

Prima, però, Renato chiede un anticipo e compra casa ai familiari: padre, madre e sorella. In Italia, raggiunta sul transatlantico “Duilio”, sbarca il 27 gennaio 1930. Debutta in campionato il 23 febbraio (2-2 a Napoli) e disputa sei stagioni. Le prime cinque finiscono con il titolo.

È la grande Juve del Quinquennio, resa spettacolare dalle giocate del duo d’attacco che Cesarini forma con l’oriundo argentino Mumo Orsi. In bianconero Renato gioca 147 gare (54 le reti segnate), in azzurro 11 (3 gol). L’esordio con l’Italia avviene il 25 gennaio 1931, Italia-Francia 5-0. Ma la gara più memorabile è quella contro l’Ungheria del 13 dicembre di quello stesso anno. Si gioca nella sua Torino e lui firma il al 90’ il gol della vittoria per 3-2. Era nata la Zona Cesarini.

Rientrato in patria, vince col River Plate il campionato nel 1936 e nel 1937, nel 1938 smette di giocare e si mette ad allenare le giovanili del club. Tempo due anni e, assieme all’altro mito Carlos Peucelle, è alla guida della prima squadra. Tre titoli nazionali (1941, 1942 e 1945) e la gloria imperitura dovuta alla leggendaria Máquina: così era stato soprannominato l’attacco di quella formazione straordinaria passata alla storia per appena diciotto, ma indimenticabili, partite.

Nel 1946 si sposa, a Montevideo e con rito civile, con l’attrice Yuki Nannba, l’amore della vita che evocherà anche in punto di morte. Nello stesso anno torna alla Juve ma da allenatore. Due secondi posti in due anni manco fosse un Carlo Ancelotti ante litteram, ma dietro il Grande Torino, e la perla di aver fatto esordire in A, il 3 febbraio 1947, Giampiero Boniperti. Di nuovo in Argentina, dove la conoscenza dello scibile calcistico gli vale gli appellativi di “Maestro dei maestri” e “Biblia del fútbol”. Nel 1952 integra nel settore giovanile del River Plate il 17enne Omar Enrique Sivori, il suo figlioccio prediletto. Cinque anni dopo, è responsabile della scuola calcio di Pordenone e Umberto Agnelli non resiste: dall’anno seguente lo rivuole alla guida della Juve, al posto dello slavo Ljubiša Broćić. Nel 1960 è doppietta campionato-Coppa Italia, ma in dicembre Renato si dimette.

Da gennaio cerca invano di salvare il Napoli, poi arriveranno i Pumas dell’Universidad del Mexico (UNAM), la sconfitta (4-2) in finale di Copa Libertadores del suo River col Peñarol.

L’epilogo della sua carriera furono le cinque gare da Ct della nazionale argentina, presa nel 1967 e lasciata l’anno dopo per divergenze con la federazione.

Quello della sua romanzesca vita, dopo una breve malattia, arrivò a Baires il 24 marzo 1969. Da allora riposa al cimitero di Chacarita, a un passo dal campo dove i palloni iniziarono a parlargli della vita”.


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