Ohio, là dove si elegge il presidente Usa


È lo Stato decisivo, dove hanno vinto tutti gli ultimi Numero Uno della Casa Bianca. Oggi crisi economica e rabbia sociale possono favorire Donald Trump 

DI ALBERTO FLORES D’ARCAIS

Lo chiamano “Mother of Presidents”, perché ha mandato alla Casa Bianca sette suoi figli nativi e perché nel macchinoso sistema di voto degli Stati Uniti i suoi (18) “voti elettorali” sono (quasi) sempre decisivi. Anche quest’anno - come da tradizione - candidati, media, opinione pubblica e finanziatori seguono con un occhio di riguardo quanto accade in Ohio, lo Stato del Midwest che è da sempre una cartina di tornasole per sondare gli umori e la pancia degli Stati Uniti. E che quando vota (a maggioranza) un candidato sceglie - praticamente sempre - quello che sarà il presidente.

Dalla vittoria a valanga di Lyndon B. Johnson contro Barry Goldwater (1964) a quelle di Bill Clinton fino all’avvento di Obama, i democratici sanno che se vincono nelle contee tra Cleveland, Cincinnati, Akron e Toledo la Casa Bianca sarà al 99 per cento loro.

I repubblicani hanno un’altra certezza: mai un candidato del Grand Old Party è stato eletto presidente senza aver vinto l’Ohio. Il “Buckeye State” (l’Ohio ha questo nickname per via degli ippocastani, che danno anche il nome a una delle squadre di football universitarie più amate degli States) dalla guerra civile ad oggi 33 volte su 37 ha votato il presidente poi eletto, per trovare un’eccezione recente occorre risalire al 1960 quando Richard Nixon vinse in Ohio ma perse le elezioni contro John F. Kennedy.
Cosa ha di particolare questo Stato per essere diventato una sorta di “cabala” politica, con un mantra («chi vince in Ohio vince la Casa Bianca») ripetuto in modo un po’ ossessivo ogni quattro anni, nessuno lo sa dire con certezza. Tra i cinquanta States della federazione a stelle e strisce è il settimo per popolazione, il 34esimo per estensione, montagne inesistenti (il picco è di 472 metri), un fiume (l’Ohio) che evoca i western anni Cinquanta e una popolazione a larga maggioranza bianca. È quest’ultimo punto quello su cui occorre iniziare a ragionare per capire come mai il suo elettorato sia tanto corteggiato.

È qui, dove inizia il Midwest con le sue sconfinate praterie, con i silos e i granai che si annunciano miglia dopo miglia, con le sue città industriali in decadenza, che poche decine di migliaia di elettori possono fare la differenza, decidere i destini futuri dell’America e - di conseguenza - anche quelli del mondo intero. È qui, nei bastioni della Rust Belt - la “cintura arrugginita”, un tempo culla dell’industria del nord-est che dalla regione dei Grandi Laghi arriva fino alla povera West Virginia fino a delimitare gli Stati del sud - che i cristiano-evangelici hanno cambiato (prima negli anni di George W. Bush e poi con la deriva del Tea Party) l’essenza stessa della base elettorale repubblicana. E che oggi sono, tra molte contraddizioni (difficile identificare Trump, i suoi trascorsi, i suoi divorzi, i suoi costumi e la sua vita sociale con la fede religiosa evangelica) parte decisiva di quella base elettorale che ha portato il tycoon di New York a vincere nettamente le primarie e che adesso spera di compiere il miracolo di farlo entrare alla Casa Bianca da presidente.

La strada più breve che da Cincinnati porta a Toledo è la “Interstate 75”, circa duecento miglia a grandi corsie che da sud a nord taglia l’Ohio verso il Michigan, ma per capire meglio gli umori del Buckeye State è sempre stato utile seguire la “Old Dixie Highway”, un tratto della grande arteria (oltre 9mila chilometri) che collega Chicago a Miami. Chiunque visiti l’Ohio - per lavoro, per le fiere o per lo sport, turisti classici non se ne vedono mai troppi - si accorge da anni di quanto le crepe della società civile siano palpabili. In alcuni casi, come nelle vecchie periferie abbandonate di Toledo, nei ghetti (non solo neri) di Cleveland o nei sobborghi di Akron sconvolti dal ritorno massiccio dell’eroina, ci si rende conto di come nelle città dell’Ohio vivano due società quasi parallele: una che si batte, con buoni successi, per trasformare quelle che la crisi ha ridotto a cattedrali nel deserto in una nuova e post-moderna economia (a iniziare dal digitale), l’altra sempre più ai margini e sempre più disperata. Tra i bianchi di quella che era un tempo l’aristocrazia operaia del Midwest o di una middle class impoverita e che non vede futuro, queste due società si sono ritrovate unite sotto la bandiera di Donald Trump, i suoi slogan populisti e anti-governativi, il suo essere visto come il candidato che dice la verità (opposto alla “bugiarda Hillary”), che denuncia le élite politiche (comprese quelle repubblicane) e che promette di rendere di nuovo grande l’America (e di conseguenza l’Ohio).

Quella che in altri Stati per Hillary Clinton è una grande forza, qui diventa una debolezza. Perché l’ex First Lady stravince (sempre di sondaggi e intenzioni di voto parliamo) tra gli afro-americani, nella comunità ispanica e tra le donne con più elevato livello di istruzione e perde nettamente tra i maschi bianchi. In Ohio, però, le minoranze contano poco: il numero dei neri è in media con quello nazionale, ma sono tradizionalmente poco inclini a votare, i latinos (elettoralmente sempre più decisivi) sono pochini, solo il 3 per cento (il dato nazionale è circa il 17). Inoltre tra gli Stati che sono determinanti per la vittoria (oltre a Ohio, Florida, Pennsylvania, Virginia, Colorado) è quello che ha il più basso livello di laureati e diplomati.
In Ohio vincerà dunque Trump? Non è detto e i sondaggi che si sono susseguiti negli ultimi tre mesi non aiutano a fare chiarezza. Tra i due candidati c’è stato un sostanziale testa a testa, prima avanti Hillary poi The Donald, dopo una settimana il contrario e dopo un mese posizioni di nuovo ribaltate. Nelle contee del sud, le tradizionali roccaforti del Grand Old Party, la vittoria di Trump appare piuttosto scontata, in quelle del nord - a ridosso del “democratico” Michigan - dove Obama ha fatto l’en plein nelle ultime due elezioni Hillary si gioca il tutto per tutto (in tre settimane ha visitato quattro volte l’Ohio).

Non è detto che il Buckeye State sia decisivo il prossimo 8 novembre, in queste elezioni la mappa elettorale sembra destinata a essere ridisegnata. Se invece come da tradizione lo sarà, visto che la vittoria dell’una o dell’altro candidato si giocherà su poche migliaia di voti, potremmo anche non saperlo subito. Il numero degli early votes (quelli che hanno votato anticipatamente) è leggermente diminuito rispetto al 2012, i provisional ballots, le schede che arrivano via posta (i militari all’estero dell’Ohio sono oltre 200mila) verranno contate per ultime. Sono alte le probabilità che i grandi network tv usino la classica formula del “too close to call”, troppo vicini per un risultato certo. A meno che The Donald non decida di rendere reale la minaccia più volte ripetuta, quella di gridare ai brogli e non accettare un risultato per lui negativo. Ma questa sarebbe tutta un’altra storia.

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