Il senso dei belgi per il ciclismo


Simone Basso
Il Giornale del Popolo, venerdì 30 marzo 2018

La domenica di Pasqua, il primo aprile, ci introduce all'altra settimana santa, quella del ciclismo. L'uno-due Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix è lo zenit ideologico di tutto il movimento: la Ronde poi, nel bel mezzo della campagna del Nord, a mo' di simbolo identitario di una terra, le Fiandre, e di una nazione (il Belgio) che ingloba due mondi paralleli, talvolta ostili.

CARTOLINE DAL BELGIO

Bruges (Brugge), Gand (Gent), Harelbeke, Charleroi, Liegi, Lovanio. Le piazze colme alla partenza delle gare raccontano, meglio di un'analisi sociologica, il senso del ciclismo (e della vita) per i belgi. Un'idea, totalizzante, della corsa ciclistica come metafora e sentimento collettivo.

Il Belgio, oggi più che ieri, sempre più centro di gravità permanente e aleph di questo sport: a dispetto del marketing globale, dei soli undici milioni di abitanti, delle contrapposizioni culturali e politiche.

File di appassionati, dalle pantere grigie ai ragazzini, competenti, che riconoscono uno a uno i corridori, non solo i grandi campioni, con la cartolina o la foto pronte per l'autografo.

Una passione fanatica che si riverbera nella produzione, continua, di atleti, una genia a sé, nati pronti.

Non ci si può esimere dalla fortunata definizione di flahute, espressione gergale francese che descrive(va) i veltri belgi, fiamminghi soprattutto, negli anni Quaranta: Briek Schotte, per esempio.

Corridori, ex contadini o ex minatori, figli di una concezione darwiniana dell'agonismo e dei luoghi.

Le stradine agricole, la polvere e il fango, l'acciottolato, i muri, i marciapiedi e i binari dei tram negli attraversamenti cittadini, i ventagli.

Un paesaggio caratteristico, iperrealista, duro, tra campagne e città, antico e moderno, non può che generare - per osmosi - i Rik Van Looy e i Roger De Vlaeminck: archetipi di ciclisti con il coltello sotto la sella, funamboli, generosi e spietati, pirateschi.

Il belga scende in strada e partecipa, si identifica, con i Greg Van Avermaet, che usano le avversità come ostacoli, tra miniere chiuse e tetti aguzzi al pari di guglie: un'ipnosi sulla corsa, su quell'attimo, che rimanda a una considerazione (al solito, geniale) di Charles Baudelaire.

"Bruxelles? Molti balconi. Ma nessuno al balcone (...). Del resto, che cosa potrebbero guardare in strada?" La risposta, un secolo e mezzo dopo, è: una qualsiasi gara di biciclette.

PANEM ET CIRCENSES, EDDY, LA POLITICA, FIANDRE E VALLONIA

La Ronde, summa teosofica di tutto ciò, prospera felice e dinamica.

Dal 2012, cercando le svanziche (tante), si conclude in quel di Oudenaarde: un arrivo logisticamente perfetto ma anonimo; in compenso, col doppio passaggio sul Vecchio Kwaremont e il Paterberg, il Fiandre è diventato ancor più selettivo e impietoso.

Panem et circenses, le tribune naturali di quei muri permettono di ricavare più soldi dalla festa.

Migliaia di persone, appollaiate come pellerossa in agguato, che attendono il gruppo (o meglio, quel che ne rimane) e bevono (fiumi di birra), mangiano, scommettono e pisciano.

Un appuntamento tribale, per una terra, paragonabile in Europa solamente forse con la Streif - a gennaio - per lo sci alpino, il Tirolo e l'Austria.

Sembra un disegno della sorte che il più forte di sempre, Eddy Merckx, malgrado fosse fiammingo, crebbe (per qualche anno) cittadino di Bruxelles, nel quartiere di Woluwe Saint-Pierre. Merckx dunque, simbolo di un Belgio intero, al di là dei campanilismi e delle divisioni.

La storia stessa del Giro delle Fiandre, che mai sospese la competizione negli anni dell'occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, racconta l'ambiguità (collaborazionista) di quel periodo.

L'Omloop Het Volk, concepita nel 1945, organizzata da un giornale socialista, nacque per reazione. Oggi, quel contrasto politico e sociale è stato cancellato, o messo dietro le quinte, dalla portata nazional-popolare dell'evento Ronde.

Esemplare la gestione mediatica dell'evo di Tom Boonen e Philippe Gilbert, stereotipi contemporanei del fiammingo e del vallone.

Tommeke, un'icona, ballerino strapotente delle pietre, e Phil, l'emblema della versatilità fra i classicomani: entrambi fenomeni, ma a loro agio in categorie differenti e poche volte sovrapponibili in una stagione, e saggi nell'assopire una rivalità dai contorni scissionisti.

FLAHUTE E GUTTALAX

Il pavé e i muri di lassù, non solo per gli indigeni, sono l'università del ciclismo. Il corridore professionista diventa adulto sgomitando, tra una curva e una strettoia, limando nel plotone, esercitandosi nei trucchi (anche i più inconfessabili e truci) per rimanere davanti, nel cuore dell'azione.

Flahute ad honorem, forestieri, sono stati pochi. Tre, nell'ultimo mezzo secolo, si staccano dagli altri: Francesco Moser, Sean Kelly e Fabian Cancellara.

E non è contraddittorio che i primi due, lo Sceriffo di Palù e il rosso irlandese, non siano mai riusciti a vincere il Fiandre, una maledizione che rinnova il fascino perverso di quello scenario.

Nel 1980 l'italiano sbriciolò la concorrenza sul caro, vecchio, Geraardsberger, il Muur per eccellenza. Nel momentum, solo Jan Raas e Michel Pollentier riuscirono a stargli in scia. Il finale, shakespeariano nell'anima, vide l'allora campione del mondo, lo zelandese Raas, scommettere sulle gambe del terzo incomodo, l'outsider: preferì la vittoria di Pollo, pedalatore (di)sgraziato quanto efficace, al trionfo dell'irresistibile Moser. Pollentier, a un passo dal traguardo di Meerbeke, ci provò due volte: l'ultimo scatto, telefonato, a settecento metri dall'arrivo, colse Moser spazientito dalla marcatura a uomo del succhiaruote Raas. Fu una beffa: primo Pollentier, secondo Moser, terzo Raas.

Il politicamente corretto non è mai stato nelle regole dei flahute, e se adesso marchi, radioline e tattiche normalizzano la contesa, c'erano tempi nei quali l'agguato era la prassi.

Un bel manifesto della ferocia, dell'odio competitivo, tra fiamminghi, divenne un episodio laterale (?) al Mondiale di Montreal (1974). Merckx strafavorito, che poi vinse, aveva come luogotenente il rampante (e fortissimo) Freddy Maertens. Che a metà gara era là davanti, in fuga con Bernard Thévenet e Tino Conti: Gust Naessens, il massaggiatore del Cannibale, gli passò il rifornimento. Nella borraccia, l'acqua era stata arricchita (...) da uno spruzzo di lassativo, così che, quando Merckx si sbranò i francesi e il terzo titolo iridato pro', Maertens - ritiratosi - scontasse una (punitiva) dissenteria. Le regole non scritte, ma tramandate, del flahute valgono e valevano ovunque: anche nel lontano Québec.

LA PASQUA DELLA RONDE

Ronde 2018 dal canovaccio abbastanza chiaro: la Quick-Step Floors ha le armi per comandare - dall'inizio alla fine - la sfida. Gli uomini di Patrick Lefevere, da fine febbraio, caratterizzano le classiche fiamminghe usando più punte, all'attacco e di rimessa. 

Tre di loro, Philippe Gilbert (campione uscente e con una gamba super), Niki Terpstra (vincitore a Le Samyn e all'E3 Harelbeke) e Zdenek Stybar, potrebbero sfruttare la superiorità numerica (evidente). A patto che si mettano d'accordo...

Gli avversari proveranno a sparigliare le carte, esplorando al meglio la teoria del caos che caratterizza il Giro delle Fiandre.

Greg Van Avermaet, ancora a secco nella stagione, alla Gand-Wevelgem si è prodigato nella selezione per poi rimanere isolato nel finale.

BMC, con uno Stefan Kueng essenziale (augurandoci che la sua sia l'ultima campagna del Nord da domestico...), Lotto-Soudal (a favore dell'emergente Tiesj Benoot, dominatore alla Strade Bianche) e l'EF-Drapac (capitanata dal vessatissimo Sep Vanmarcke) sembrano le più adatte alla gara d'assalto.

Altri, molto veloci allo sprint, a cominciare dal campione del mondo Peter Sagan, per la terza volta primo alla Wevelgem, sceglierebbero una tattica più attendista (così anche Arnaud Démare, Alexander Kristoff, Christophe Laporte eccetera).

Sarà interessante osservare come si muoveranno la strana coppia Sky (Michal Kwiatkowski e Gianni Moscon), l'esordiente (sigh) Vincenzo Nibali fresco re di Sanremo e i giovani leoni ancora senza scalpi di prestigio (Jasper Stuyven e Oliver Naesen su tutti).

Il resto è nel vento di follia che caratterizza questo monumento al ciclismo più tosto: al Fiandre basta una caduta, magari innocua, per far saltare il banco.

Simone Basso
Il Giornale del Popolo, venerdì 30 marzo 2018

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