CIPOLLINI. RE LEONE RUGGISCE ANCORA



Sabato 21 febbraio
Pietro Illarietti, da tuttoBICI di febbraio
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Abbronzato e in forma lo è sempre stato, piacione pure, così rilassato raramente. È un Mario Cipollini godibilissimo quello che abbiamo incontrato a Milano, in un pranzo tra amici in un hotel del centro. L’occasione è quella di un evento aziendale, con DHL, colosso della logistica e delle spedizioni espresse da 55 miliardi di euro di fatturato. Volevano un campione del ciclismo co­me testimonial e il Re Leone, a 48 anni suonati e a 10 dal ritiro, è ancora uno di quei nomi che fanno breccia anche nel cuo­re dei non addetti ai lavori. Ha saputo dare spettacolo alla sua maniera in un’insolita giornata con il rugbista Andrea Lo Cicero. Riuscire a organizzare un blitz, accompagnarlo in hotel e pranzare insieme è un’occasione da non lasciarsi scappare. Lo riconoscono tutti, parcheggiatori, uscieri e la gente in sala. Un bello spot per un ciclismo che scarseggia di personaggi. Basta po­co per dare il “la” ad una lunga chiacchierata che ci porta ad un viaggio nel tempo coinvolgente.

«Mi sento bene - racconta Super Mario - come se fossi nato due mesi fa. Un nuovo me stesso, dopo aver attraversato fasi della vita personale abbastanza dure. Alzarsi nel cuore della notte e non vedere le tue figlie che dormono, causa separazione dalla moglie, fa ma­le, ma poi ritrovi il tuo equilibrio. Ci vuol tempo ed un grande lavoro su se stessi. Ora abitiamo vicini e cerco di fare il papà appena possibile, compatibilmente con gli impegni».

Un infortunio al ginocchio appena su­perato con brillantezza e una visione del ciclismo più rilassata. «In inverno mi piace sciare, ma appena il meteo lo permette sarò in sella. Seguo poco le vicende del nostro mondo che è sempre più trainato dai paesi anglofoni. Personalmente non vedo l’ora che inizino le gare».

Sarà perché alle corse ci arrivava sempre super concentrato, che questo Ci­pollini così loquace sulle prime è spiazzante. Il discorso parte da molto lontano. Quando suo padre lo portava a ve­dere le gare. Una Sanremo di cui si è in­namorato, osservandola da dentro al cappotto di papà, per ripararsi dal freddo a bordo strada. Lui, il babbo, era un buon corridore, che si alzava presto per andare a gareggiare la domenica. Par­tenza all’alba, in bici da San Giusto per arrivare a Pistoia, affrontare Nencini, e rientrare a casa di notte con un prosciutto di premio. 

«Ho sempre respirato ciclismo - racconta il campione del mondo di Zolder -. I miei primi ricordi, anche quelli più lontani, sono co­munque legati alla bici. Un mondo vissuto sempre da dentro. Le emozioni della Sei giorni di Milano, dove correva mio fratello Cesare. Nel 1976, ho conosciuto Merckx, Saronni, Moser. Salivo sulle loro bici e pedalavo stando nel triangolo del telaio, non toccavo altrimenti i pedali. Un ciclismo non fatto di riviste, ma di personaggi veri, leggendari come Alfredo Martini e Luciano Pez­zi, che da noi era di casa. Passava a prendere Cesare per portarlo in ritiro. Parlo di gente di spessore, colti, sensibili ed eccezionali portatori di una saggezza che non era presente nel mondo agonistico. Al primo posto mettevano sempre l’uomo, poi il corridore».

Il lucchese è profondo nei suoi ragionamenti, è legato al suo ambiente. Lo ama visceralmente. È ben lontano dall’immagine di uomo da spiaggia che tante volte gli è stata cucito addosso. Capendo il patrimonio che alberga den­tro di lui, vien da chiedersi perché l’ambiente lo abbia quasi messo in di­sparte. Eppure è competente, ha un grande palmares, carisma e fama. «Non sono un personaggio di facile gestione - butta lì con immediatezza -, io non mi farei condizionare da logiche di sponsor o dinamiche federali. Non sarei un buon C.T. per via del fatto che non sono diplomatico. Quando sei un atleta è diverso. Fai sacrifici e quella fatica è la tua forza per poter pretendere dagli altri. Ora è cambiato tutto».

Ci vuole poco per far affiorare con forza i ricordi del corridore. «Anche all’interno della mia squadra ero odiato e amato perché pretendevo la perfezione. Non ero uno che stava fermo e la stessa cosa la pretendevo dagli al­tri. Ad esempio non esisteva che un meccanico non avesse un tipo di sella e che aspettasse la spedizione dallo sponsor, il materiale doveva essere a disposizione prima che lo chiedessi. Così come non volevo, nei periodi di preparazione, che il personale si distraesse».

Cita alcuni dei suoi uo­mini come Roberto Len­cioni detto “Caru­be” e Marcello Mugnai­ni. «Avevano il passo giusto anche se non sono mancati i confronti accesi. In quel periodo però seguivo un mio percorso, ben chiaro nella mia mente, e volevo che gli altri stessero al passo».

Lo stesso per i compagni di squadra che grazie allo stimolo del campione hanno saputo tirar fuori il 100%. Tanti i piloti nelle sue pazzesche volate. «Fagnini era un ciocco di ulivo grezzo e lo abbiamo re­so un corridore, Bennati un giovane che ora è ancora in gruppo e lavora per Contador, Lombardi - considerato spre­muto dalla Telekom - si rilanciò, così come Martinello che nessuno voleva a fi­ne carriera ed ha vinto le Olim­pia­di. Volevo che loro fossero sempre al top, perché se non avevano le gambe per portarmi ai 300 metri al meglio avrei perso la corsa».

Esigente con se stesso, e con chi lo preparava. «Mettevo in difficoltà anche loro. Facevo tantissime domande, volevo capire e non mi accontentavo mai di risposte asciutte. Ho lavorato con di­ver­si preparatori: Conconi, Ferrari, quando si poteva, Zenoni e Cecchini. Ognuno aveva una sensibilità diversa, ma nessuno come Michele (Ferrari, ndr). Lo sentivo al telefono e lui capiva come stavo. Come preparatore il numero uno che arrivava a farmi fare ripetute da 12” o da 25”, un’interpretazione dell’atleta sconvolgente, come se ti os­servasse attraverso una lente. Parlo di metodologia dell’allenamento, non di altri discorsi».

Metodologia ma anche metodica. Tan­to rigoroso da far impressione mentre rilancia con altri interessantissimi particolari. «Quando mettevo a fuoco l’obiettivo allora pensavo a mio padre, al­la sua abnegazione nella vita sul ca­mion. A quel punto giravo un interruttore e volevo arrivare alle corse consapevole di aver fatto il 100%. Anche il sesso passava in secondo piano, la mia ex moglie lo può confermare. C’erano tanti dettagli. Ad esempio, se preparavo la Sanremo, mi alzavo alle 6 del mattino co­me nel giorno della corsa per tut­to il mese precedente. Via dalla die­ta le bibite gasate, l’acqua doveva essere sempre a temperatura ambiente. Fa­cevo preparare delle tartine con pasta di mandorle vera, a Lucca, per me e per il team, perché in corse lunghe quel tipo di alimento era l’ideale. In altre fasi avevo dei gel che arrivavano direttamente dagli USA, insomma volevo essere avanti. Il primo ad aprirmi gli occhi su questo mondo fu Giosuè Ze­no­ni in occasione dell’ingresso in Na­zionale, ma la mia voglia di imparare e ricercare era nata ancora prima, quando ancor giovanissimo mi ero fatto fare dei plantari apposta ed il byte per via di una caduta da ragazzino in cui mi ero rotto i denti davanti. Da lì il mio palato non si è sviluppato correttamente. Un peccato perché senza quel problema averi potuto essere più esplosivo anche nei prologhi». 

Maniaco nella preparazione e nella programmazione della stagione. «La mancanza di programmazione mi mandava in bestia. Ero disposto a fare 300 chilometri di allenamento prima di una Milano Sanremo e per questo già a di­cembre volevo la squadra in ritiro con me. Ho dettato le regole come un allenatore in campo. In pratica facevo pure da diesse. Chiedetelo a Ivan Gotti come ho guidato la squadra durante il Giro d’Italia vinto nel 1997 anche grazie all’esperienza che avevo maturato con Franco Chioccioli (Giro del 1991, ndr)». 

A questo punto il Cipo, straordinariamente ispirato aggiunge: «Dirigere Ci­pollini era uno spasso, il diesse non doveva fare nulla, se non pensare alla logistica».

Una qualità che tutt’oggi gli viene riconosciuta tanto che alcuni direttori lo chiamano durante le corse. «Ancora ci azzecco e difficilmente sbaglio la previsione su come si evolverà una gara».

Il discorso è fluido e il campione, tra un complimento alla responsabile della sala da pranzo e un piatto di riso, mette ancora più a fuoco alcuni passaggi della sua carriera interminabile e ric­ca di soddisfazioni. «Credo di aver raggiunto il massimo della mia crescita nel periodo della Saeco, la maturazione totale alla Domina Vacanze». 

Due periodi diversi e ben sintetizzati con la lucidità che contraddistingue il toscano. «Nel primo periodo ero in una grande squadra e convivevo con campioni da grandi giri. Al mio fianco uomini di spessore come Giuseppe Cal­caterra, Mario Scirea, Gianmatteo Fagnini. Ognuno aveva un ruolo distinto. Calcaterra era un grande atleta, al passaggio tra i prof non si sapeva se il campione del futuro fosse lui o Bugno. Scirea era l’equilibrio, un fratello. Un rapporto alla pari, tra Mario e Mario. Fagnini il talento da tenere in riga, e quando la Telekom lo ingaggiò se lo prese per 900 milioni di lire».

E poi la maturazione e una stagione inimmaginabile. «In Domina per la pri­ma volta ho avuto un team tutto per me. La svolta è arrivata con il successo della Milano-Sanremo. A quel punto per me si era chiuso un discorso im­portantissimo: avevo onorato la promessa fatta a mio padre anni prima. Mio padre che per dieci anni era rimasto in coma. Un dolore pazzesco».

Da quel mese di marzo la stagione in­credibile di Super Mario deflagra. «La vittoria più bella resta la Gand-We­lgevem, ma lì avevo una tranquillità totale grazie all’effetto Classi­cis­sima».

A seguire un’estate tormentata con l’annunciato ritiro ed il ri­tor­no con il successo Mon­dia­le di Zolder, perla fondamentale in qualunque carriera ma che per l’occasione, e per la ricchezza dell’esposizione pas­sa via qua­si in secondo piano.

Mentre la sala da pranzo si svuota il toscano non accenna ad allentare con la sua ricostruzione ma a quel punto è inevitabile il paragone con il ciclismo moderno ed i campioni del momento.

«Mi piacciono gli sprinter alti, possenti. Ora c’è Kittel che mi ricorda molto me stesso. Se potessi avvicinarlo gli di­rei che è troppo alto nella parte anteriore della bici ed in questo modo non sfrutta tutta la potenza delle braccia. Cavendish invece per me potrebbe es­sere in calo. Per lui sarà la stagione decisiva e infatti si è allenato tanto. Se si fosse scontrato ora con me non cre­do avrebbe potuto fare la sua “palla”. I compagni lo lanciano a 62 all’ora, Sci­rea e il mio treno quasi arrivavano a 70. Dico di più: la mia impressione è che allora eravamo all’università, ora mi sembrano le scuole medie. Dico questo basandomi sui fatti. Ho iniziato nell’89, c’erano Saronni, Planckaert, Kelly, Freuler. Poi sono arrivati Jala­bert, Ludwig, Capiot, Blijlevens, Mu­seeuw, Abdoujaparov, Nelissen, Mi­nali, Leoni. Infine Petacchi, Cavendish. Tutta un’altra storia se penso solo al fatto che oggi ho 48 anni, vado in bici per diletto e stacco certi professionisti».

Ci sono alcuni aspetti che però il campione riconosce al ciclismo attuale. «È migliorata la comunicazione, i team so­no attrezzati e hanno organizzazioni solide. Se penso che la mia prima copertina su Bicisport me la sono guadagnata dopo sei anni di professionismo e più di sessanta vittorie. Colbrelli l’ha avuta per un 13° posto al Mondiale...».

E una considerazione su cosa gli piacerebbe fare. «Vorrei essere al fianco di un giovane, ad esempio Aru, come men­tal coach. Secondo me può migliorare alcuni aspetti, anche della postura in bici. Quando scatta è scomposto, se sistemasse questo aspetto potrebbe prolungare ulteriormente la sua performance massima». 

Si sta facendo tardi, il tempo è volato. Mario deve tornare in Toscana e poi vo­lerà in Australia. Noi rientriamo in redazione con talmente tanti spunti che la testa rimarrà a pensare parecchio.

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