I pionieri del ciclismo a stelle e strisce


Domenica prossima, si corre a Richmond, in Virginia, la prova iridata dei professionisti: è l'occasione per rievocare le storie degli antesignani del pedale statunitense

di Paolo Bruschi, 25 settembre 2015

In Butch Cassidy, il western crepuscolare con Paul Newman e Robert Redford che narra la parabola terminale del leggendario fuorilegge e del suo sodale Sundance Kid, il protagonista a un certo punto scorrazza con la bella Katharine Ross sul manubrio di una bicicletta, accompagnato dalle soavi note di Raindrops Keep Fallin' On My Head. La scena marca il tramonto dell’epoca romantica dei pistoleri, l’arrivo della legge e della moderna società industriale, rappresentata per l’appunto dal destriero a pedali, che Newman non a caso introduce a Ross come “il futuro”. 

Si tratta di un inciso che rimanda a una verità storica, poiché alla fine del XIX secolo gli Stati Uniti furono colti dalla prima frenesia a due ruote, che però non si tradusse in un movimento sportivo paragonabile a quello del Vecchio Continente. 

Non a caso, i campionati del mondo furono organizzati (e dominati) dagli europei a partire dal 1921 e la prima volta che varcarono l’Atlantico fu nel 1974, in Canada. Negli USA, sono tornati quest’anno, nella sede di Richmond, in Virginia, a quasi trent’anni di distanza dall’edizione inaugurale del 1986. Erano allora venuti a maturazione gli effetti del nuovo boom scoppiato fra il ’72 e il ’74, quando si vendettero più biciclette che automobili, anche per l’accresciuto prezzo della benzina dovuto alla crisi petrolifera. 

Si pedalava soprattutto nelle maggiori aree urbane, a Chicago, New York, Boston, dove le associazioni ciclistiche, per iniziativa degli immigrati, nascevano come funghi sulla base di divisioni nazionali: nei plotoni che sciamavano per le città in quelle corse pionieristiche, i corridori si rivolgevano l’un l’altro in tedesco, italiano, francese e fiammingo. 

Finalmente la pratica di massa si tradusse in un’aristocrazia agonistica degna di questo nome e, come sarebbe poi successo per la ritorno in auge del calcio nordamericano una decina di anni dopo, furono le donne a fungere da apripista. 

Rebecca Twigg divenne l’atleta su due ruote più famosa del paese. Veloce, intelligente (saltò le superiori e si iscrisse all’università a 14 anni) e attraente, costrinse i mass media a occuparsi di uno sport misconosciuto. Cresciuta dalla madre con pochi mezzi, ricevette la sua prima bicicletta a un’asta della polizia e quando gliela rubarono, le due donne si misero sulle tracce del ladro, sgattaiolarono nel suo giardino con il favore delle tenebre e si ripresero il maltolto. Nel 1982, a 19 anni, fu la prima maglia iridata della storia degli USA, grazie al titolo nell’inseguimento. Ai Giochi di Los Angeles del 1984, nella prova su strada, dovette però cedere allo sprint alla connazionale Connie Carpenter, che aveva rifiutato le auto-emotrasfusioni allora consentite e che forse costarono l’oro a Rebecca, cui il sangue era stato prelevato troppo a ridosso della gara. Le dolorose e persistenti conseguenze di una brutta caduta, la convinsero al ritiro a soli 26 anni.  Tornò quando seppe che l’inseguimento era stato inserito nel programma delle Olimpiadi del 1992 e nove mesi di preparazione la issarono al bronzo. Inanellò il quinto mondiale a inseguimento l’anno dopo e l’ultimo, a Bogotà nel settembre 1995, arrivò addirittura in circostanze epiche. Pochi mesi prima, cadde rovinosamente in allenamento e si frantumò la clavicola. Per accelerare il recupero, i medici le applicarono una placca di titanio con sette viti di fissaggio e durante l’operazione rimossero alcuni frammenti ossei che pericolosamente vagavano in un’arteria. Così puntellata, Twigg scese in pista con la solita feroce determinazione e sull’anello colombiano mise in riga tutte le avversarie, conquistando l’oro con il nuovo record del mondo a spese dell’italiana Antonella Bellutti.  

Per varcare la soglia di genere e fornire ai maschi americani un idolo in cui identificarsi, ci volle invece un paisà arricchito, venuto dalla provincia marchigiana. Sedotto dalla Marylin Monroe di Gli uomini preferiscono le bionde, nel 1957, Ferruccio (Fred) Mengoni comprò un biglietto di sola andata per New York, dove accumulò ingenti fortune comprando e rivendendo di tutto, fino a diventare un magnate del mercato immobiliare. La passione per la bicicletta ne fece il fondatore del professionismo a stelle e strisce, che generosamente finanziò e guidò a lungo come presidente della federazione nazionale (i meno giovani ne ricorderanno lo slang caratteristico nelle interviste ad Adriano De Zan quando seguiva i suoi pupilli in Europa). In Central Park, regalava biciclette ai ragazzini sbandati e sceglieva i migliori per la sua squadra di dilettanti, fino a che fu abbagliato da un biondino slavato e ossuto proveniente dalla California. Lo consigliò e lo blandì, sperando di ingaggiarlo per il suo team, ma il ragazzino passò professionista ancora adolescente e si accomodò in Francia, alla corte di sua maestà Bernard Hinault. Il fuoriclasse in nuce era Greg LeMond e imparò così bene dal campione bretone da far uscire gli USA dalla condizione di minorità che avevano fino ad allora occupato nel panorama ciclistico internazionale. 

Nel 1982, a Goodwood, fu il primo americano a salire sul podio di un mondiale, quando fu battuto solo dalla splendida sparata finale di Giuseppe Saronni. L’anno dopo, ad appena 22 anni, mollò un’illustre compagnia sulla salita conclusiva del circuito di Altenrhein e vestì l’iride dopo un entusiasmante cavalcata solitaria. Sarebbe divenuto il primo statunitense a finire il Tour de France fra i primi tre e poi a vincerlo nel 1986, quando relegò alla piazza d’onore il sommo Hinault, cui invece aveva prestato un aiuto decisivo l’anno precedente allorché il francese aveva incamerato la sua quinta Grande Boucle

All’apice della carriera, nell’aprile 1987, LeMond parve perso per lo sport dopo un incidente di caccia. Scambiato per selvaggina dal cognato, si beccò una scarica di pallini nel fianco e nella schiena e solo l’intervento dell’elisoccorso lo sottrasse a morte certa per dissanguamento. Subì due delicate operazioni e otto settimane dopo tornò in sella. Aveva sofferto la vera paura e il vero dolore e la strada per rimettersi in sesto gli pareva una passeggiata. Fu però più lunga del previsto, con frequenti ritorni all’indietro e interventi su un corpo che sembrava esser entrato in sciopero. La sua nuova squadra olandese minacciava di licenziarlo, lo riteneva ormai irrimediabilmente imbrocchito. LeMond accettò di guadagnare meno e si sistemò con una formazione belga di più modeste pretese. 

Fu schierato al via del Tour de France nel luglio del 1989, con la speranza di finire fra i primi venti. Con sua stessa sorpresa, concluse ai piedi del podio il cronoprologo e impiegò la prime facili tappe per rifinire la condizione. Si difese sui Pirenei e le Alpi dai forsennati attacchi di Laurent Fignon e Pedro Delgado, li staccò nelle prove contro il tempo e giunse all’ultima tappa con un ritardo dal transalpino di 50 secondi. Li aspettava l’ultima crono di 25 chilometri. Nessuno era disposto a scommettere un franco sull’americano e alcuni giornali francesi prepararono le prime pagine per l’indomani con Fignon a braccia levate. Alla partenza, con l’intenzione di procedere al massimo senza fare il minimo calcolo, LeMond chiese all’ammiraglia di essere tenuto all’oscuro dei suoi intermedi e dei tempi del rivale. Scelse una ruota lenticolare posteriore e montò il manubrio usato dai triatleti. Indossò un casco allungato per aumentare il coefficiente aerodinamico, mentre Fignon lasciò che il suo caratteristico codino di capelli biondi dondolasse al vento. Rinserrato nella sua capsula di ostinata concentrazione e di supremo sforzo, LeMond sfrecciò per il breve tracciato evitando di volgere lo sguardo alla folla che presentiva l’impresa agli annunci dello speaker. Chiuse alla media oraria più alta mai registrata e attese Fignon, che crollò esausto dopo il traguardo e scoppiò in lacrime: per soli otto secondi, il più ristretto margine nella storia ultracentenaria del Tour de France, fu il californiano a sfilare da vincitore sui Campi Elisi. Dopo che in settembre ebbe vinto il suo secondo mondiale su strada, la celebre rivista Sports Illustrated lo incoronò sportivo dell’anno, onore che per la prima volta nella storia toccava a un pedalatore nella terra del baseball e del basket. 
Paolo Bruschi

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