Parliamo di doping senza paura di essere fraintesi!


Il sistema repressivo dei controlli è un peso che graverà sul ciclismo sempre di più. I corridori non vogliono l'abolizione del servizio ma una regolamentazione più umana e soprattutto una più «umana» compilazione del calendario

di MARIO FOSSATI
BICISPORT, anno 2, n. 6, giugno 1977

Doping! Un flagello dello sport moderno che i puristi vedono imperversare soltanto nel settore del ciclismo. Un giorno i poteri pubblici decisero di combattere il doping. Questa autentica crociata contro le ombre venne compiuta con ostinazione, con tenacia, con furori calvinisti nel nostro sport. I puristi scattarono nel tardo dopoguerra.

I «super» della bicicletta sono campioni di eccezione. Ebbene i «surhommes» si sono trovati alle prese con i problemi del doping, sotto ogni aspetto, il più anodino come il più pericoloso, il più criticabile come il più comprensibile.

Le risultanze, gli esiti dell'antidoping, positivi o negativi che fossero, hanno avuto sempre (o quasi) le caratteristiche di sentenze, basate su prove di non assoluta certezza, freddamente espresse, che non tenevano conto delle cause ma piuttosto degli effetti.

Fausto Coppi, mi aveva detto, nel corso di una lontana Parigi-Nizza: «Lo chiamano doping. Per me è medicina sportiva».

Fausto Coppi, che ha reinventato e forse ucciso il ciclismo su strada, trafsormandolo in veloità, ma prolungata nello spazio, voleva tutti i mezzi a disposizione per andare forte, sempre più forte. Voleva estendere la soglia della resistenza, della sensibilità alla fatica, ad ogni costo. E non esitava ad esperimentare su se stesso ogni ritrovato che avesse (se così può dirsi) una base scientifica.

Io credo che Coppi fosse l'atleta, lo sportivo che più ne sapesse in fatto di ergogeni medicamentosa (termine con cui i medici battezzano quello che volgarmente si chima doping). Coppi chiedeva la opinione, l'apporto di tutti: dal massaggiatore dai rimedi eroici, al medico, allo scienziato. Coppi faceva dello sport professionistico anche una questione di tecnica moderna, di scienza.

In quegli anni scrivevamo: nello sport professionistico ottenere il meglio dai propri mezzi con il conforto della scienza è lecito: è delittuoso perseverare fino ad intaccare il proprio fisico.

Quell'operazione che si chimava antidoping - la raccolta dell'elemento organico con analisi e contranalisi - scattò attorno al '60. Il metodo era poliziesco. Precise erano le sole sanzioni punitive che facevano untulmente seguito ad analisi e contranalisi discutibilissime, che i periti di mezzo mondo si divertivano a confutare.

Da parte autorevole si invocava un limite di liceità. Ma quale poteva essere il rapporto fra limite di liecità e risultato?

Un calendario mostruoso, le caratteristiche di questo sport basato sullo sforzo, sulla fatica, che non tiene alcun conto, unico al mondo, delle condizioni ambientali, atmosferiche, in cui si svolge, inducevano gli atleti a fare ricorso ad additivi dinamici. I dirigenti dotti di senso pratico consigliavano di raggiungere un giusto mezzo fra... l'acqua minerale e la "dinamite".

Le federazionisorfe, ottuse, continurono la politica del bastone. Il doping, non v'era dubbio, andava (e va) combattuto. Ma niente di peggio, per combatterlo, che entrare nella lotta con astratto furore. Siamo arrivati, in tal modo, alla punizione (squalifica con condizionale) ante-Giro per sei campioni: Maertens, Merckx, Pollentier, Sibille, Kuiper, Planckaert. Il controllo medico aveva stabilito che essi avevano trangugiato, alla Freccia Vallone e al Giro del Belgio, lo "stimul", farmaco proibito.

La reazione dei sei si è estesa a macchia d'olio. L'associazione corridori ciclisti professinisti italiani, guidata da Fiorenzo Magni, ha indetto allora un convegno, apertoa  scienziati, farmacologi, dirigenti, corridori, che la federazione ha snobbato. La federazione ciclistica si è concessa, infatti, il lusso di essere l'assente. Non è però detto che, fra gli innumerevoli giochi, quello di nascondersi sia sempre il più riuscito.

Il dibattito fu civilissimo. Il professor Mussini convenne con i corridori che l'antidoping non brillava per uniformità e modernità di analisi. Il professor Garattini, scienziato di chiara fama, notò con soddisfazione che gli interventi dei corridori interessati - Merckx, Gimondi, Santambrogio eccetera - dmostravano maturità e competenza notevoli. L'antidoping, a suo avviso, doveva ormai assumere una forma e una linea educative.

Il dottor Quarenghi, dello staff medico dell'Inter, sostenne che la miglior protezione o difesa dell'atleta la si fa attraverso l'allenamento, scientificamente condotto e controllato. L'avvocato Sardo propose, nella fase di studio, la soppressione di ogni sanzione punitiva.

Io credo che il convegno dell'A.C.C.P.I.  debba rimanere negli annali per l'apporto che ha arrecato alla corretta applicazione dell'antidoping. I belgi, attraverso l'avvocato Gooris, hanno chiesto una "umanizzazione" del calendario (il suo alleggerimento insomma): una lista unica, definita di farmaci proibiti; l'uniformità, la sicurezza dei metodi di analisi (non è affatto provato che le metodologie siano eguali): due accuratissime visite mediche nel corso dell'anno per i corridori professionisti (che comportano anche l'eventualità di interdizione temporanea o definitva della carriera). Le richieste sono stte raccolte in comunicato: il comunicato è stato inolltrato ai vertici. Fra tanti rumori, frastuoni, ansie, che accompagnano l'antidoping, una parola saggi, chiara. Che qualcuno la raccolga.
MARIO FOSSATI

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