Francesco Rossignoli: oh capitani, miei capitani
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Veronese di Isola della Scala, classe 1963, Francesco Rossignoli ha corso da professionista sei stagioni (1989-1990). Buon gregario, è stato in squadra con Visentini e Roche alla Carrera e poi compagno di Roche alla Fagor ’89 e ha chiuso la carriera insieme a Visentini alla Componibili-Club 88 nel 1990. Quell’anno ottenne, su pista, la sua unica vittoria da pro’: il campionato italiano nell’inseguimento. Con il fratello Paolo ha fondato la Pieffe Sport, calzificio specializzato nella produzione tessile per il ciclismo.
“Rossi”, così lo chiama ancora oggi il suo ex compagno Davide Cassani, lo incontro alla presentazione della Tolmezzo-Sappada, 15ª tappa del Giro d’Italia 2018.
Auditorium di Cima Sappada
Sappada (Udine), sabato 28 aprile 2018
- Francesco Rossignoli, dopo trentun anni il Giro torna – come arrivo di tappa – a Cima Sappada: le sue emozioni?
«È sempre una bella emozione ricordare il Giro d’Italia, le tappe, gli amici con cui si è corso. E poi anche queste situazioni un po’ particolari di cui siamo stati protagonisti, anche se involontari, però è un bel ricordo».
- Che squadra era quella Carrera?
«La Sky del giorno d’oggi? Era una squadra molto forte, anche se non si possono fare paragoni tra il ciclismo d’oggi e quello di trent’ani fa. Non si possono fare neanche con il ciclismo di dieci anni fa, però era una grossa squadra. Un’ottima squadra. C’era la possibilità di fare delle ottime esperienze, tutte le corse. Era uno squadrone».
- Quella tappa dell’87 è rimasta nel ricordo degli appassionati, degli addetti ai lavori: che cosa successe, vista da un corridore di quella Carrera?
«È una cosa molto strana, perché era una cosa che non ci si aspettava neanche noi dall’interno, perché non c’erano stati segnali di qualcosa che potesse fare pensare a queste cose qua. Sono state cose molto strane. Tra l’altro io durante la tappa avevo forato in discesa ed ero rimasto un po’ indietro perché non c’era l’ammiraglia che mi cambiava la ruota. Perciò sono arrivato un po’ dopo, non dico all’oscuro però non sapendo tutto quanto. E appena arrivato, non so se Quintarelli o Boifava, mi han detto: non parlare con la stampa. Al che io rimasi un po’ sorpreso: ma perché mai dovrei parlare io con la stampa? Parleranno con Roberto [Visentini], parleranno con Stefano [Roche] che comunque sono arrivati davanti e sono i protagonisti. Perché mai non dovrei parlare io con la stampa? Perciò rimasi molto sorpreso di questa direttiva da parte dei dirigenti della squadra. Poi tornando all’hotel si son messe insieme un po’ tutte le cose. È stata una situazione un po’ particolare».
- Quella sera lì, all’hotel Corona Ferrea, che atmosfera c’era? Un po’ pesantina?
«Direi proprio di sì. Anche perché era impossibile sdrammatizzare, perché Roberto era arrabbiatissimo. E dire arrabbiatissimo forse non rende bene l’idea, ed è comprensibilissimo, per carità. Perciò non avevamo molte alternative anche perché bisognava vincere il Giro, non è che potessimo pensare di fare qualcos’altro. Bisognava vincere, portare alla fine, anche perché era dall’inizio, tranne due tappe, che avevamo la maglia e avevamo lavorato. Potevamo portare a casa, anzi sicuramente portavamo a casa primo e secondo posto, però mancavano ancora parecchie tappe. Perciò la situazione non era delle migliori. Si cercava di tenerlo il più tranquillo possibile, però…».
- Tito Tacchella cosa vi disse? Roberto o Stefano, ma la maglia rosa va portata a casa?
«Era l’unico imperativo. Tutto il resto non interessava, bisognava portare a casa la maglia rosa, poi ha detto: i conti li facciamo alla fine del Giro. Però non ci sono alternative, l’unico obiettivo è portare a casa la maglia. E non era diversamente».
- Si è parlato molto di una squadra nella squadra, il cosiddetto “Team Roche” di Stephen con il suo gregario Schepers e il meccanico-massaggiatore-tuttofare Valcke; ma dal punto di vista tattico, nei giorni successivi voi cosa dovevate fare in corsa?
«Per noi non cambiava nulla. Non c’era un Team Roche, oppure, per carità, magari c’era qualcuno, come Valcke, che giustamente era dalla parte di Stephen, però per noi non è cambiato nulla: lavoravamo per la squadra prima, e lavoravamo dopo, sempre per due capitani. Perché per noi erano due: Roche e Visentini. Perciò non è cambiato nulla».
- Invece per lei è cambiato qualcosa con quella caduta alla Vuelta ’88? Lei poi l’anno dopo passò alla Fagor con Roche.
«Sì, in una tappa velocissima, corsa a cinquanta km/h di media, nella volata ho trovato una persona davanti alle transenne. L’ho toccata con la spalla, mi son girato, sono andato giù di schiena, ho battuto la testa. Ho fatto tre o quattro giorni di cui non ricordo nulla. Avevo ferite molto, molto serie, fortunatamente poi è andata bene. Sono dovuto stare fermo, per obbligo del medico, parecchi mesi. Ho ripreso ad allenarmi alla fine dell’anno però poi la squadra non mi ha rinnovato il contratto e ad aprile sono andato alla Fagor, con Roche. Da aprile in avanti ho fatto tutta la stagione, Giro e Tour compresi».
- Che ricordi ha di quella Fagor?
«Era una grossa squadra anche quella lì. Lo sponsor era una grossissima azienda basca, però non c’era quell’organizzazione cui forse eravamo abituati. Io penso che le squadre italiane abbiano insegnato, siano state le prime a organizzarsi in una determinata maniera. Poi forse hanno imparato meglio di noi. E ora sono più bravi di noi, all’estero».
- Con Roche e Visentini siete rimasti amici?
«Sì, con Roberto ci sentiamo, ogni tanto ci si telefona. Ho mantenuto ottimi rapporti con entrambi, ma sono due caratteri totalmente diversi. Roberto aveva una classe infinita, avrebbe potuto ottenere tantissimo di più, ma lui era fatto così. Non lo potevamo cambiare. Quando lui correva era difficile, non correre con lui, perché magari dovevi starci assieme, ma era difficile da proteggere: stava sempre per conto suo, là all’aria, a destra o a sinistra ma sempre ai lati della strada. Era difficile. Roche programmava molto di più, era molto più attento ai particolari. Roberto invece no. Tutti e due grandi campioni, però. I risultati lo stanno a dimostrare».
- E con Roche vi sentite?
«No, ma non perché ci sia qualche motivo, probabilmente per la distanza. Magari a Natale ci si mandano gli auguri, ma come si fa anche con altri ex compagni».
- Mi racconta la rimpatriata per il trentennale, con quasi tutti i membri di quella Carrera, alla cena del 30 settembre 2017?
«È stato molto bello, anche perché con alcuni ci si sente, ci si trova, magari pochissime volte ma ci si vede. Con qualcun altro, tipo Pedersen, Schepers – Roche l’avevo visto qualche anno fa – erano venticinque anni che non si vedeva. Perciò i cambiamenti si notano molto di più [sorride]. È sempre molto bello ritrovarsi con delle persone con cui si sono divise fatiche, vittorie, soddisfazioni, perché si è mantenuto un buon rapporto».
- Che cosa fa Rossignoli oggi? È ancora nel ciclismo?
«Ho un’azienda che produce calze sportive, in particolare per il ciclismo. Sono rimasto nell’ambiente anche perché ho ottimi rapporti. Seguo una squadra juniores, da cui l’ultimo uscito è un certo Elia Viviani. Con gli atleti abbiamo anche un rapporto di collaborazione perché, oltre a farlo io, anche loro testano i nostri materiali».
- Lei è di Isola della Scala come Elia Viviani. Che effetto fa a un veneto sapere che Sappada dal dicembre 2017 non è più in Veneto ma in Friuli?
«Molto bello [ride, ma svicola]. A me piace la montagna, io adoro questi posti».
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