Giancarlo Ferretti - Ho fatto piangere "Ferron"


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA PER RAINBOW SPORTS BOOKS ©

È stato più che un ex gregario e un fuoriclasse da diesse. È stato, di un'epoca, la personificazione stessa del tecnico in ammiraglia. In un'epoca per sua fortuna a lui successiva, lo avrebbero definito un «vincente», qualsiasi cosa ciò voglia dire. 

Romagnolo sin nel midollo, è stato dipinto per decenni un Sergente di ferro e lui, lo confessa, spesso ci ha anche giocato. Per i suoi corridori ha significato tutto ma anche niente perché per lui niente valeva starne lontano. Ha moltissimo corso e molto vinto. Per andare sempre a tutta, al Tour lui e il suo storico meccanico Piero Piazzalunga son finiti con l'auto in burrone, e in gruppo qualcuno ha finto di non vedere, se proprio non s'è voltato dall'altra parte. 

Ferretti però, nel bene e nel male, è stato un pezzo di storia del ciclismo. E che pezzo. 

Uno così, piaccia o no, è nato per comandare. E se per disgrazia vi capitassse mai d'andar in guerra, qualsiasi guerra, lo vorreste più alleato che nemico. Poco, ma sicuro.

Lo incontro a pranzo in uno dei suoi ritrovi storici, dove preparava le corse, la stagione, appena fuori dell'uscita dell'autostrada. Comodo per tutti e per non perder tempo. La logistica non s'abbandona mai, neanche ora che diesse lo è ancora, ma solo dei suoi amati cani. Ci lasciamo con ua promessa e un regalo, per me, inatteso. Mi dice che mi farà avere la sua autobiografia e mi saluta regalandomi un librone su Fiorenzo Magni. Pochi giorni dopo mi arriva a casa il pacco con il suo libro, "Mi chamavano Sergente di ferro". Ferron è uno di parola. E nonostante qualche sua inevitabile balla detta qua e là nell'intervista, io non ne ho mai dubitato.

Hotel Molino Rosso
Imola (Bologna), lunedì 5 febbraio 2018

- Giancarlo Ferretti, lei che corridore è stato? Un gregario storico di Felice Gimondi e poi? Glielo chiedo perché in pochi sanno, o parlano, del Ferron corridore.

«È giusto che sia così, perché Ferretti corridore era un aiutante. Io ho avuto l’opportunità, importante per me, di gareggiare per quattro, cinque anni con Gimondi. Dormire in camera sua, fare qualche vacanza con lui e la sua signora e la mia signora. Sono diventato…».

Ci interrompe il cameriere che ci porta il caffè. Ferron lo voleva lungo ma il ragazzo se n’è dimenticato e glielo porta normale. Ahia. Si prevede bagarre, come in certi finali di gara dei suoi ragazzi. Invece il Sergente di ferro non dico si scioglie, ma perdona: «Lassa ster, va la’, però sta’ più attento». Ferron è sempre Ferron. Anche sul traguardo del caffè.

Il cameriere: "Mi scusi, gliele ne porto subito un altro".
«No, lo bevo così, però, t’ho detto: sta’ più attento…». 

Ecco, appunto. Poi, Ferron riprende.

«Son diventato amico anche di Merckx. Ci siamo ubriacati, assieme. Andavo sempre in camera sua, quando eravamo nello stesso albergo; ché lui voleva sapere di Gimondi».

- E Gimondi magari voleva sapere di Merckx.

«Mi diceva: “Vai, vai, così mi sai dire”. Quando avevamo finito, tutti e due ci eravamo detti un sacco di bugie, io non dicevo la verità a lui e lui non la diceva a me, però nel frattempo si beveva qualcosa e si fumavano le sigarette».

-  Quando invece Ferron è diventato il "Sergente di ferro"? Lei ci ha un po’ marciato, con questa fama, vero? Perché lei tutto è tranne che un sergente di ferro.

«Certo. In un primo momento fu Adriano de Zan, altra persona squisita per me… E io mi commuovo».

Ferron scoppia a piangere. Alla lettera. Sacramenta contro il povero, incolpevole registratorino audio che fa saltare sbattendo le mani sul tavolo: «Spenga!». Poi, in un attimo, com'era esploso si ricompone.
Io abbozzo: “Guardi che non c’è niente di male a commuoversi. È sempre stata la sua forza...”.
Ferretti però torna subito Ferron e ancora in lacrime mi stoppa con un immortale “solo gli asini non piangono”. Una lezione di passione e umanità impossibile da dimenticare.

Ritento l’affondo, con dolcezza: “Le fa piacere questa intervista, sì? Sennò, mi fa sentire in colpa”. E così ripartiamo.

«È la mia storia. Sono i ricordi della gente cui ho voluto bene».

-  E che le ha voluto bene…

«Una vita di trent’anni di amicizie. E poi, che cosa avevo io? Io m’innamoravo della mia gente. L’affetto, la stima incredibile, per tutti. Io sono una persona un po’ strana».

- Questi trent'anni e passa di ciclismo le sono costati molto dal punto di vista degli affetti familiari? Essere sempre via da casa...

«No. Via da casa, no. No, perché io ho sempre avuto – per me – un pregio: quando avevo una cosa in testa, era quella. Il ciclismo, per me, è stata la mia vita. Sono stato sul punto di dividermi con mia moglie, ho due figli cui voglio molto bene, uno ha quarantatré anni, l’altra quarantaquattro, ma sono cresciuti senza il padre vicino. Questa è una cosa che mi dispiace, adesso. Mi è dispiaciuta subito dopo, ma quando correvo non ci pensavo. A me piaceva vederli, mi piaceva tutto. Però, quando andavo a correre in bicicletta, avevo i corridori».

-  Quando era a case dalle corse si sentiva un leone in gabbia?

«No, non sono mai stato in gabbia, io. Quando ero a casa sono andato a fare qualche vacanza coi miei figli. Ma in trent’anni, in vacanza son andato tre, quattro volte. Le altre, non avevo tempo. Nella mia testa. Non è che non avessi tempo, volevo star coi corridori, perché mi piaceva, era il mio mondo. Perché mi davano soddisfazione, perché vincevamo, perché tutte ’ste robe: era una cosa grande, per me. È stata una cosa grande».

-  Lei fuori onda mi ha detto che vincere era la cosa più importante, perché chiunque faccia sport – e tanto più a livello professionistico – vuole vincere. Però per lei, se non si riusciva a vincere, qual era l’altra cosa subito dopo più importante?

«Dovevamo essere quantomeno protagonisti. A volte nelle squadre ci sono più protagonisti. E per fortuna. Sono quelli che fanno la corsa bella, vivace, dura, la corsa che non si sa mai come finisce o chi vincerà. Quelle sono le corse belle. E per quello, per fare le corse così, noi abbiamo marciato molto con quell’ordine, con quel sistema, con quel metodo. Non dobbiamo vergognarci di come abbiamo corso, anche se siamo andati piano, perché ci sta. Io con la doppia squadra facevo duecentosessanta giornate di gara. Quando si corre due volte in un giorno… Vincevamo cinquanta corse l’anno. E le altre duecentodieci le perdevamo. E allora uno non può pensare sempre di dire “eh, siamo stati protagonisti”. Lo eravamo. Lo siamo stati tante volte, ma… quando tocca l’ora del cucco, la prendevamo anche noi. A malincuore».

- Rispetto ai primi anni a un certo punto lei si è un po’ disinteressato alla classifica generale dei grandi Giri, preferiva puntare alle vittorie di tappa o alle classiche. Era perché aveva quel tipo di corridori? O perché lo riteneva un obiettivo più utile per lo sponsor, o meno rischioso?

«No. Vincere una grande corsa a tappe per me era una cosa molto bella, la cosa più bella. Però io credevo - e ne sono ancora convinto - di non avere il corridore che poteva vincerla. Se devo mettere chi deve fare la classifica, gli devo dedicare la squadra. Io gli dedico la squadra e poi questo mi arriva quinto, quarto, terzo. Secondo, era difficile. E allora io mi gioco un Giro d’Italia a fare classifica e tutto, e arrivo terzo? No-no-no: niente Giro. Tappe. E ne vincevo quattro o cinque. E siamo arrivati a nove nello stesso Giro. Nove tappe al Giro d’Italia».

-  Quando, per esigenze di sponsor e perché aveva quel tipo di corridore, lei ha dovuto far lavorare la squadra per Alessandro Petacchi.

«Non era nella mia indole, nel mio modo di correre. Io facevo un ciclismo d’attacco, sempre in fuga, mi piaceva questo, la corsa vivace eccetera. Stavo attento, cercavo di capire… Facevo finta di fare a botte con uno: se lei fa a pugni bisogna che glielo dia bene, quando l'altro non se lo aspetta. E anche un attacco in corsa: bisogna che tu attacchi dove tutti credono che sia o troppo facile o troppo difficile. E stiamo attenti. Se è troppo facile, lo metto, così t’inculo. Se è troppo difficile, e bisogna andar piano per non cadere, be’, io magari cado, però vado forte. Questo era il mio metodo. E ci riuscivamo. Ci siamo riusciti».

-  S’è fatto tanti “nemici” in corsa? Ha pestato dei calli con questo suo andare sempre all’attacco?

«No, sapevano come correvo. C’è stato soltanto un corridore, che stimavo e che stimo, che è Saronni. Aveva una buona squadra, sapeva correre ed era un velocista che vinceva. Un giorno, mi ha non aggredito ma mi ha detto: “Ma perché mi corri contro?”. Perché io, se voglio vincere, non corro contro te. Corro per vedere se riesco a vincere e per vincere bisogna non arrivare in volata. E se arriviamo, dobbiamo arrivare che non ci sia Saronni, perché ci batte. È questo il modo di correre. E mi disse che mi avrebbe scritto sul libro nero. Io gli risposi che ne avevo due, di libri neri. E il discorso finì lì».

- Ci sono stati altri “Saronni” nei suoi libri neri in quei suoi Giri? A proposito: quanti ne ha fatti?

«Dieci in bicicletta e trenta a seguirli con l’ammiraglia».

-  Quindi non ci sarà stato solo Saronni?

«Saronni voleva vincere. Era forte. Quando era giovane aveva una grandissima squadra. Aveva un gregario, Roberto Ceruti. Era la fine del mondo, quel ragazzo: fortissimo. E il suo direttore sportivo era il più grande dei miei amici, Carlo Chiappano. Tutte le volte che arrivavamo in albergo, se avevo vinto mi chiamava e mi diceva: “Hai vinto, sai perché? M’è mancato Ceruti”.
E dopo un po', "ho perso. Lo sai perché ho perso? Perché questo e quest’altro e quell’altro".
"Oh, Carletto, qualche volta dimmi che ho vinto perché i miei son stati bravi, c’hai sempre una scusa", dicevo. E questo era. E poi la sera ci vedevamo ancora in albergo o fuori da qualche parte».

- A Saronni il suo patron Del Tongo diceva che per loro il Giro di Puglia era più importante del Tour de France, evidentemente perché gli interessi commerciali del mobilificio erano in Italia. Mi racconta le differenze tra il Giro e il Tour dei vostri tempi?

«Mi dispiace che Del Tongo non abbia capito che il Tour era più importante del Giro di Puglia. Anche in Puglia. Però fra il Giro d’Italia e il Giro di Francia, io - che sono italiano, amo l’Italia, mi piace il ciclismo, sono cresciuto e vivo in Italia - sono sempre del parere che la più grande corsa al mondo è ancora il Tour. La differenza è diminuita, anche il Giro s’è fatto strada, però per far tornare il Tour che sia il Tour come una volta, bisogna che il Team Sky non ci sia. O sennò che corra in un altro modo. Perché così lo ammazza. Non è più bello neanche il Tour».

- Quando era lei il diesse alla Bianchi, all’Ariostea e via via fino all’ultima, la Fassa Bortolo, quanto aveva di budget annuale? Com'era la forbice fra i costi di una grande squadra e quelli di una media-piccola di allora? E rispetto a oggi?

«Io alla Fassa Bortolo spendevo 7 milioni di euro, compresi gli sponsor tecnici, i rimborsi spese e tutto. La Deutsche Telekom aveva 15 milioni, più del doppio, più Ullrich che 5 milioni li prendeva extra, e quindi in totale erano 20. Io sette. E mi piaceva il gusto di batterli. Loro magari vincevano il Tour, ma io le tappe le vincevo. Li battevo».

-  E la Fassa Bortolo, era nella fascia media?

«No, c’era ancora un gradino in più. C’era la Crédit Agricole, c’erano altre squadre che viaggiavano sugli 8-9-10 e anche 12-13 milioni. Erano quelle le belle squadre: sui dodici-tredici. La mia era una cosa un po’ rara. Perché ne spendevi sette e poi battevi quelle altre. E se battevi quelli della Telekom battevi anche quelli della Crédit Agricole, o anche un’altra squadra che mi piaceva – chapeau –, la Banesto. Avevamo i soldi, però le spiego perché facevo così. Io avevo la dote di conoscere i corridori. Li compravo, dicevo “quello è un corridore”, spendevo cinquanta milioni di lire e ne valeva già cinquecento. Non ne ero certo, però ne intravedevo le qualità per farlo arrivare a quel livello. E dopo un anno o due avevo dei corridori con dei valori, e mi costavano meno della metà degli altri. Questo ho potuto con poco budget… Come i sommelier che vanno a guardare e a scegliere il vino: questo è buono. Io ero come un sommelier, e il vino non dovevo gustarlo, dovevo solo vederlo».

- Due galli nel pollaio. Lei come si è comportato, se le è capitato?

«Io ne ho avuti anche tre. Contini, Baronchelli e Prim. Tutti e tre forti. E ho corso più anni. Alla Bianchi, con questi corridori, molti mi hanno criticato: “Bisogna che ne scelga uno, Ferretti. Se ne sceglie uno, va bene”. Però è come se uno ha tre figli. Non puoi volergli bene in modo diverso. Diciamo che vanno a scuola, e sono bravi tutti. Però lei ha i soldi per due, o solo per uno. E gli altri cosa fa, non li fa studiare?! E allora gli faccio fare uno studio un po’ più basso ma a scuola tutti. Io me li giocavo tutti e tre. Magari se avessi cercato uno, quest'altro o quell'altro, lo avrei anche fatto, però c’era un certo Hinault, a quell'epoca e io dicevo: lui da solo, se i miei li prendessi singolarmente, li stacca tutti. E quella volta che gli va bene, li stacca tutti e tre. Però se io continuo ad attaccarlo, da tante parti nella corsa, per tanti giorni, in momenti diversi, c'è caso che forse lo metto in difficoltà. Ed è capitato, e gliel’ho messa. Gli ho tolto la maglia rosa, però me l’ha fatta sudare, perché dopo un giorno e mezzo me l’ha tolta ancora».

-  Però di Hinault ne passa uno ogni generazione.

«Anche ogni tre. Dopo il più grande di tutti, che è Merckx, Hinault è subito lì. [Sbam!, altra manata sul tavolo, nda] Ha vinto cinque Giri di Francia, cinque Giri d’Italia. Poi gli han detto: perché non fai la Roubaix? La devo fare? Sì? Allora vado, la faccio e vinco e poi non la faccio più. C’è andato, l’ha fatta e ha vinto, ne ha fatta un'altra e poi non l’ha fatta più. Al mondiale di Sallanches, secondo a poco, sa chi c’era? Baronchelli. Classico».

-  È vero che Baronchelli si sentiva "perdente dentro"?

-  Nooo. Uno che corre come ha corso lui? Era un po’ timido, un po’ introverso, ma un buon uomo. Lui credeva che io avessi più simpatia per Contini che per lui, ma non era vero. Contini era uno col quale si scherzava di più. Era quello che rideva, che mi faceva gli scherzi. Quando eravamo in giro per le corse, così, una volta vado a letto, va in cucina e trova sette, otto pesci grandi già cotti e me li mette sotto il lenzuolo, vado là e… c'è da ridere. Baronchelli? Mai più, scherzi?! Far una roba del genere... Ma con Contini c’era confidenza. Se andavo in un albergo e c’era la piscina, se la vedevo, andavo dall’altra parte, anche se dovevo fare cento metri in più, perché se c’era Contini mi buttava dentro. Se invece c’era Baronchelli, per amor di dio… Ha capito? Volevo bene a tutti e due».

- Il Tista magari era un po' geloso e voleva da lei le stesse attenzioni.

«Io le stesse attenzioni a modo mio le avevo, ma non potevo permettermene di più perché lui non me lo concedeva, capisce? Questo era».

-  Di là dei risultati,  oltre a Contini quali sono i corridori cui è rimasto più legato?

«Non ero mica "più" legato. In quel periodo era così. Ci si permetteva queste confidenze. Io avevo anche Prim, e gli dicevo: Tommy... E lui diceva questo, questo e questo. Le racconto una Parigi-Bruxelles. Partiamo da Compiègne. Alla mattina c’era un temporale con dei fulmini, con un vento che buttava giù dei rami grossi così. I corridori, quando vengono giù a colazione, mi fan: “Ma la faranno la corsa? Bon, ragazzi, questi cristi qua, dico, la corsa la fan anche se su ci son le bombe, vedrete. Poi, dico: non può durare un temporale del genere per tante ore. Sono le sei, sei e mezza. Alle nove e un quarto: partono alle dieci e un quarto, vedrete che cambia. Infatti, cambiò ma non di tanto. E io con le giornate così vado da Tommy poi gli dico: Tommy, hai visto il tempo?
Sì.
Tu hai paura?
Faceva solo un segno con la testa: o no o sì.
Tu te la senti d’andare in fuga subito? Ti spiego perché: se andate in fuga, qualche pazzo come te lo trovi. Tu i primi cinquanta chilometri, se tirano loro, anche con te, bene. Se non tirano, tira te. Non andar più forte di quarantacinque l’ora, che è già un buon passo per te ma non vai a tutta. Tanto il gruppo, se va piano, va ai venticinque. Dopo cinquanta chilometri, vediamo cosa succede. Sennò, mandiamo a monte.
Parte, va in fuga, altri tre ci vanno, un po’ han tirato, lui un po’ di più ma non tanto, han tirato tutti. Dopo cinquanta chilometri avevan già otto minuti e mezzo. Io vado da qualche mio collega e gli dico: se forano, se vogliono una borraccia di tè caldo, gliela date voi. E mi dicono: Ferron, fai come vuoi, sta’ tranquillo, sta’ tranquillo. Poi, dico, vedo come si va. E io vado. Otto e mezzo. Dieci e mezzo. Non son più tornato indietro. A 286-296 km, a duecento km dalla partenza, a poco meno di cento, avevano già ventun minuti. Adesso io le faccio il gesto [dell'ombrello]: toh, stavolta lo prendono in culo.
E dico: come va, Tommy, bene?
Poi, a duecento km, han cominciato a tirare loro. Un po' una squadra, poi due, tre squadre, ma due o tre non di più eh. Insomma a farla lunga, a farla corta, c’era un circuito, la salita di Alsemberg si chiama, che era un circuitino di 4-5-6 km e da fare tre volte il giro.
Allora vado da Tommy e gli dico: Tommy, tu ogni giro allunga. Sai perché? Ogni volta che allunghi ne elimini uno. Tutte le volte. Perché dobbiamo vincere, e da solo. Non con gli altri perché non si sa mai che ci sia qualcuno che t’incula.
E come se io accendo l’interruttore della televisione. Si accende e si spegne. Si accende e si spegne. Vai, vai e tun-tun-tun: vinto così. Programmato al mattino, tutto questo, ed è venuto. Come il cacio sui maccheroni».

- Però un compagno che attacca la maglia rosa non si era mai visto. Si è visto solo in quella tappa di Sappada al Giro '87. Lei che cosa avrebbe fatto nei panni di Boifava?

«Non bisognava fare così. Io le dico solo questo: faccio una riunione per una corsa, poi, una volta fatto, tutto a posto? Tutto a posto. Mi mettevo seduto in un angolo e i [miei] corridori tutti attorno. Dopo cominciavo: tu sei d’accordo? Sì o no? Sì. Tu? Ragazzi, noi siamo uomini veri. Gli uomini veri non mentono. Gli uomini veri fanno quel che dicono, fanno quel che possono. E va già bene, però è quello. Se ci siam detti così, se non è così, se non sarà così, ne parliamo stasera. Ma poi non ho mai dovuto andare a dire: “Tu hai tradito…».

- Quindi per lei a Sappada fu un tradimento?

«Fu un tradimento sì, poi non lo so se Boifava…».

- Boifava doveva portare a casa la maglia rosa, era tra l’incudine e il martello, o tra due fuochi…

«Uno deve avere la capacità di spegnere un fuoco. O di togliere il martello a uno o a quell’altro l’incudine. Non si devono scontrare. Può capitare ma lo fanno una volta. Ed è capitato, purtroppo».

- È capitato anche tra LeMond e Hinault, tra Cunego e Simoni, tra Froome e Wiggins.

«Non so come ha la gamba lui, io non ce l’ho tanto buona ma intanto provo. I corridori vogliono vincere».

- Quindi anche Roche e Visentini.

«Erano tutti e due bravi. Uno, Roche, un po’ più furbo. Era furbo anche l’altro, Visentini, ma era più un istintivo e poi diceva: la maglia rosa ce l’ho io; e l'altro: adesso intanto t’inculo. Visentini, se la maglia rosa l’avesse avuta Roche, non l’avrebbe fatto. Secondo me, eh. Non son mica Boifava, io».

-  Lei li conosceva bene? Ha mai provato a prenderli? O costavano troppo? Roche, l’anno dopo, alla Fagor, prendeva un miliardo e 200 milioni di lire.

«Per lui solo? No, non ho mai avuto quel budget lì».

- Come sceglieva i corridori? Che cosa le faceva dire: "questo è da Ferretti", "quest’altro no"?

«Corridore "da Ferretti" lo diventava dopo, quando lo avevo preso».

- Allora diciamo potenzialmente da Ferretti.

«Se mi serviva un corridore che andava forte, uno che va forte in salita e in pianura e ha un discreto spunto veloce e tutto. Quando ho preso Petacchi, l’ho preso per tirare. Me ne sono accorto dopo che era un forte velocista».

-  E dal punto di vista caratteriale?

«Il carattere lo si “impara” dopo. Lei è sposato?».

- No.

«Beh, vabbè, vedrà che se si sposerà, dopo dieci anni di sua moglie scopre e trova ancora qualcosa, dopo venti ancora qualcosa. Coi corridori è uguale. Io mi davo un tempo. Dopo tre mesi dovevo aver capito quasi tutto di quel ragazzo. Dopo sei mesi, perché non dura mica una vita. Se dopo due anni, non ho capito niente di quel corridore, di come devo gestirlo o come mi ci devo confrontare... Bisogna che ne conosca il carattere sennò come faccio? Allora: tre-sei mesi, e sono già troppi».

- Lei prendeva corridori non ancora affermati, e li pagava un tot. Poi quei corridori “valevano” molto di più perché con lei crescevano. Come capiva fin dove sarebbero potuti arrivare?

«Le cose si incrociavano, vuol dire che andavamo d’accordo, che i caratteri erano “vivibili”: tutti e due, sia il mio sia il suo. Oltre a essere il corridore che doveva, serviva anche la fortuna sfacciata di avere un carattere che andasse bene col mio. Allora la frittata, o il dolce, veniva bene. Se invece non era così, anche se era forte e tutto, non andava bene per me. Io avevo diciotto, venti, ventidue, venticinque corridori, ogni tanto girava qualcuno, forte, ma doveva andar via perché o era sbadato, o non aveva voglia di correre in un certo modo. Non era facile correre per me. I corridori che han corso per me, nella mia squadra, dovevano avere la mia passione, la passione che avevo io, la mia fantasia. La fantasia non è schematica. La fantasia è particolare. Volpi voleva avere fantasia, ma Volpi è come questa bottiglia qui [indica la bottiglia d’acqua a tavola, nda], non ha fantasia.
Allora non avevamo il telefonino. Poi quando sono venuti i cellulari ci sentivamo, c’è questo e questo, c’è un pezzo di sterrato che bisogna stare solo a sinistra. E allora noi andiamo tutti a sinistra. Facciamo il ventaglio in testa. E cacciamo fuori tutti. Vedrai che cinque-sei forano. Tac [batte le mani, nda], e quelli: eliminati. Quelli che foravano erano proprio quelli che andavan di brutto, perché eran quelli che di brutto volevan venir davanti. E brooom, foravano. È così: bisogna correre senza paura».

- Lei voleva un certo tipo di corridori, e che non fossero, diciamo così, troppo bravi ragazzi. Perché è come andare in guerra, no? Mi ha detto: cosa vuoi che vada a far la guerra con…?

«…con dei preti, con le suore, coi frati?! I corridori “da Ferretti” non devono aver paura. Devono girare a petto infuori, e con anche un po’ di pelo sullo stomaco. Perché sennò, se tu hai paura, di offendere uno, di fare quell’altro... Hanno criticato tanto Moscon, ma ne avessimo dei Moscon! Anche se lo criticano un po’… Io voglio bene a tutti: ai cinesi, ai giapponesi, ai neri, ai vietnamiti, tutti quelli che vuoi, possiamo essere come vogliamo. Però è un italiano, per fortuna. E ha i maroni, ed è questo che conta, per me. [Dà una manata sul tavolo che fa saltare la tazzina dal piattino, nda]. Per dare un esempio un po’ estremo, ma è così che il corridore deve essere, per me. Maleducato, offendere: mai. Ma piano piano s’addomestica anche lui. Purché rimangano la grinta e il coraggio e la cattiveria che ha.
Uno è capace di fare un tuffo dove ci sono cento metri di cascata, e ci vuole coraggio. Il coraggio ci vuole in discesa, ci vuole in mezzo al gruppo. Ci vuole quando si arriva in due e dobbiamo passare di qui: ci vuole quello che ha un po’ più di coraggio, che va avanti lui, prende lui la prima posizione. Perché se hai paura, se freni, può succedere che fai cadere qualcuno. O che cadi tu».

- Insomma, chi non risica non rosica».

«Ecco,  bravo».

- Si diverte ancora a guardare il ciclismo?

«In qualche occasione sì, mi diverto».

- E quali sono i corridori che la divertono? Kwiatkowski? Sagan? Alaphilippe? Nibali?

«Cazzo, ma mi prendi tutti i migliori! [Ferron passa per un attimo al più confdenziale "tu", nda]. Kwiatkowski mi diverte, Sagan mi diverte. Alaphilippe mi diverte. Moscon non parliamone neanche, perché quello mi piace. Nibali mi piace. Io sono un suo tifoso. L’ho fatto passare io professionista, alla Fassa Bortolo. Ed è un ragazzo, anche questo, che mi piacerebbe che corresse un po’ di più come vuole lui; già lo fa, ma un po’ di più. Ha troppi santoni vicino, fra questo più quello più quell’altro. Un sacco di robe. Questo lo confonde un po’».

- Ma rispetto al suo ciclismo, è cambiato il mondo.

«Ma il mio ciclismo che cos’ha? Sembra che parliamo di un secolo fa».

- Non volevo sminuirlo, ma mi stava dicendo che ci sono troppe figure attorno…

«Sì, quando son troppi son troppi».

- Però nel ciclismo di Ferretti c’era una struttura più snella, con meno persone che avevano voce in capitolo. Oggi, nel ciclismo delle multinazionali, ci sono tanti interessi e non parliamo solo di una struttura sportiva, con il medico, il diesse, il segretario, il contabile. Quando ci metti i soldi di uno stato, come l’Astana col Kazakhistan, o la Bahrain Merida, è difficile dire a un corridore fai la Liegi perché sei “da Liegi”, o chiudi la stagione col Lombardia anziché con la corsetta locale dall'altra parte del mondo per far contenti quelli che ti pagano il fior di ingaggio. Capisce?

«Per quello faccio l’esempio di Boniperti, che dopo aver giocato è diventato presidente della Juventus, il che è tutto dire. Aver corso in bicicletta... Adesso quello che decide tutto della Sky [Dave Brailsford, nda], io non lo so se sa queste cose qui. O che ci sia qualcuno sotto di lui, ma non possono essere cinque, allora fan solo confusione e creano dei clan, questo con quello, quello con quell'altro. Non va bene. Ci vuole almeno uno che sappia. Deve essere così. Diciamo il Ferretti della situazione, vuol che ci sia stato solo io? Non sono mica un padreterno. Io sono un tecnico, e mi è piaciuto, mi sono quasi commosso, prima. Ma porca puttana! Per l’amore, l’affetto che ho provato per tutti i miei corridori. Però a quel punto ci vuole uno che dica: “Adesso tu fai la Liegi”. Perché tu hai il dovere, il potere di farla e hai le capacità di vincerle. E cazzo, c’ho messo trenta secondi a dir ’sta roba. Cosa ci vuole, un parlamento, per decidere se far la Liegi o no?».

- Quando ha avuto sentore che il ciclismo, e con esso tutto quel che c’è intorno, stava cambiando? Negli ultimi anni alla Fassa?

«Sì, è cambiato ma ci sono ancora dei corridori che sono… Come fa a non piacere Valverde? Valverde è un corridore della madonna. Va forte dappertutto. Per tutto l’anno. E ce ne sono degli altri di corridori così, ancora adesso. È lei che c’ha un po’ offuscata la mente, che ha un po' questa impressione addosso, perché son tre, quattro anni che va così. E ’sta Sky, che si mettono in testa. Andiamo a guardare il Tour, la corsa più importante al mondo – che non è più, perché se c’è la Sky, con quelle maglie nere, adesso le mettano pur bianche [ridacchia], ma la sostanza non cambia. Vedere questo treno di maglie nere che va di continuo, così, non cambia mai, sempre velocissimi e tutto quanto. Una montagnina: Froome, cinque secondi. Poi dopo un’altra salitina, tun!, altri cinque li guadagna. Cinque-cinque-cinque, alla fine arriva con un minuto di vantaggio, a forza di cinque, di una frullata».

- Ma non era così anche ai tempi di Merckx? La sua squadra prendeva i gregari più forti, e magari quando sono andati a fare i capitani altrove non ha funzionato. Per non parlare delle "Guardie rosse" di Van Looy: anche lì, tutti i migliori...

«Sì, sì, sì. Li avevano tutti. Anche noi alla Salvarani avevamo i migliori, ma non c’era una differenza così. Perché oggi un’altra Sky non c’è».

-  Quindi la vera differenza è che manca la di concorrenza?

«Sì, certo. Quando correvamo noi, è vero, Merckx ne aveva due, tre, quattro: aveva Van Den Bossche che in salita andava come lui, per dire.
A una Liegi-Bastogne-Liegi, dopo dieci chilometri vanno via Merckx e Van Schil [bam!, altra manata sul tavolo che fa ballare la tazzina, nda]. Noi della Salvarani, gli ultimi anni che ero corridore: andiamo regolari, ragazzi. Perché erano 265-270 km, erano in due, vedrai che ci arriviamo, si stancheranno. A centocinquanta chilometri, avevano cinque minuti. A duecento chilometri, cinque minuti. Andiamo avanti, altri cinque minuti. Van Schil a settanta km dall'arrivo non ne poteva più: mettiti a ruota. Ogni tanto si staccava, dai, sta’ qui, sta' lì. L’ha tenuto, l’ha fatto arrivar settimo, ma l’ha voluto con sé perché l’ha aiutato. Eddy Merckx primo con due minuti e qualcosa [Altra manata sul tavolo, e tazzina che balla, nda]. Me lo dice? Che cos'è, uomini o non uomini quando uno fa quel lavoro lì? E io ero diventato amico con quest’uomo.
Una volta, al Giro di Francia, io ancora correvo e c’era il rifornimento. E allora la cosa importante qual era? Essere i primi. Perché al Tour il rifornimento lo mettevano a settecento metri-un chilometro nelle strade dove ci son cinque curve in un chilometro. E dovevi stare davanti per andare a prenderlo, perché sennò l’acqua non la davano mica. Tornavo indietro, o io o gli altri, e chi era davanti aveva più facilità. Io mi metto a ruota Merckx, mancavano trentacinque chilometri all’arrivo. Non dà mai il cambio. E io dalla sella, un po’ più avanti, un altro po’ più avanti, ero arrivato a un punto che mi ficcavo la punta della sella nel culo. Andavo avanti di brutto e questo qui non mi cambiava mai. Vai a tutta. Mai dato un cambio per trentacinque chilometri. Era Merckx, ne aveva degli altri che potevano fare questo ma lui ci giocava. Ci giocava; ma era lui, e non si può dire. Era lui che era fuori del mondo. Faccio per dire, non perché la squadra fosse forte. Era forte sì, ma…».

- Quindi, per evitare che si ammazzino le corse, bisogna creare alleanze?

«Han sempre paura di esser presi per i fondelli, ma non è così. Quando c’è un’alleanza: siamo tre, gli facciamo il culo, anche alla Sky. La Sky c’ha dei corridori… Ma ci vuole un percorso un po’ particolare. Bisogna rompere quegli otto corridori, quel treno lì. Una volta al Giro di Svizzera con Carletto Chiappano eravamo tutti e due nella Sanson e lui era secondo dietro Tom De Prà. Aveva dieci-undici secondi di distacco e De Prà era più debole di Chiappano, che mi fa: “Io l’ho sempre staccato, l’ho sempre battuto e non son capace di staccarlo”.
Sarà la maglia? La maglia a volte fa queste cose.
“Bisognerebbe farlo cadere”.
“Eh, lo so. E chi lo fa cadere?”.
Tu lo fai cadere”.
“Io? Carletto, vuoi che faccia una roba così?
Carletto! Uno come mio fratello.
Allora, dio bo’, mi fa: “Prova te [altri due colpi sul tavolo e la tazzina ormai è andata, nda]. Prova te”.
Allora guardiamo la tappa, l’avevamo già fatta tante volte, al Giro di Romandia, al Giro di Svizzera.
“Ti ricordi quella salita lì? Non c’è il burrone, si va un po’ così...”.
“Sì”.
“Carletto, noi lo facciamo”.
“Va bene”.
Questa è la discesa e io mi metto dietro De Prà. Avevo due-tre dei suoi davanti e lui terzo o quarto. Chiappano didietro e io. C’era la curva, io la prendevo e allargavo e allargavo, e lo buttavo fuori. Da dietro, Chiappano vede che la imposto e vado: "Nooo, fermo! No-no, però, no: férmati!”.
“Ma perché?!”.
C’ha messo tre giorni a convincermi, poi che ero convinto mi fa: “Vuoi far una roba del genere?”.
Avrà avuto un momento di rimorso, che ne so. E in quel momento lì abbiamo annullato ma io l'avrei mandato fuori».

- Questo non va un tantino oltre quel che ci siamo detti prima?

«E le volate? Lo fanno sempre, di andare da una parte all’altra».

- Lei da che parte stava quando al Tour 2017 è stato espulso Sagan?

«Stavo per Sagan. Non dovevano mandarlo via. Un corridore che ha fatto bello il Giro di Francia. Dove corre fa bello, bella la corsa, bella la volata. Io non l'avrei fatto. C’è la penalizzazione, fagli una multa».

- E da che parte stava quando Torriani al Giro ’84 annullò lo Stelvio – si disse – per favorire Moser? Visentini non gliele mandò a dire. Era vero che gli sceriffi del gruppo comandavano la corsa, al Giro e non solo?

«Io quello che so, so di Moser. Mi piaceva, Moser. Non posso condannare Moser. Un corridore che dava il cuore nelle corse. Checco, ma dov’è un altro così? Ma ne avessimo avuti. È stato bravissimo. E han fatto di tutto per fargli vincere quel famoso Giro [dell'84, nda]. Io non lo so. Non so è stato Torriani, o se qualcuno è andato da Torriani. Perché Torriani... Chi è che vinceva se non vinceva Moser? Chi era quell’altro?».

- Laurent Fignon.

«Be’, i francesi ne han fatte di tutti i colori. Con Bartali, Coppi, Magni e tutto il resto. E allora a quel punto, pur essendo io un avversario di Moser, avevo piacere che vincesse. Mi piaceva. Mi è piaciuto. Mi piace ancora adesso. Quando vedo un’intervista di Moser, è sanguigno ed è intelligente. Quando butta la palla, la butta vicino al pallino, quando dice una cosa. Di sciocchezze non ne dice. È una persona in gambissima ed è stato un corridore fantastico».

- Nel ciclismo di allora fu possibile, anche se solo per un anno, mettere De Vlamenick e Moser nella stessa squadra, la Sanson. Oggi sarebbe possibile?

«No, perché erano tutti e due bravi per le stesse corse. De Vlaeminck ha vinto quattro volte la Roubaix, Moser ne ha vinte tre in fila. No, son dei doppioni. E lì è il tecnico che sbaglia, ma forse è stato più Sanson che ha influenzato per volerli al Giro».

- Visentini di Giri avrebbe potuto vincerne altri due. Cosa successe? Glieli hanno fatti perdere?

«Li ha persi lui, non è che glieli hanno fatti perdere. Perché lui correva sempre davanti, dalla parte sbagliata. Aveva sempre un intoppo; ma ne aveva troppi per essere così casuali. Non può forare sempre nella tappa più difficile, nella strada più difficile. Perché se c’è la strada brutta devi stare un po’ più attento. Lui stava meno attento e forava. E poi perché cadeva. O cadeva, o forava, insomma quando era il momento di essere lì, lui c’era ed era pronto per andare forte, però cadeva o gli capitava qualcosa. Troppe occasioni gli sono capitate quando è stato il momento di decidere».

- Roche era invece bravo a leggere le corse e a farsi alleanze in gruppo.

«Più attento e più furbo, non più bravo. Delle alleanze non bisogna tenere troppo conto, ma ci stanno, quei discorsi lì, in corsa. Le alleanze sono infinite. Non sto a farle i nomi ma anche io ho avuto delle alleanze, ed ero uno che mi alleavo poco. Eravamo a un Giro di Francia, viene [José Miguel] Echavarri e mi fa: “Ferrretti...”, Ferretti con tre erre, detto da uno spagnolo. C’era in fuga Jalabert e didietro macinavano, macinavano, ma Jalabert andava ed erano dodici-tredici. Per un momento lo tengono lì e avevano quattro-cinque minuti. Lo mettono lì, e si stacca. Ma di brutto. L’han preso un po’ troppo in maniera focosa. E la Banesto si stacca.
Viene Echávarri e mi fa: “Ferrretti, dammi una mano. Tu sei o non sei mio amico?".
"Io sono un tuo amico e tu lo sai. Però sai, non posso, sono amico anche con Manolo [Saiz]. Non posso, non posso".
E allora che cosa gli dico: "Non posso".
"Dammi una mano finché…".
Allora vado dai miei: "Ragazzi, dategli qualche cambio. In tre o in quattro, ma non tutti".
Per fargli vedere. Questi squadroni grandi, che se la tiravano un po’, quelli della Banesto.
Tre quarti d’ora e gli son andati addosso, è venuto Manolo: “Cosa t’ho fatto? Non ti vergogni? Dimmi cosa t’ho fatto? Ma perché fai così? Una persona come te… Un uomo come te fai queste cose qui, non ti vergogni?”
Gli sarei andato nel baule, te lo dico. Non l’ho mai più fatto. Non lo avevo fatto prima, non l’ho più fatto. Quindi queste cose ci sono».

E il Sergente di ferro?

«Un’etichetta che mi fu attaccata da Adriano De Zan, lo diceva sempre anche in diretta. Quando ho cominciato a sentirla, ma che cacchio dice questa persona qui? “Sergente di ferro”? Ma se io coi miei corridori non lo sono assolutamente. Mi offesi, proprio. E poi me ne feci, così, una ragione. Io non mi vedevo in un sergente di ferro, io discutevo con i corridori. Ma discutere non vuol dire litigare, vuol dire avere punti di vista diversi. Poi, se ti piace far così, fa’ pur così. Ma guarda che poi la cosa negativa di questo è questo, questo e questo. Era questo il mio modo di pensare. Un dialogo anche un po’ brusco, può essere, però rare volte. Sergente di ferro non ci stava proprio. E poi mi son convinto, al punto tale che lo avrà fatto tanto per dire. Ma non ho mai pensato di esserlo. Ancora adesso, nella mia testa, non sono mai stato un sergente di ferro. Io ho amato tutti i miei corridori, ho voluto bene a tutti i miei corridori. Non ci sta. Anche al corridore più modesto, ma con passione, con voglia di correre, serio, che faceva di tutto per fare il corridore; non lo era come quello grande ma io lo consideravo come il grande se volevo che mantenesse un po’ di morale, un po’ di metodo. E non vuol dire che fossi un sergente di ferro».

-  Invece un po’ permalosetto sì, si può dire?

«Sì, un po’ permaloso ma per pochi minuti, questo lo dico. Ma non me la sono mai presa con chi mi ha criticato. C’è gente che mi ha parlato anche male in qualche maniera. Vuole che per Ferretti, con tutti i corridori che ha avuto, con tutte le vittorie che ha avuto, un po’ di invidia qualcuno l’avrà avuta? E un po’ di verità ce l’avrà anche avuta dicendo questo e quest’altro e quell’altro: ci sta. Non sono mica il padreterno. Quindi su questo ci ho ragionato: ci sta. Poi che io me la prendo un po’… Qualcuno che mi ha criticato, dopo una settimana l’ho incontrato: come stai? Bene, sì? Tu? Anch’io. Tutto bene. Questo è Ferretti. Mi vedo così. Poi se è vero che sia così, non lo so. Ma io mi vedo e mi sento così».

- Lei ha attraversato generazioni di ciclismo. Quando ha avuto le prime sensazioni che in gruppo ci fosse qualcosa che non andava? All'inizio degli anni Novanta?

«Vuol parlare di doping? Io ne parlo volentieri, senza problemi. Ne hanno avute tutti, di queste cose qui. Solo che se il fatto tocca Ferretti, è una cosa grossissima. Ad altri… È questo il concetto. Non faccio nomi ma c’era gente che commerciava in quella merce. Io non ho mai commerciato in quella merce. Io non ho mai dato a di corridori quel prodotto. Se lo prendevano. Lei immagina che se, e questo è capitato, alla Fassa... La Fassa ha smesso perché han trovato dei corridori positivi. E loro a dire: Ferretti, va bene vincere e io ho piacere che si vinca e tutto quanto. Ma faccia le cose per bene. Perché sennò io smetto con la sponsorizzazione. Allora. Sono un imbecille, uno stupido, uno scemo, che dico: pratico quella cosa lì per vincere una corsa in più? E perdo lo sponsor? Tengo il mio lavoro, per me e per tutto il mio personale, perché il mio personale che girava era sempre quello. Perché i corridori con me ci stanno due-tre-quattro-cinque anni ma i miei massaggiatori, meccanici, medici, tutti, erano quelli da dieci-quindici anni. Questa gente era la mia “famiglia”. Le ho anche detto che ho trascurato la mia , di famiglia. L’avevo già, la famiglia. E faccio una roba del genere per che cosa? Per rovinarmi il mio lavoro e tutto? Per rovinarmi la reputazione? E di questo sono certo: non l’ho mai fatto. Però la gente ha dimenticato, i giornalisti han dimenticato che i corridori si servono loro. Hanno loro i canali dove andare a prenderle. Questo non lo ha mai saputo nessuno».

- Nell'ambiente però tanta ipocrisia. Da una parte ci sono certi direttori sportivi, dirigenti, sponsor che al corridore dicono: alla tal corsa, vedi di farti trovare preparato, o “curato”. Come, son fatti tuoi. Allora il corridore che cosa fa? Magari viene da una stagione negativa o non sa se avrà il contratto per l’anno dopo, si "cura" e poi, se viene beccato positivo, il gruppo sportivo che fa? Dice: ha fatto tutto lui, la porta è quella lì. E poi magari lo cita pure per danni. O no?

«No. Quando io parlavo con Rodolfo Massi e mi diceva “la gamba non gira”, gli dicevo: vedi di farla girare. Non vuol mica dire allora “preparati”. Allora, io so tante cose, ma non le dico. Io non ho mai girato col baule e la roba dentro. Se ne trova uno, me lo dica. C’è qualcuno che le ha detto, o ha detto, che Ferretti mi dava questo o quell’altro? Non lo trova. Perché non c’è. Lo stesso [Dario] Frigo non ha mica detto che gliel’ho data io. C’è stato un momento che l’ha detto, e poi è sparito. Lei lo sa dov’è Frigo? Non lo sa nessuno. Non so dov'è, è sparito. Ma la cosa più brutta è che se lei va nel calcio, nell'atletica, sono più di noi – noi del ciclismo. Nel ciclismo c’è ADAMS, che non è il nome di una persona. Con il sistema ADAMS possono venire 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno. Vengono e le fanno fare la pipì, il sangue e tutto il resto. E questo è a sorpresa. C’è un altro sport in cui fanno così? Non c’è. Questo succede, da noi. Eppure trovano ancora dei corridori positivi».

- Allora perché succede?

«Perché la tentazione è forte. Perché se lei trova un ragazzo che fa il muratore, o un operaio in fabbrica che prende 1.250 euro al mese, qui se vince una corsa o due, da quindicimila euro che prendeva in un anno, ne prende 150mila. E se dice: la passo liscia per questo, per quell’altro, mi faccio un paio d’anni, mi porto a casa trecentomila euro. Non li prendo in tutta la mia vita lavorativa. Ci sarà questa tentazione? Poi, da dilettante, cosa mi fanno? Mi fan smettere di correre, tanto io smetto lo stesso. E vanno. L’ha mai pensata così?».

- Sì, certo. E penso anche sia il primo motivo.

«E allora…».

- C’è una via d’uscita?

«Ci sono dei ladri che ce l’hanno nel sangue. Come il cleptomane che se vede una macchinetta, la prende. E poi ci sono dei ladri che sono organizzati per fare grossi colpi. E c’è quell’altro che lavora e va a rubare perché ha bisogno di soldi».

- Questo però vale anche per i diesse, non solo per i corridori.

«Ma perché ce l’avete così tanto coi direttori sportivi? Non pensate a questa gente qui?».

- Può essere anche il medico. Però alla fine è il corridore la parte più debole. È il corridore che fatica in salita. È il corridore che cade e si scortica sull’asfalto.

«La Sky – adesso lasci stare che lei è di Sky come televisione – ma la Sky è una squadra chiacchierata. Perché lo è? Ne ha bisogno con tutti i corridori che ha? Perché Froome ancora non lo hanno squalificato? Che da mille va a duemila? Allora dico: ma perché? Ah, dice: perché ha l’asma, perché ha l’allergia. Allora, togliamolo. Se un corridore non è sano, si cura a casa. O sennò, se ha qualcosa che gli manca, vada in bicicletta, vada con i cicloamatori, i cicloturisti, ma non vada nella massima categoria dove bisogna essere sani, super sani e super forti, per sfondare lì dentro. Hai bisogno della pompetta, hai bisogno di questo? Lascia perdere. Finito [batte le mani, nda]. Sei malato? Gli ammalati stanno a casa. E fanno quel che possono. Bisogna allontanare questa cosa qui. Mettere in chiaro. Invece mettere: mi do cinque pompette, vado bene; sei, son già fuori. Petacchi l’han trovato con 1.320 ng/ml e gli han dato un anno [Ulissi con 1920 e ha preso nove mesi, nda]. E con questo qui sono ancora lì che decidono e ha duemila. Non c’è mai arrivato nessuno».

-  Mi sta dicendo che sono i soldi a “decidere”?

«Ma no, non voglio pensare questo. Voglio che l’UCI faccia delle regole chiare. Corte. Non leggi che poi si leggono e si devono rileggere e poi c’è un’appendice. Vaffanbaffo! Basta: non si prende più. È questo. E i direttori sportivi: ci sarà anche stato, e forse ci sarà ancora, qualcuno che dice prendi questo, prendi quello».

-  Lei però sapeva chi giocava sporco. Non facciamo le verginelle.

«Le ho fatto un nome ma non lo faccia. Lo sa che è stato in galera? Sa che è uno che se ha due milioni di budget, uno se lo mette in tasca lui, punto e a capo? Ha capito? Lui è quello che prende di più La metà, secca, è sua. Ma insomma, cazzo fai? Allora c’erano dei tecnici...
C’era Walter Godefroot. Una persona onesta, brava, un bel corridore, ha vinto due volte il Giro delle Fiandre. Io all’epoca quando correvo son anche stato suo compagno. Poi, da ds, dalla Deutsche Telekom prendeva 500mila euro. Io su 500 ne prendevo 150. Poi son passato a 300, sempre lordi. E quando prendevo 300 mila euro, che [al netto] mi venivano 160-170mila euro, dicevo: sono ricco. Poi io non stavo lì a guardare, facevo il contratto e dopo un po’ andavo a vedere cosa avevo nel conto corrente. Ogni tanto-tanto, però: oh, prendo dei soldi… Ma lo facevo in luglio o in agosto, e a gennaio dell’anno dopo per andare a vedere cosa avevo nell'estratto conto. Questo era, e dico la verità. È così, non ho niente da nascondere. Ci sono queste persone che fanno questi intrallazzi qui».

-  Peter Post, altro personaggio molto discusso: che idea ha di lui? Tanti corridori hanno avuto problemi con lui. Lui sì era un sergente di ferro?

«Ottima. Lui guadagnava i soldi. Prendeva gli sponsor. E chi prendeva di più? Lui. Se io trovo gli sponsor, chi prende di più sono io. E i corridori lo sapevano. Era alla PDM, era alla Panasonic. Alla PDM c’era anche un altro, poi è sparito. Ma quelli che dicono a me Sergente di ferro, lui allora era…».

-  Con quali diesse stranieri della sua epoca lei si confrontava, in corsa e fuori?

«Uno era lui. Un altro era Guimard. Un altro era Echavarri, poi Manolo [Saiz] della Once. Erano quattro-cinque-sei».

-  Di Marc Madiot che cosa mi dice?

«No, questo è venuto dopo. Ho letto qualche intervista di Madiot, che ha detto: mi piacerebbe fare le squadre com le fa Ferretti. Questo l’ho letto io, non me l’hanno detto».

-  Alla coferenza stampaa di vigilia al Giro 2017 gli chiesi come mai non c’erano più corridori “alla Madiot”, uno che attaccava in maniera magari scellerata e però ti coglieva di-sorpresa, con la fantasia eccetera. E lui mi rispose che nel ciclismo di oggi non c’è posto per i Madiot.
«Non c’è posto, però Valverde è un altro Madiot. Più bravo».

-  Valverde però rispetto a Madiot ha ben altra gamba

«Vabbè, uno fa con la gamba che ha, però, eh».

-  Nella prima fase della carriera Valverde però correva a ruota degli altri. Per la rivalità tra lui e "Purito" Rodríguez la Spagna ha buttato via un mondiale, si ricorda?

«Non piaceva. Neanche a me piaceva, poi è cambiato. Lo faceva e non lo fa più, è cambiato ma in positivo: meglio, bravo. Io se posso voglio vincere. A un mondiale, poi, ancora di più. A un Giro d’Italia ancora di più, come fra Visentini e Roche. Queste cose capitano. Bisogna anche capire. Di Ferretti c’è chi ne parla bene e chi ne parla male. C’è l’invidia. Qualche cosa di male l'avrò anche fatto, come no, senza dubbio, qualche errore...».

-  La Carrera era una squadra così all’avanguardia? Fu una delle prime italiane, assieme a quella di Stanga, a prendere il pullman per i corridori. Stanga lo comprò usato dalla PDM. La Carrera era avanti alle altre all’epoca?

-  «Aveva più soldi».

- Aveva un vivaio e andava all’estero a prendere i migliori corridori. Per esempio, Roche che aveva fatto terzo al Tour ’85 e Boifava andò a prenderlo.

«Anche io ho vinto un Giro d’Italia, con De Muynck. Anch'io ho vinto le olimpiadi, la Liegi con Pascal Richard. Li ho presi anch'io i corridori da fuori. Io ho sempre avuto un budget piccolo. Il pullman lo sapevo anch'io che era bello…».

-  Qualcuno criticò Stanga. Argentin disse una frase di cui si è pentito, me lo ha confermato lui stesso. Disse: “Stanga prende il pullman, noi i corridori”. Ammise poi di aver sbagliato, perché per i corridori il pullman era comodo per tante cose: per i trasferimenti, per far la doccia subito, alimentarsi meglio e presto…

«Sì, però con il budget così piccolo in confronto a quello degli altri, se dovevo spendere cinque-seicentomila euro - o, prima, cinque-seicento milioni di lire - e prendermi un pullman con tutte le attrezzature... Il pullman non lo avevo, ma poi le spiego che cosa ho preso. Io con cinquecento milioni mi prendo un corridore che vince. Ma perché mi vuol parlare di ciclismo e mi mette in mezzo il pullman? Ma vaffanbaffo, ma cos’è ’sto pullman? Io vincevo cinque belle corse, ma belle a livello internazionale: era meglio che il pullman, per me. Io avevo il mio pullmino, avevo le mie cose, avevo tutto. Poi, appena ho potuto, mi sono comprato un motorhome, che costava meno della metà del pullman. L’ho comprato anch’io. Il mio era lungo da qui a lì, il pullman da qui a là. Stesse funzioni. Non avevo quattro docce, ne avevo solo due. Non avevo la cucina, avevo solo un banchetto dove si prendeva un caffè, un tè, cose così. Avevo un frigorifero. Avevo un posto per le riunioni. Stretti, perché ci stavamo a fatica. Una cosa così. L’ho preso subito. Ci volevano i soldi. Io avevo sette milioni, non quindici. Non dieci e non dodici. E volevo vincere, come gli altri. E io vincevo come gli altri. E anche di più. Però poi dovevo prendere i corridori».

-  Perché a Ferretti i grossi budget non li davano e ad altri sì?

«Perché i miei sponsor non potevano. Ho cercato anche io i grandi sponsor, non li ho mai trovati. Non ci sono mai riuscito. Quando sono andato all'Ariostea, che è stata una squadra da dio, delle mie squadre sono quelle che han vinto di meno. Ma tolto Argentin, sono tutti corridori che ho allevato io, che son venuti con me».

-  Sono quelle che le hanno dato più soddisfazione, al di là delle vittorie?

«Da mille e una notte. Al di là delle vittorie, e ne ho fatte 168 in otto anni: non son mica tante».

-  Comunque una ventina a stagione.

«Trecentosettantasei ne ha fatte la Bianchi in dodici anni, 376 vittorie. Di brutto».

-  Al di là delle quantità, le vittorie si pesano.

«Se le faccio veder l’elenco, io le classiche le ho vinte tutte. Non c’è una corsa che non ho mai vinto».

-  E quindi cosa le mancava quando andava a proporsi ai grandi sponsor?

«Ma io mica ho cercato tanto, perché io alla Bianchi ero a posto, ci ho fatto dodici anni. Ho trovato l’Ariostea, io ero a casa. Dopo ho preso Argentin per ripicca. Finito con la Bianchi, non ho più fatto niente. Ho fatto un anno a casa e mi chiama l’ingegner [Oriello] Pederzoli, che era il titolare dell’Ariostea.
Mi dice: “Ferretti, vuol fare una squadra?”.
“No, grazie. Non faccio più squadre”».


All’inizio quindi ha rifiutato?

«Ho rifiutato, perché fece la Sammontana-Bianchi e portò Argentin, portò [come ds Waldemaro] Bartolozzi e io fuori. Mi chiama l’ingegner, il dottor... non mi ricordo più – allora [Angelo] Trapletti non c’era più, la Bianchi era stata acquistata dalla Piaggio – Chiama e mi fa: “Ferretti, io le regalo dieci biciclette e poi le faccio un contratto che la prendiamo fisso in Bianchi come nostro rappresentante per le pubbliche relazioni. Noi abbiamo due anni con questi qui poi lei tornerà e faremo. Perché la Bianchi non può non fare pubblicità. Siamo vicini al milione di biciclette l’anno e quindi non è che abbiamo chissà cosa, però abbiamo da investire nella pubblicità per sostenere il marchio e tutto il resto. E così sta tranquillo per un paio d’anni, tre. Io in panchina non ci sto. Me ne vado. Arrivederci. E son andato via. Son andato a casa. E ho detto: vaffanculo te e il ciclismo.
Ho fatto tante altre cose nella mia vita. Delle società, con uno, con l’altro, nell’immobiliare. Avevo un amico che vendeva ceramiche. Sono stato con lui quattro-cinque-sei anni. Compravamo terreni, robe così. Lui li comprava, io li vendevo. In cinque anni ho guadagnato tre miliardi di lire. E io prendevo 150 mila euro. Questo qua a un certo punto mi disse: “Ascolti, Ferretti: a lei piace il suo lavoro – perché avevo già ricominciato a lavorare, son rimasto fermo solo un anno – Le piace il suo lavoro?
Sì, nella mia vita ho fatto sempre… da giovanotto ho fatto il corridore, poi ho avuto le squadre...”.
Ma lo sa, ha fatto i conti di quel che abbiamo guadagnato? Sa che se noi lavoriamo, io compro e lei vende - perché io ero un maestro, lei può non crederci… Però ero bravo, insomma me la cavavo - Abbiamo guadagnato tre miliardi e mezzo a testa. Se lei pensa di smettere… Guadagniamo un miliardo a testa tutti gli anni, ci pensa?”.
“Sì, però per me i soldi non sono tutto. Questo gliel’ho dimostrato nei miei prezzi, i soldi non sono tutto. E mi piace il mio lavoro, mi gratifica". Ma una vittoria... Vaffanculo te e i cento milioni! Abbiamo vinto la Sanremo, la Liegi, la Freccia Vallone, la Gand-Wevelgem, Francoforte, la Tirreno-Adriatico - ne ho vinte sette - la Parigi-Nizza, che ne ho vinte cinque. Il Giro della Svizzera Romanda, il Giro di Svizzera. Il Giro di Francia non l’ho mai vinto, ma il resto l'ho vinto tutto. Di tutto, dappertutto. Fiuuu [soffia, nda]. Eh, son un po’ strano, però è così. Ha capito?».

Ho capito: è una chiusa bellissima.

Commenti

Post popolari in questo blog

PATRIZIA, OTTO ANNI, SEQUESTRATA

Allen "Skip" Wise - The greatest who never made it

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?