Ed Pickering: a Sappada non fu tradimento, ma business
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Tour de France, 19ª tappa: Embrun-Salon-de-Provence
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Tour de France, 19ª tappa: Embrun-Salon-de-Provence
Sala stampa di Salon-de-Provence, 21 luglio 2017
- Edward Pickering, direttore di Procyling magazine, da un punto di vista britannico, che cosa pensi del “tradimento” di Roche a Visentini nel Giro d’Italia ’87?
«È curioso che un giornalista italiano lo definisca “tradimento”, il mio è un punto di vista forse più neutrale. Roche è irlandese e forse sento un’affinità “nazionale” più per lui che per Visentini. Io ci vedo meno tradimento e più una grandissima ambizione che li ha posti uno contro l’altro. Il ciclismo è fatto di queste grandi storie. E non c’è storia più grande di un conflitto di ambizioni fra due uomini che cozzano contro un muro fatto però in questo caso di oggetti in movimento. Due uomini che volevano la stessa cosa e disposti a dare tutto per ottenerla».
- In Italia però, anche trent’anni dopo, la percezione è invece che fu un autentico tradimento. Allora, come giudichi l’atteggiamento di Chris Froome nei confronti del suo capitano Bradley Wiggins? Trattandosi di due britannici, in UK avete avuto lo stesso tipo di percezione?
«Trent’anni fa il ciclismo era uno sport gerarchico. In squadra c’erano il capitano e i gregari. In francese gregario si dice domestique, che in inglese si traduce con servants: i corridori erano “al servizio” del leader, e i compiti erano chiari dall’inizio. Nel caso di Roche e Visentini era più ambiguo, perché erano entrambi leader, in squadra italiana, in una corsa italiana. E capisco perché Visentini volesse essere lui il capitano. Roche era molto ambizioso e voleva essere lui il capitano. Se succedesse oggi, ci sarebbe più management. Il Team Sky cercherebbe di gestire la situazione sfruttando il ruolo che i corridori hanno in squadra, dicendo che l’obiettivo era vincere il Tour con Wiggins e quindi lavoriamo per vincere il Tour con Wiggins. Il piano – che nel Team Sky è sacro – è vincere il Tour con Wiggins, e quindi a Chris hanno potuto dire: guarda, il piano è questo, Wiggins è in maglia gialla, tu sei a due minuti, gli altri a tre, quindi lavoriamo tutti per lui. Nel 2012 era normale, perché oggi il management è molto importante. Trent’anni fa le istruzioni ai corridori erano le stesse, ma credo che il direttore sportivo potesse influire molto meno sull’andamento della corsa».
- Non c’erano le radioline, ed era tutto un altro ciclismo.
«Sì. Era difficile dire cosa si poteva o non poteva fare. Per la maggior parte dei corridori non c’erano contratti così rigidi su tutto, sul comportamento da tenere in gara, nell’interazione con i media, sul modo di operare all’interno della squadra. Non conosco nel dettaglio com’erano i contratti di trent’anni fa, ma immagino che fossero del tipo: noi ti paghiamo, e tu corri per noi. Si può comprendere il punto di vista di Roche, io lo capisco: al Giro del 1987 Visentini era il campione uscente ma poi non aveva fatto granché. Roche era in un buon momento, aveva fatto secondo alla Liegi-Bastogne-Liegi, e avrebbe dovuto vincerla; aveva già vinto il Romandia ed era arrivato al Giro in forma».
- E in più aveva corso una grande Parigi-Nizza…
«Sì, e alla Parigi-Nizza, e nonostante la sua amicizia con Sean Kelly – che in quella corsa era il più forte – dopo che Roche aveva forato, Kelly mise i suoi gregari a fare corsa dura per non far rientrare Roche. Kelly vinse quella Parigi-Nizza anche perché agì da furbo, e contro una legge non scritta del ciclismo. E forse quella Parigi-Nizza servì a Roche da lezione: a me nessuno ci pensa, eccetto me. Allora dovrò cavarmela da solo. Al Giro si trovò nella posizione di vincerlo, capì che c’era quella possibilità e la colse, nonostante la lealtà che doveva a Visentini».
- C’è anche un lato più nascosto in questa storia, perché dopo quel Giro a Visentini fu come se si fosse spenta la luce. Pochi anni dopo si ritirò e uscì per sempre dall’ambiente del ciclismo. Roche invece è ancora oggi nel mondo del ciclismo. È testimone della Skoda al Tour, ha un camp a Maiorca. Visentini invece è uscito da questo mondo. Perché?
«Credo sarebbe accaduto comunque. Se il Giro ’87 lo avesse vinto Visentini e non Roche, trent’anni dopo Visentini sarebbe stato comunque un uomo riservato e Roche sarebbe stato qui al seguito del Tour de France. Questione di caratteri. Visentini era un tipo chiuso. L’impressione che mi sono fatto leggendo di lui è che non amasse il mondo del ciclismo. Veniva da un ambiente molto diverso. Era una persona molto introversa, un solitario. Fu sconfitto. E se Roche non lo avesse attaccato, Visentini probabilmente avrebbe vinto anche quel Giro e si capisce perché, io capisco perché, fosse molto deluso, e forse arrabbiato con Roche. E così furioso da lasciare il ciclismo. Ma credo anche che sia comunque una persona molto riservata».
- Quindi, dal punto di vista di Visentini, fu sì un tradimento?
«Sì, dal punto di vista di Visentini fu una delusione. E capisco il suo punto di vista. Dobbiamo ricordare che aveva lui la maglia rosa, e a togliergliela è stato un suo compagno di squadra. Prima di quella tappa Visentini era abbastanza saldo in rosa, dopo quella tappa in rosa c’era Roche per soli cinque secondi. E dal punto di vista della squadra Roche tentò un grosso azzardo. Fu alquanto egoista. Ma come risultato, vinse e quindi ebbe ragione lui. »
- Roche era più cosmopolita, Visentini era “molto” italiano come approccio, come mentalità. Trent’anni dopo, vedi qualche analogia nel Team Sky tra due co-capitani come Mikel Landa e Chris Froome, anche se in un tutto un altro ciclismo?
«Non ne sono sicuro. Landa è stato fortissimo come gregario, è chiaro a chiunque abbia gli occhi per vedere che sia lui il miglior scalatore di questo Tour de France, ma spesso essere il miglior scalatore non vuol dire vincere la corsa. Non è un leader, almeno fino qui. Froome lo è diventato. È lui il capitano, e specialmente dal 2012 in poi ha rafforzato questo suo ruolo in squadra. Dobbiamo ricordare che ha già vinto il Tour de France tre volte [e lo avrebbe poi rivinto nel 2017, nda] e in questa edizione è il campione uscente. Landa ha disputato un buon Giro d’Italia due anni fa, ma a Landa succede sempre qualcosa. Anche quest’anno. Gli è sempre successo qualcosa. È caduto o si è staccato, e ogni volta ha dovuto ricominciare. Allora il manager del Team Sky pensa: Froome/Landa? Landa è forte. Froome ha già vinto tre Tour, dà delle garanzie. Al Team Sky il piano è sacro. E quando riescono a correre secondo il loro piano, sanno di essere forse la squadra più forte nella storia del ciclismo. Sono concentrati. I corridori secondi, terzi o quarti in classifica sono almeno tra i primi dieci, dodici più forti in salita. Sono grandi scalatori. E quando hanno un piano, lo seguono alla perfezione. È quando il piano non funziona benissimo, che loro vanno più in difficoltà. Ecco perché si concentrano su Chris Frome. Seguono il loro piano. Non conosco Landa. Ma per quel che posso capire, non credo abbia la stessa ambizione di uno come Chris Froome. Perché come ho detto [Landa] è lo scalatore più forte. Nel 2012 Chris Froome era il corridore più forte in salita e non s’è fatto scrupolo nel farlo vedere chiaramente cercando di correre in testa anche se poi è stato richiamato indietro dal Team Sky. Ora, il contesto è diverso: Froome è sia il leader sia il corridore più forte in squadra. Landa, quale che sia la ragione, forse verrà ripagato, forse gli sarà stato promesso di poter fare il leader in un’altra corsa, ma non sembra avere la determinazione per approfittare delle opportunità per poter vincere il Tour de France».
- Mi viene subito in mente allora la differenza che c’è tra Davide Boifava, il direttore sportivo della Carrera nel 1987, e il potere e il budget di cui dispone oggi Dave Brailsford al Team Sky…
«Sì, sono cose totalmente diverse. A Brailsford piacciono piani, tabelle, diagrammi di flusso, organigramma, fogli Excel. Il piano è tutto. Tutto quello che lui fa è studiato affinché il piano funzioni. Vuole uno staff che porti altre persone che portino altre idee. E tutto va coordinato secondo il piano. Non succedeva così trent’anni fa. Da quel che sappiamo, una squadra per quanto vincente era costruita all’antica, come le squadre che avevano vinto in passato. La Carrera di Boifava, non dimentichiamolo, c’era negli anni Ottanta, quando lo sport era meno professionale, i corridori si lavavano la divisa, alloggiavano in hotel economici. Era tutto più dilettantistico. Le squadre erano probabilmente più professionali rispetto a quelle degli anni Sessanta e Settanta, ma è negli anni Novanta che le squadre sono diventate più organizzate. Negli anni Duemila ancora di più e così oggi il Team Sky. In quanto a Boifava, non lo conosco così bene, ma probabilmente non aveva gli strumenti per far sì che la squadra…».
- Ma trent’anni fa in Italia le squadre di Boifava erano all’avanguardia: usavano i materiali migliori, se possibile viaggiavano in prima classe, erano una sorta di Team Sky ante litteram.
«Sì, può essere, ma non sarebbe giusto dire che fossero nella stessa posizione in cui è oggi il Team Sky. Sono passati trent’anni in materia di management, scienza applicata allo sport, tattiche del Tour de France. Tutto si è evoluto nel tempo. Boifava non poteva conoscere quello che il Team Sky sa oggi. Quel che conosceva era che una squadra solida doveva avere un capitano, i gregari, un certo budget. Oggi nelle grandi squadre conta il piano. Prendi le squadre che puntano alla maglia gialla, oggi si allenano in altura. Hai mai visto la Carrera allenarsi in altura come fa il Team Sky? La tecnologia si è evoluta continuamente in tutti questi anni. Boifava al Giro d’Italia 1987 probabilmente aveva le tappe di montagna e le cronometro per fare la differenza, e due corridori molto forti. Roche iniziò molto bene quel Giro, poi Visentini andò forte a cronometro ma prima Roche era stato coinvolto in una caduta. Credo anche che Boifava fosse meno in grado di poter influire sulla corsa e dominarla, con le prestazioni della sua squadra, al Tour de France».
- C’è un ultimo aspetto. Roche è sempre stato una persona socievole, anche scaltra. Sapeva farsi degli amici, in gruppo e fuori, per esempio con la Fagor, con corridori anglofoni come lo scozzese Millar, che pure correva con la Panasonic di Breukink. Visentini era più un solitario, in corsa e fuori…
«Steve Roche è una people person, una persona estroversa. Ed è stato un corridore molto politico. E lo considero anche una delle menti tatticamente più brillanti viste nel ciclismo al più alto livello. Sapeva come vincere le corse. Non era il più forte, ma il più furbo. Sapeva leggere non soltanto le corse, ma anche come agivano le persone. Visentini forse no. Visentini aveva forse una comprensione più semplicistica di come le persone sono e interagiscono, e delle loro motivazioni. Roche è il tipo di persona che si ricorda come ti chiami, che ti dà una pacca sulla spalla, che ti parla guardandoti negli occhi, che in quel momento sei per lui la persona più importante al mondo. È così che era in gruppo, e sapeva che gli amici che si faceva al villaggio di partenza o in corsa lo avrebbero aiutato, perché li avrebbe ricambiati dei favori avuti in passato. Visentini non era tipo da concedere o chiedere favori. E se ti chiedono favori e tu non ne concedi, a volte la vita può essere più difficile».
- Dal punto di vista tecnico, Roche e Visentini che corridori erano? E in cosa si differenziavano?
«Fisicamente erano simili, non erano corridori di forza bruta. Roche aveva un stile bellissimo da vedere, e molto efficace. Anche qui, era intelligente, sapeva muoversi in gruppo, per correre coperto e risparmiare energie. Se guardi come ha vinto il Tour de France del 1987, era attento a a sprecare inutilmente meno energie possibili. Visentini, anche qui, era un ottimo cronoman, forte in salita ma non dominante in nessuna delle due specialità. Se fosse stato più specialista, per lui sarebbe stato più semplice. Invece, sia a cronometro sia in salita aveva doti limitate, ottime ma limitate. E il non avere affinato le qualità che Roche invece aveva nell’interpretare la corsa e le persone rendono difficile paragonare le sue vittorie con tutte quelle di Roche. Visentini era andato forte al Giro in precedenza, ma non nelle altre corse. Non faceva il Tour. Ha fatto bene ma fino a un certo punto, poi gli capitava sempre qualcosa».
- Quindi, trent’anni dopo, fu tradimento o no?
«Dal mio punto di vista no, non fu un tradimento».
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