L'incertezza dell'ammiraglia e il dramma di uno squadrone


di Rino Negri
La Gazzetta dello Sport, domenica 7 giugno 1987

SAPPADA - Aveva invocato il verdetto della strada per sapere se dovesse essere lui o Visentini il capitano della Carrera - e aveva fatto una precisazione ad alta voce: «Sarebbe stupido se noi due corressimo male e ad avvantaggiarsi fossero altri». Ma al vedretto emesso dalla crono di San Marino, Stephen Roche non c'è stato. E in questa prima tappa delle Dolomiti, vinta dall'elegante pedalatore olandese van der velde, è successo il finimondo. Roberto Visentini, vittima di una crisi che ha origini nervose, ha infatti perso la maglia rosa che Roche è riuscito a riconquistare per l'inezia di 5" su Rominger perché, dopo aver infiammato la tappa quando non avrebbe dovuto - se una tattica logica fosse stata rispettata - s'è trovato con le gambe semivuote e non è riuscito a rispondere agli avversari che gli partivano da sotto il naso per andare a conquistare preziosi vantaggi.

Presentando questa prima giornata del trittico dolomitico, non avevamo nascosto che Visentini, splendido domiatore a cronometro sul monte Titano, si sarebbe potuto trovare in difficoltà perché sforzi di quella violenza restano nei muscoli cinque-sei giorni (una volta, quando la scienza medica non veniva in soccorso dei ciclisti, occorreva anche una settimana per smaltire simili fatiche). E se c'era una squadra che non doveva muoversi, per consentire alla maglia rosa di far la gamba alle prime difficoltà altimetriche, era proprio la Carrera. E se qualcuno fosse partito all'attacco, lo si sarebbe dovuto lasciar andare.

GEMINIANI

I maligni hanno subito prospettato una possibilità: con l'arrivo di raphael Geminiani nella carovana del Giro, Roche aveva ritrovato quel puntiglio che sembrava avere definitivamente perso dopo l'umiliante sconfitta sul Titano. E non c'è niente di peggio di un irlandese frustato (così nell'edizione originale; forse si intendeva frustrato, nda?) perché dimostri di non essere morto. La versione va naturalmente accolta con beneficio d'inventario perché «Gem» è troppo astuto per venire qui a seminar zizzania. È piuttosto da sottolineare che Roche non ha mai detto apertamente che si sarebbe messo a disposizione di Visentini. Ha invece insistito sul verdetto che la strada avrebbe dovuto emettere: già questo fatto aveva messo in sospetto chi, nel clan della Carrera, non sembrava molto disposto a credere alla possibilità di far andare d'accordo i due quando fosse venuto il momento di indicare il cavallo sul quale puntare.

Rifacendo la storia dei campioni della medesima formazione che dal Giro erano usciti sconfitti perché nessuno - anche con il libretti degli assegni alla mano - aveva avuto l'autorità per farli ragionare secondo la logica che la corsa suggeriva, ci siamo soffermati sul comèpito difficile che attendeva il tecnico della Carrera, Davide Boifava. Da come sono andate le cose, risulta chiaro che il direttore sportivo non ha avuto l'autorità necessaria. Vedendo Roche all'attacco e Visentini, rimasto senza gregari accanto («Una cosa da stringere il cuore» ha detto Corti), che stentava a tenere il passo, prima di mollare definitivamente - e se non avesse trovato per strada Santaromita ("Santoromita" nell'eizione originale, nda), che i compagni della squadra hanno definito «il cappellano» o «il buon samaritano» per la sua fede religiosa, avrebbe perso più di 6'50" - c'è chi ha strillato che Boifava avrebbe dovuto mettere l'ammiraglia di traverso e fermare l'irlandese, com'era più volte successo ai tempi eroici quando un corridore si ribellava agli ordini di scuderia.

Il cilcismo degli anni Trenta-Quaranta veniva interpretato diversamente dai corridori. Chi si peretteva di non fare quello che doveva - e gli ordini erano precisi, perché c'era l'abitudine di impostare la gara a tavolino - si trovava senza stipendio e difficilmente riusciva a sistemarsi per la stagione successiva, dat che veniva bollato come un «gregario senza parola». Oggi c'è chi farebbe sottoscrivere immediatamente a Roche un contratto principesco, nonostante si sia comportato pensando soltanto a se stesso. Quanto a Boifava si deve dire che, al centro di una situazione che non era riuscito a dominare prima, non poteva comportarsi diversamente: più che dire a Roche ciò che avrà sicuramente detto - e con precisione nessuno lo saprà probabilmente mai - non avrebbe potuto fare.

CIMA COPPI

E oggi la tappa dei cinque colli. Una tappa che promette emozioni e nuovi sconvolgimenti, ora che la corsa può finire nelle mani di chi era stato camcellato dalla lista dei possibili vincitori dopo la Rimini-San Marino. Avvio a Sappada, arrivo a Canazei: 214 km di tormento. le salite che devono essere scalate hanno contribuito a creare la leggenda del ciclismo. Un nome basta a ricordare le imprese del campione più amato perché riusciva a vincere quando anche i suoi sostenitori erano rassegnati alla sconfitta: il Pordoi. Una volta di più, il Pordoi è il tetto del Giro con i suoi 2.239 metri di quota: per questo Torriani, che la corsa rosa la allestisce da oltre 40 anni, lo ha definito Cima Coppi, per ricordare il Campionissimo al quale ancora ieri gli appassionati hanno dedicato scritte sui muri, sull'asfalto e su alcuni striscioni.

In ordine di scalata, il Pordoi è il quarto dei cinque colli che caratterizzano questo stupendo tracciato: dopo Monte Croce Comelico (1.636), Passo Gardena (2.121), Passo Sella (2.239). A Coppi non sarebbe occorso di più per seminare avversari di ogni calibro, ma oggi gli scalatori si devono cercare con il lanternino e ne hanno sempre una, quando li si interroga sulle loro mancate prestazioni. Ecco, allora, che dopo essere scesi dal Pordoi, fino a Rocca Pietore, si ricomincia a salire e si continua per 16 km, fino ai 2.057 metri della Marmolada: se a questo punto il gruppo non è ancora in briciole, significa che campioni con la «C» maiuscola non ce ne sono più. 
Rino Negri

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