Scognamiglio: Visentini tradito, ma è cambiato il mondo


di CHRISTIAN GIORDANO  ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS  ©

Ciro Scognamiglio, inviato della Gazzetta dello Sport, napoletano ormai milanese ma solo d'adozione, è – nella migliore accezione – uno degli ultimi "cagnacci" da notizia. Sempre sul pezzo, nel momento e al posto giusti. 

Per sua e nostra fortuna, alla bocca non ha però la bava dello sciacallo. Anzi: proprio l'intimità - che non sconfina in complicità - con corridori e addetti ai lavori ne fa uno dei giovani suiveur più rispettati nella carovana che segue le corse pro' in giro per il mondo. 

Ciro, di cui non posso dirmi amico perché non ci frequentiamo ma col so di avere un ottimo rapporto, è consapevole che questo mestiere, per servirlo bene come si dovrebbe, non si può fare troppo a lungo da sopravvivere a se stessi. Per questo riabbraccerà non fuori tempo massimo l'amato mare. Nel frattempo racconta il ciclismo con competenza, misura e sensibilità e - fenomeno più unico che raro - senza mai perdere l'occasione per dare una mano a un collega. 

Lo incontro in sala stampa al termine della lunga giornata di lavoro, appena spediti i pezzi del dopo-corsa, la Strade Bianche 2018 vinta in solitaria sotto la pioggia dal belga Tiesj Benoot con 39" sul francese Romain Bardet e 58" su un altro belga, l'esordiente Wout Van Aert. 

Ciro, pur stanco e affamato, non si sottrae al ricordo di un episodio vissuto quando era ancora un bambino. Un piccolo tifoso di Roberto Visentini che per leggere di ciclismo comprava la Gazzetta, e che da grande c'è finito dentro per scriverne.

Sala stampa “Strade Bianche”, Palazzo Sansedoni
Siena, 3 marzo 2018

- Ciro Scognamiglio, inviato per la Gazzetta dello Sport, trentun anni dopo, se ti dico "Sappada" il tuo primo pensiero qual è?

«Sappada: penso a quella grande sfida tra Visentini e Roche, a quel tradimento. Io ho sentito poi, in questi anni, le spiegazioni, le parti, quello che tutti hanno detto. Devo dire che io sono un po’ di parte, io parteggio per Visentini. Mi era piaciuto tantissimo il Giro d’Italia che aveva vinto l’anno prima. E anche per questo ho cominciato a comprare la Gazzetta dello Sport. Io sono napoletano e dalle mie parti, per certi versi, è più diffuso il Corriere dello Sport. E io non facevo eccezione, solamente che io m’interessavo, oltre al calcio, abbastanza anche di ciclismo, e volevo leggere di più sul Giro d’Italia. Per questo ho cominciato a comprare la Gazzetta e ho seguito tutto il Giro, vittorioso, di Visentini nell’86. Quindi io già pensavo che [nell'87] potesse fare il bis. Mi piaceva il suo talento, anche il suo carattere un po’ introverso. E quindi su quell’episodio sono un po’ più parziale. Sono dalla parte di Visentini». 

- Quindi è per questo che lo definisci “tradimento? Perché per tanti giornalisti anglosassoni fu semplicemente business, una scelta di corsa.

«Mah, potrebbe essere. Ci sta, il ragionamento dei colleghi. Il mio era un "ragionamento" da tifoso, da bambino, perché avevo dieci anni e a quell’età è anche più facile che stai a sentire una spiegazione “romantica” rispetto a una spiegazione razionale. E poi forse me ne sono anche fatto un po’ influenzare nella lettura e nei retroscena che di quell’evento poi ci sono stati».

- Quando sei diventato giornalista e sei andato a lavorare nel giornale che sfogliavi da bambino e quindi forse anche dei tuoi sogni…

«Sì, è così…».

- …e ti sei trovato come vicini di scrivania quei colleghi che quel Giro lo avevano seguìto e raccontato da inviati, ecco: c’è qualche loro confidenza che magari, dopo oltre trent’anni, puoi raccontare?

«Non troppo, in realtà. Un po’ perché alla fine ho sempre preferito, anche in questo caso… Sai, è un po’ difficile da spiegare: secondo me le confidenze, per quanto possano essere tali, restano sempre filtrate. Non è mai il tuo sguardo. Io alla fine preferisco vedere, e cercare di raccontare le cose, di persona. Quando non posso, mi documento, ascolto gli altri però non è mai la stessa cosa».

- Da addetto ai lavori qual è il modo di raccontare quel ciclismo, rapportato a quello di oggi, che più ti ha colpito? Nelle differenze o nelle analogie, se ci sono. 

«È la narrazione del ciclismo che è completamente cambiata. Noi lo vediamo, per esempio, sulla Gazzetta dello Sport: la cronaca in sé della tappa sostanzialmente, tranne eccezioni, dai nostri racconti è quasi sparita, mentre prima era predominante. E poi la differenza che mi colpisce è la quantità d’informazioni che adesso sono più sotto gli occhi. Questo naturalmente non vale solo per il ciclismo, ma ci sono delle cose di cui magari prima non saresti mai venuto a sapere e invece adesso c’è sempre l’occhio della telecamera, oppure del tifoso con il telefonino, che te la fa venire a sapere. Insomma, è completamente diverso».

- Perché dopo oltre trent’anni siamo ancora qui a parlarne, che cosa rende unico quell’episodio?

«Be’, il forte contrasto tra le due personalità. Questo affascina sempre. Quando ci sono due campioni che si vengono a sfidare, diciamoci la verità, se sono di personalità diversa è meglio. Questo non vale solo per il ciclismo, no? Pensiamo al tennis: Borg-McEnroe. Al basket NBA con Larry Bird e Magic Johnson».

- Alla boxe con Ali e Foreman…

«Esatto. Se ne potrebbero fare tanti di esempi. La grande differenza è che quella contrapposizione che c’è tra i due campioni la ritrovi poi nella tua vita quotidiana, perché poi magari il tuo amico del cuore, la tua amica, la tua compagna, il tuo capo, che magari la pensa diversamente da te e allora c’è un altro dualismo e secondo me questo intriga».

- E forse l’unicità di quell’episodio sta anche nel fatto che Visentini era in maglia rosa. Ci sono stati tanti “tradimenti” di un gregario al proprio capitano,  o fra co-capitani, ma mai di un corridore alla sua maglia rosa.

«Sì-sì-sì. Questa sicuramente sì, è una delle cose che lo rendono speciale, se non la principale. Sì, io sono d’accordo con te».

- Differenze fra i due corridori sul piano tecnico e personale?

«Sul piano personale Visentini era più schivo, più introverso, Roche più esuberante. Non voglio dire spaccone, non sarebbe adeguato, però esuberante sì. Dal punto di vista tecnico, Visentini era un grande cronoman e si difendeva bene in salita. Roche, anche, era abbastanza completo. Resta quella sua grandissima stagione “alla Merckx”, da Giro-Tour-e-Mondiale, che però poi non è più riuscito a ripetere in quei termini».

- Ti chiedo un raffronto tra il ciclismo dell’epoca e quello di oggi, e in particolare di come si sia allargata la forbice che c'era tra le big (PDM, Panasonic, le squadre di Stanga, quelle di Guimard eccetera) e le piccole-medie dell’epoca, rispetto a quella che esiste oggi. A parte il Team Sky e i suoi 35 milioni di euro di budget annuo, la forbice tra grandi e piccole-medie si è allargata a dismisura.

«Sì, si è allargata ma la differenza sostanziale è la diffusione mondiale del ciclismo. Questa è una differenza veramente sostanziale».

- Intendi la sua globalizzazione?

«Sì, perché adesso stiamo parlando di fine anni ottanta, e comunque già aveva fatto la sua comparsa - per esempio - LeMond, un americano, e prima non ce n’erano. Ma se andiamo più indietro, anche all’inizio degli anni settanta, piano piano questa globalizzazione, questa mondializzazione è veramente una realtà che adesso… Io lo dico sempre a proposito, per esempio, del palmarès di un campione come Nibali, che ha vinto quattro grandi giri, due Lombardia, tutto quello che ha vinto, tanti podi e così via. Nibali trova sempre, restando all’Italia, un Gimondi che ha vinto di più, un Moser che è stato anche primatista dell’ora, un Bartali, un Coppi. Però c’è da dire che adesso le nazioni che compaiono negli ordini di arrivo sono molte di più. Abbiamo uno slovacco [Peter Sagan] che da tre anni è campione del mondo. Abbiamo gli australiani, abbiamo gli africani…».

- I colombiani che solo allora cominciavano ad affacciarsi…

«Negli anni ottanta, certo. Magari un "Lucho" Herrera. Ne ricordi magari uno, due [Herrera e Parra, nda], ma adesso ce ne sono… C'è Quintana, c’è Urán Urán, c’è [Sergio] Henao, c’è Bernal, c’è Gaviria, c’è quest’altro ragazzo della Quick-Step Floors [Álvaro José Hodeg, nda] e poi non sono più solamente scalatori. È cambiato tutto, dai».

- È un altro mondo. Si può parlare della Carrera come di un  Team Sky ante litteram o, se preferisci, del Team Sky come di una Carrera versione 2.0? O sono più le differenze che le analogie?

«In un certo senso, sì. Credo però che alla fine fare un paragone in questo senso, a trent’anni di distanza, sia un po’ azzardato. Però dire che magari in quella Carrera ci poteva essere in nuce qualcosa del Team Sky di adesso, un po’ sì: ti direi di sì. Il Team Sky ha delle peculiarità che già lo rendono diverso dalla maggior parte dei top team attuali, quindi, a maggior ragione, dalla Carrera di trent’anni fa». 

- A che cosa ti riferisci?

«All’innovazione, e all’innovazione-sperimentazione, soprattutto».

- Quindi tu vedi una Carrera comunque legata a quel ciclismo, con una figura centrale come era quella del direttore sportivo Boifava, e meno con una struttura piramidale?

«Sì, e poi anche come una realtà che era sostanzialmente “ciclistica”, mentre vedo che Sky si è aperta anche a dei professionisti che vengono da esperienze in altri sport. Pensiamo a Tim Kerrison [preparatore australiano che viene dal nuoto e guru dei cosiddetti Big Data, nda], che è l’allenatore di Froome, il loro corridore principle, e ha esperienze anche nel canottaggio, con gli australiani...».

- Ci sono stati, in Carrera, un primo e un secondo Roche: quello dell’86-87 e quello del ’92-93. Quella a cavallo dell’era di Epolandia è stata anche l’epoca di un passaggio importante nel ciclismo. Tu hai notato nella tua esperienza, con gli occhi del poi, due Roche così diversi? Ricorderai forse i suoi soprannomi [Rocchi, Roncati, Righi] emersi dal processo di Ferrara. È stata, quella, anche uno spartiacque fra due epoche.

«Probabilmente sì. Però su questo non me la sento di sbilanciarmi troppo, perché non è qualcosa che ho studiato a fondo. Non mi sento di dire chissà che cosa. In generale, quindi non parlando in particolare di Roche, non è che stiamo scoprendo adesso che quegli anni sono stati compromessi dal punto di vista del doping. Quello, sì. Ma lo dico parlando in generale». 

- Negli anni ottanta il ciclismo italiano era (ancora) al centro del mondo. Un mondo molto eurocentrico e in cui c'erano tantissime squadre e corse italiane; erano tantissimi anche i corridori italiani e i migliori stranieri venivano nelle nostre squadre (per esempio De Vlaeminck e Moser nella stessa squadra, seppure solo per un anno: ti chiedo se oggi sarebbe proponibile anche solo pensarlo). E soprattutto è, il nostro, un ciclismo che ha perso tanta tradizione, tante corse piccole e medie che però erano importanti. Ti chiedo allora una strada per ritrovare se non il centro dell’impero almeno riprenderci questa nostra grande tradizione che pare perduta.

«Bisognerebbe avere la capacità di attirare di nuovo degli sponsor importanti che riescano a mettere il budget necessario per costruire una squadra di livello medio-alto. Abbiamo visto che i nostri campioni sono andati a correre per squadre di capitali stranieri, dove però la principale manodopera - tra l’altro - è quasi sempre italiana».

- Per non parlare dei materiali e delle varie professionalità...

«È un problema strettamente economico. E alla fine basterebbe forse anche solo un grande sponsor che magari possa fungere da volano per gli altri».

- Magari “parastatale”, come avviene in tante realtà all’estero: dalla Movistar alla Lotto, per non parlare di squadroni come Bahrain-Merida, Astana o UAE Emirates.

«Sì, però sono Stati che hanno realtà completamente diverse da quelle italiane, quindi questo mi sembra ancora più difficile. La vedo più con un privato». 

- Per chiudere: una Sappada, o anche una La Plagne con Roche che finisce con la maschera dell’ossigeno, nel ciclismo degli SRM, dei wattaggi, delle iper-specializzazioni, delle radioline, potrebbe accadere?

«Meno, sicuramente. Però non è impossibile. Be’, ma comunque, anche parlando della Strade Bianche di oggi [3 marzo 2018], abbiamo visto che per pura fatica un corridore come [Wout] van Aert, terzo [alla prima gara da pro’ su strada], per pura fatica nelle ultime centinaia di metri della Strade Bianche è di fatto stramazzato al suolo, poi s’è rialzato… Quindi…».

- E la faccia infangata di Tiesj Benoot è la stessa di Sean Kelly che vinceva sette Parigi Nizza consecutive. Alla fine il ciclismo è quello…

«Alla fine, sì. Alla fine possiamo fate tanti discorsi “giusti”, tra i tanti cambiamenti, però determinate costanti nel ciclismo si trovano sempre».

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