HOOPS MEMORIES - Bucks '71: capolavoro da Oscar



Sull’asse Robertson-Alcindor, Milwaukee costruisce una delle formazioni offensive più forti di sempre e conquista il suo unico titolo. Un successo storico che, stretto tra il primo dei Knicks e quello dei Lakers della Striscia, resta colpevolmente sottovalutato


di Christian Giordano ©
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All’inizio degli anni Settanta, fra le leghe professionistiche nordamericane, il basket è ancora il quarto sport professionistico dietro baseball, football e hockey. Tuttavia, in vista della stagione 1970-71, nonostante la stagnante economia nazionale e preoccupata di sottrarre alla ABA, la lega concorrente, più mercati possibili, la NBA si allarga a 17 franchigie. L’ulteriore espansione, la quinta dopo quelle del 1961 (Chicago Packers, poi Zephyrs e quindi Bullets ma a Baltimore), 1966 (Chicago Bulls), 1967 (San Diego Rockets e Seattle SuperSonics) e 1968 (Milwaukee Bucks e Phoenix Suns), porta nel circuito presieduto dal commissioner J. Walter Kennedy i Buffalo Braves, i Cleveland Cavaliers e i Portland Trail Blazers.

Come era prevedibile, sul parquet il contributo delle neoarrivate è modesto, specialmente per i Cavs, che partono con 15 sconfitte e arrivano con 15 vittorie in 82 partite: un pianto. Nella stanza dei bottoni però, la loro esistenza costringe il management ad importanti cambiamenti strutturali. Per entrambe le conference vengono istituite due division, la Midwest e la Pacific (l’unica con cinque squadre) per la Western, la Atlantic e la Central per la Eastern. E ai playoff vanno le prime due squadre di ciascuna division.

Gli equilibri della Lega cambiano di brutto quando ai Bucks, franchigia fondata nel gennaio 1968 per merito della Milwaukee Professional Sports and Services, Inc. (Milwaukee Pro), gruppo diretto dagli imprenditori Wesley Pavalon e Marvin Fishman, approda la guardia Oscar Robertson. Il 32enne “Big O” va a formare con il centro Lewis (Lew) Alcindor Jr, che dall’estate 1971 cambierà il nome in Kareem Abdul-Jabbar, l’asse playmaker-centro che cambierà i destini loro, del club e della NBA.

I Bucks appartengono alla Midwest, la division più forte (come Bulls, Suns e Pistons scollineranno il 50% di vittorie), che, come per incanto, si ritrova così anche la formazione più forte. La stagione precedente, l’arrivo della matricola Alcindor aveva subito trasformato una squadra d’espansione in una pretendente al titolo. L’arrivo della star Robertson l’avrebbe resa campione.

Ai Cincinnati Royals, dove era stato per dieci stagioni da All-Star, Oscar non era più felice. L’anno prima, con coach Bob Cousy (uno che di point men ne capiva, perché da giocatore era stato il faro della dinastia Celtics) c’erano state scintille, e che Big O non sarebbe rimasto un minuto più del necessario era ormai il segreto di Pulcinella. Bravi i Bucks a portarselo a casa, il 21 aprile 1970, per un tozzo di pane: l’ala/centro Charles “Charlie” Paulk e la guardia Flynn Robinson, detto Electric Eye per la capacità di scorgere e pescare l’uomo giusto al momento giusto.

Robertson non porta soltanto lucida regia e palloni d’oro per il 2.17 (per 103 kg) Alcindor, che a 23 anni è già il miglior centro della Lega. “Mr. tripla doppia” (la ottenne nel 1961-62, con 30.8 punti, 12.5 rimbalzi e 11,4 assist di media, ndr) è per antonomasia, se ne esiste uno, il prototipo del giocatore di squadra. Sa fare tutto benissimo: tirare, passare, andare a rimbalzo, difendere, alzare il rendimento proprio e dei compagni quando più conta. In quanto a vittorie, però, a parte due titoli statali back-to-back (1955 e 1956) con la Crispus Attucks High School di Indianapolis, prima squadra di neri a laurearsi campione nell’Indiana, era stato sfortunato. Al college, dopo aver portato da Giocatore dell’anno i Cincinnati Bearcats di coach George Smith al loro primo di tre titoli consecutivi nella Missouri Valley Conference e, l’anno seguente, ancora da miglior marcatore, addirittura alla Final Four, chiuse la propria parentesi universitaria con la terza corona di re dei realizzatori (e, a 33.8 di media, con il record per punti in carriera, assieme ai 7 assist a uscita uno dei suoi 12 primati NCAA) ma senza vincere quel Torneo che lui più di tutti avrebbe meritato; e che invece, ironia della sorte, arrivò nei due anni successivi la sua partenza per i pro, col nuovo coach Ed Jucker.

Le gesta del primo cestista nero reclutato dalla University of Cincinnati avevano permesso a Jucker, deceduto il 2 febbraio 2002 a 85 anni, di reclutare talenti in abbondanza da centrare l’impresa. Diverso il discorso di Roma 1960, quando Robertson guidò lo squadrone di Jerry West, Walt Bellamy, Jerry Lucas e Terry Dischinger a un oro olimpico che gli USA, una sorta di Dream Team ante litteram, non potevano perdere.

«Ai tempi, era il più grande» ripeteva Jucker «Non aveva eguali. L’ho sempre considerato un giocatore completo, e non ce ne sono tanti “così” completi. Sapeva giocare in qualsiasi ruolo e in ogni zona del campo». Ancora più sperticati gli elogi profusi dall’ex coach di Kansas Dick Harp: «Aveva un’incredibile capacità di pilotare la partita, e molte volte nel farlo sembrava come se stesse passeggiando, tanto aveva il pieno controllo delle cose. E poi aveva la stazza (1.94 x 100 kg, ndr), la rapidità, tutto. Erano doti innate, e fra queste c’era quella di sapere sempre cosa fare della palla».

Ma per varcare il confine tra campione e fuoriclasse, anche per Robertson valeva l’antica legge mai scritta che, alla fine, il fuoriclasse è davvero tale se “migliora” chi lo circonda. E il sodalizio tecnico con Alcindor realizza tutto questo alla lettera in una stagione memorabile. Alla leadership, al ballhandling e al contributo anche a rimbalzo fornito da Robertson nel backcourt fanno da contraltare il dominio che l’ex UCLA esercita nel frontcourt e i Bucks chiudono col miglior record: 66-16, 10 successi in più dell’anno precedente e addirittura 14 rispetto ai New York Knicks secondi nella Lega ma primi a Est e tutto sommato favoriti nella corsa al titolo in quanto campioni uscenti.

Tutt’altro background aveva Alcindor, capace di dominare a ogni livello (78-1 e due titoli nazionali alla Power Memorial HS nel 1963-65; 21-0 da freshman più, dal ’66 al ’68, tre titoli NCAA con i Bruins) prima di “imparare a perdere” (1-4 nelle Finali della Eastern nel 1969-70) nella sua stagione da rookie tra i pro. A proposito: il futuro Jabbar era arrivato alla franchigia del Wisconsin grazie a una monetina, quella del sorteggio vinto sui Suns, l’altra squadra d’espansione che si giocava il diritto a chiamare per prima al draft NBA del 1968.

Il quintetto dei Bucks, fatalmente assai poco “team oriented” data la presenza dell’Asse, rinuncia di fatto alla shooting guard classica e schiera un quintetto “alto” con l’ala/guardia Bob Dandridge (1.97 x 88 kg), la guardia/ala Jon McGlocklin (1.94 x 93 kg), un veterano, e l’unica vera ala forte di ruolo, Greg Smith (1.94 x 88 kg). Non sorprende che sotto le plance (52.96 rimbalzi di squadra arpionati contro i 48,83 di media concessi) non temano rivali. Completano la rotazione i veterani Lucius Allen nello spot di guardia e Bob Boozer in quello di forward e Dick Cunnigham al centro. Poco più che garbage time per l’ala grande Gary Freeman, ceduto ai Cavs dopo 41 partite in cambio dell’ala/centro McCoy McLemore, che alle 58 presenze stagionali con Cleveland aggiungerà le 28 in maglia Bucks, per gli esterni dietro Bill Zopf, Jeff Webb e Marv Winkler e per l’ultima ala Bob Greacen, come Winkler praticamente mai utilizzato.

I Bucks partono fortissimo: 17-1 con l’unico stop, nella seconda gara stagionale, del 20 ottobre, 115-114 a Detroit, poi una doppia battuta d’arresto contro New York (94-103 alla Mecca, 100-99 al Garden) e, più avanti, sul 45-11, dal 6 febbraio all’8 marzo, una striscia-record di 20 vittorie consecutive – primato strappato ai Knicks – un filotto che, nonostante il calo nel finale di regular season (5 sconfitte nelle ultime 6 gare), la dice lunga su chi sarà l’avversario da battere in post-season.

L’esperienza e il carisma portati da Robertson, la cui media punti precipita a 19.4 dagli oltre 30 a sera degli anni a Cincinnati, e messi a disposizione della superstar Alcindor (capocannoniere a 31.7 punti per gara e ovvio MVP stagionale) fanno dei pur giovani Bucks i primi candidati al titolo della Western Conference. E alla fine, l’etica lavorativa di Alcindor, la maniacale ripetitività delle esercitazioni volute da coach Larry Costello e le interminabili ore passate a visionare filmati (in tempi in cui il videotape era di là venire, ndr) dal fidato assistente Tom Nissalke avrebbero pagato. Alla faccia dell’eccessiva “seriosità” spesso loro imputata, anche se più dalla critica che dai tifosi. «Larry, Oscar e io la pensavamo allo stesso modo» ricorda Abdul-Jabbar «Se fossimo stati al massimo dell’efficienza avremmo diminuito il più possibile le possibilità di errore». E così fu.

Al termine della stagione regolare Milwaukee – una delle formazioni offensivamente più forti nella storia – guida la Lega nei punti segnati (118.4 contro i 106.2 concessi di media) pur essendo appena 12esima nelle conclusioni tentate (95.16). Un dato che spiega molto della bontà delle scelte al tiro (50.9% dal campo) operate da Robertson e compagni.

Stessa musica nei playoff. I Bucks superano agevolmente (4-1) San Francisco in semifinale di conference e Los Angeles, vittoriosa per 4-3 su Chicago, in finale. Ci si aspettava forse qualcosa di più dai Lakers, ma i gialloviola non erano più quelli dell’anno prima. Indisponibili per infortunio il regista Jerry West e l’ala piccola Elgin Baylor (assente per tutto il torneo eccetto due apparizioni), e con il centro Wilt Chamberlain come unica opzione offensiva, per di più reduce da una stagione maledetta per via dei soliti malanni alle ginocchia, L.A. aveva seri problemi una volta superata la metà campo. Un peccato, perché il solo pensiero di quali emozioni avrebbe regalato la sfida nella sfida Robertson-Alcindor vs. West-Chamberlain mette i brividi ancora oggi, tre decenni dopo.

Molto di nuovo, invece, sul fronte orientale. Baltimore (42-40 in stagione regolare) si sbarazza in sette gare di Philadelphia (47-35) e, sorpresa sorpresa, dei Knicks, che avevano eliminato in scioltezza (4-1) Atlanta e sembravano destinati a concedere la rivincita ai Bucks, sconfitti l’anno prima proprio nell’ultimo turno della Eastern.

In finale, però, non ci sarebbe stata storia: Milwaukee era troppo forte, specie per gli acciaccati Bullets (progenitori degli attuali Washington Wizards, ndr). Nell’ultima parte di regular season, al centro di Baltimore, Wes Unseld, era capitata una grave distorsione a una caviglia. Sulle prime, pareva dovesse star fuori sei settimane, poi in qualche modo era riuscito a recuperare per i playoff anche se il suo rendimento ne avrebbe risentito. In più, la battaglia all’ultimo spasmo contro New York aveva ridotto i ranghi della squadra allenata da Gene Shue. L’ala Gus Johnson, un tipino capace, pur con qualche eccesso, di definire il ruolo di moderna power-forward a forza di rimbalzi e terrificanti schiacciate, è alle prese con persistenti dolori a un ginocchio, lo stesso problema che, divenuto cronico (e per di più a entrambe le articolazioni), aveva costretto il point man Earl Monroe a giocare assumendo posture e andatura innaturali che alla lunga gli avevano causato uno stiramento muscolare.

Non c’è la controprova, ovvio, ma è lecito pensare che senza quegli infortuni, la serie finale sarebbe potuta essere più equilibrata e più spettacolare. Unseld, per esempio, rendeva sì ad Alcindor ben 17 centimetri di statura ma rispetto a lui pesava 8 chili in più. E la cosa, è il caso di dirlo, ha un certo peso. E ancora: Robertson avrebbe avuto la vita più dura contro un Monroe in salute. “The Pearl”, nonostante i malanni, segna 26 punti in Gara1 a Milwaukee, ma i 31 di Alcindor, condizionato da problemi di falli (tre nel primo tempo, contro i due di Unseld nei primi 2’) ma autore di un gran secondo tempo, spingono il match verso i Bucks, subito avanti 14-6 fino al 50-42 dell’intervallo e al 98-88 conclusivo. Nel dopogara, la stampa comincia a stare addosso a Big O, incalzandolo su quel titolo che, per lui, sembrava non arrivare mai. Non proprio memorabile la risposta di Big O, «se arriva, arriva», biascicata con un cipiglio che nasconde un finto disincanto.

In Gara2 a Baltimore, Unseld impiega il suo monumentale gioco di bacino (monumentale pure quello) per tenere lontano dal canestro Alcindor (14 punti e 4 rimbalzi nella prima frazione, 13 e 10 nella seconda), ma inutilmente. Big O segna 22 punti e limita Monroe a 11 punti e il 102-83 pro Milwaukee è quasi consequenziale, anche perché Unseld, ai suoi 11 punti e 17 rimbalzi del primo tempo, aggiunge i 2 punti e le 3 carambole della ripresa.

La serie torna in Wisconsin con una piega ben precisa, confermata dalla gran prova di Dandridge (29 punti), che trascina i Bucks al 107-99 sui Bullets prima illusi e poi delusi da Monroe, autore dei primi 9 punti dei suoi e di appena sette nel resto dell’incontro. Importante, seppure non decisivo, il parziale di 9-1 innescato nel terzo periodo da Robertson e determinante, invece, l’assenza di Gus Johnson, appiedato dallo stesso problema fisico che gli aveva concesso appena due minuti di gioco in Gara1 e, tra mille dolori, trenta in Gara2. Tolta quella mezz’ora, il suo contributo sarà di appena sette minuti in tre partite: troppo poco anche solo per sperare di vendere cara la pelle ai Bucks.

A separare Milwaukee dal primo titolo della sua storia, nonché il più rapido mai vinto da una squadra d’espansione, c’è una vittoria, che arriva, puntuale, nella seconda partita nel Maryland. È quella dello sweep, un evento non proprio usuale nella storia delle Finali NBA visto che prima era accaduto solo nel 1959, rifilato dai Boston Celtics ai Minneapolis Lakers, e che si sarebbe ripetuto altre 5 volte: nel ’75 dai Golden State Warriors ancora ai Bullets (nel frattempo trasferitisi a Washington), nell’83 dai Philadelphia 76ers ai Los Angeles Lakers, nell’89 dai Detroit Pistons ai Lakers, nel 95 dagli Houston Rockets agli Orlando Magic e nel 2002 dai Lakers ai New Jersey Nets.

Mattatore della serata, con 30 punti, non poteva che essere Robertson – a 19.4 di media il miglior marcatore stagionale dei suoi, davanti a Bob Dandridge (18.4 ppg) e a Jon McGlocklin (15.8 ppg), e con 8.3 assistenze a partita terzo della Lega nella specifica graduatoria – autentico trascinatore dei Bucks vincitori per 118-106. Un successo figlio di «un basket puro, quasi perfetto» dirà anni dopo il co-leader della squadra assieme ad Alcindor, a sua volta capocannoniere a 31.7 punti per gara, secondo nella percentuale dal campo (57.7, dietro il 58.7 di Johnny Green di Cincinnati) e quarto nei rimbalzi (16 per gara, alle spalle di Chamberlain, 18.2, Unseld, 16.9, e Hayes, 16.6). Cifre che gli consentono di bissare il titolo di MVP di regular season con quello dei playoff. Una scelta obbligata. A sorprendere, casomai, è vedere Robertson nel Secondo quintetto NBA anziché nel primo, dove ad Alcindor fanno compagnia le guardie Jerry West (Lakers) e Dave Bing (Detroit), e le ali Billy Cunningham (Philadelphia) e John Havlicek (Boston).

Tutto lasciava pensare che il titolo aprisse per Milwaukee una dinastia destinata a durare nel tempo e non solo lo spazio, pure imperituro, di una stagione vincente. Ma Big O per primo non poteva immaginarsi il capolavoro al contrario che di lì a poco il management gli avrebbe fatto alle spalle. «Dopo che avevamo vinto il campionato, [i dirigenti] fecero una mossa davvero stupida» spiega Oscar «Scambiarono Greg Smith, Bob Boozer e Dick Cunningham. Certa gente non riesce a capire l’importanza del concetto di “squadra”. Vinci un campionato e vai a cedere gli elementi-chiave? Fu il bacio della morte».

Chissà, forse la dirigenza riteneva che, intoccabile e intoccato l’Asse, sarebbe bastato cambiare i colletti blu per tenersi l’abito di campioni. Invece, nonostante un’altra stagione da 60 vittorie dei Bucks, nel ’72 i Lakers dei record (33 vittorie iniziali, 69 in regular season) riportano il titolo a L.A. Nel ’75, un anno dopo la delusione di aver perso in finale contro i Celtics, Abdul-Jabbar si vestirà di gialloviola per andare a infilarsi alle dita altri 5 anelli. Un uppercut dal quale Milwaukee non si è ancora rialzata.
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Il coach - Ma che bel Costello 

Da giocatore, nei pro, Lawrence Ronald “Larry” Costello (Minoa, New York, 2 luglio 1931) è passato alla storia della NBA come l’ultimo tiratore a due mani dal basso verso l’alto. Rick Barry? In quel modo tirava i liberi. Guardia di 1.84 per 85 kg uscita da Niagara University (15 punti a partita in tre stagioni da titolare), Costello nel 1954 approda ai Philadelphia Warriors ma fino al termine della stagione 1955-56 è militare. Nell’ottobre ’57 viene ceduto ai Syracuse Nationals. Sei volte All-Star (ma nel ’62 non giocò perché infortunato), chiuse la carriera nel 1965 con quelli che nel frattempo erano divenuti i Philadelphia 76ers. Tornò sui suoi passi nel 1966-67 dopo che il nuovo head coach Alex Hannum lo aveva cercato come uomo d’esperienza per fare da point guard di riserva. Tempo 42 partite e il 6 gennaio Larry si rompe il tendine di Achille, infortunio che lo fa rimpiazzare da Wali Jones, ma non gli toglie il titolo di campione NBA. Nel ’68, si ritira e si mette ad allenare. Ai Bucks, con i quali vince l’anello nel 1971 e rimane fino al 1976-77, quando, dopo una partenza da 3-15, viene esonerato. Nel 1978-79 ha una chance ai Chicago Bulls, ma dura 56 partite (20-36). Nel 1980 è a Utica College (77-106), implicata nel complicato passaggio dalla Division III alla I della NCAA. Il capolavoro, però, coach Costello (430-300 in carriera, 37-23 nei playoff) lo aveva già fatto. Con Robertson e Alcindor. 

CHRISTIAN GIORDANO ©

Riepilogo serie Finale
Gara1, 21-4-1970, Milwaukee-Baltimore 98-88 1-0
Gara2, 25-4-1970, Baltimore-Milwaukee 83-102 0-2
Gara3, 28-4-1970, Milwaukee-Baltimore 107-99 3-0
Gara4, 30-4-1970, Baltimore-Milwaukee 106-118 0-4

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