Angelo Zomegnan: «Il Tour fa il campione, il campione il Giro»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Canturino di Desio, classe 1955, Angelo Zomegnan non è uno che, nell’ambiente e fuori, s’è fatto tanti amici, né se li è mai cercati: «Io ho amica la mia coscienza, ed è sufficiente». 

Dopo avermi guidato al telefono col suo caldo vocione baritonale, mi riceve nell’ufficio della sua agenzia due giorni dopo essere diventato – anche ufficialmente – Senior Advisor della Pallacanestro Cantù. Una consulenza cominciata già da novembre, progetto condiviso con Irina Gerasimenko, Andrea Mauri e Marco Sodini, e già finita il 27 luglio, come si legge nell’intervista rilasciata al quotidiano La Provincia di Como: «Non vedo un organigramma e neppure un business plan, quindi allo stato attuale io mi considero un “estraneo”». 

E ormai da estraneo Zomegnan mi racconta trent’anni di ciclismo italiano, prima seguito per una vita in Gazzetta (da inviato fino a vicedirettore vicario) e poi organizzato, per sette anni, come responsabile di RCS Corse e direttore del Giro. L’eloquio in managerese, spesso intercalato con milanesissimi “va béne?” e “okay?”, riflettono una visione e una mentalità americaneggianti che si può solo intuire quanto possano essere state poco comprese, se non molto osteggiate, da un ambiente tanto tradizionalista e spesso chiuso qual era (qual è?) il nostro ciclismo.

Fra i pochi suiveur italiani dell’epoca a parlare inglese, aveva un rapporto confidenziale con Stephen Roche, che non per caso, la sera di Sappada, nonostante il divieto del diesse Boifava di parlare con i media, scelse lui per far sentire la propria campana.

sede innovACTION 11
Cantù (Como), giovedì 15 febbraio 2018

- Angelo Zomegnan, partiamo da “Angelo, come here”. Aiuta, l’inglese, eh? Soprattutto in quell’Italia…

«Soprattutto se lo conoscevi. E anche se eri sul posto, fortunatamente, nel momento giusto. Il che comportava anche, a volte, fare dei sacrifici». 

- Non era solo fortuna. La fortuna te la sapevi cercare.

«Se tu aspetti che le notizie ti piombino addosso, a volte capita ma il più delle volte non capita. E se non le vai a cercare, se non ti “avvicini” alle notizie, rischi di non averle. Lì a Sappada fu una cosa abbastanza singolare nel senso che, anziché lavorare nella sala stampa generale, o nel nostro quartier generale di Gazzetta dello Sport – che credo fosse in un centro sportivo, in una palestra o in una scuola – io andai a lavorare sulla terrazza di quest’alberghetto che ospitava la squadra di Roche e Visentini».

- L’hotel Corona Ferrea.

«Esatto. Siccome dentro non si poteva andare perché era stato ordine che nessuno se non della squadra potesse entrare, l’unica sistemazione che avevo trovato era a un tavolino della terrazza di quest’albergo. Quindi all’esterno, in montagna, in un periodo che ancora non faceva caldo, eravamo al 6 giugno e non a fine agosto, quando si sta bene anche sulla terrazza. Mi ero trasferito lì a lavorare. Lavoravo da lì e uno degli accompagnatori e degli autisti, veniva a prendere le cartelle che a mano a mano venivano scritte a macchina, e le portava giù, riscaldandole per togliere d’attorno l’umidità e poterle mandare via-fax a Milano». 

- Un autista un po’ particolare, giusto?

«Sì. Carletto Pierelli, che più che un autista era veramente un amico e un accompagnatore. Si faceva vita comune anche fuori delle corse. Quando uno è in giro duecento giorni l’anno e ci sono dei periodi di tre, quattro settimane in cui è “obbligato” a vivere in auto con qualcuno, o c’è feeling, sennò succede il disastro. Io, se vado in giro tre settimane con mia moglie tutti i giorni otto ore, litigo quattro volte il giorno. Con gli altri non puoi litigare quattro volte il giorno, quindi o vai d’accordo o non vai d’accordo. Era uno che risolveva i problemi quotidiani che ti porti dietro nella trasferta, dalle monete che non hai per pagare il caffè e lui te le fornisce, al trovare l’albergo, a recuperare un panino mentre stai lavorando perché non sei riuscito né a far pranzo né a far cena eccetera, quindi una persona un po’ particolare».

- Perché c’era solo Angelo Zomegnan lì e non anche altri giornalisti italiani?

«Perché Angelo Zomegnan probabilmente ha avuto l’intuizione di dire vado lì, aspetto, probabilmente qualcosa succede. Invece…».

- Invece gli altri seguivano più Visentini che Roche? 

«Beh, lì li avevano tutti e due, perché erano nella stessa squadra. La realtà è che la Gazzetta magari viaggiava con sei-sette giornalisti e quindi poteva permettersene uno che stesse a lavorare sul posto e ad aspettare che accadesse qualche cosa. Del resto se lì le decisioni dovevano essere prese, su chi veramente doveva essere il capitano, all’arrivo del patron Tacchella, lì doveva arrivare, quindi lì sarebbe stato intercettato, lì magari gli si sarebbe potuto fare una domanda eccetera. Se uno se ne sta serenamente in sala stampa, come adesso succede… Io quando ero direttore del Giro d’Italia le macchine dei giornalisti non le vedevo mai…».

- Perché Roche e non Visentini? Era perché con l’irlandese avevi un rapporto confidenziale?

«Io ero lì per tutti e due. Chi beccavo, beccavo, okay? Visentini non voleva parlare, non ha voluto parlare. Roche invece mi ha visto di là della vetrata, ha aperto mezza finestra e mi ha detto: “Angelo, come here”. E abbiam parlato in inglese. Probabilmente, dei due, uno non voleva dire le proprie verità e l’altro invece voleva dire le proprie verità. E la verità era una soltanto: mi hanno preso per vincere il Giro d’Italia e il Tour de France, sono qui per vincere il Giro d’Italia e il Tour de France». 

- Tu quindi non hai mai creduto al presunto patto in Carrera: Roche al servizio di Visentini al Giro e il viceversa al Tour?

«Ma questi patti non esistono. Sono soltanto illusioni dei team manager. Quelli erano Giri d’Italia, come del resto per qualche anno successivo, che si vincevano in due corridori. Qual era la “squadra” di Roche? Era Schepers. Punto. Gli altri correvan tutti per Visentini, giusto?».

- Beh, io ho parlato con molti ex di quella squadra e alla fine loro ammettono di aver fatto una scelta di soldi. Son andati dietro ai soldi. Perché se oltre a Visentini saltava anche la maglia rosa, anziché fare primo e secondo, non avevano più neanche il primo e addio premi…

«Però, ad aprire la strada a Roche, io ricordo Schepers…».

- E magari anche Robert Millar…

«Esatto. Un po’ come sarebbe stato alla Fagor e in altre squadre. Con il senno di poi, e senza passare al setaccio le “verità” di quel momento lì… C’è una figura, nella letteratura, che si chiama ipotiposi: quando tu racconti una cosa, e non fai lo storico ma lo storiografo, okay, l’ipotiposi è quella figura letteraria che ti dice che le impressioni, le dichiarazioni, raccolte il più vicino possibile al momento di quando è accaduto qualcosa sono quelle più realisticamente percorribili. Se tu mi racconti una cosa dopo vent’anni, alcune sfumature non le hai, o le hai ma manomesse, sei passato al vaglio della storia, quello che era dalla parte di Visentini – invento – magari ha sposato la “cugina di Schepers”, allora dopo diventa “amico di Schepers” oltre che parente. È diverso». 

- Hai sentito, se mai l’ha detta, una di quelle famose frasi attribuite a Visentini: “Stasera qualcuno va a casa!”?

«Sì, l’ha detta. L’ha detta veramente. E secondo te avrebbero potuto mandare a casa Roche, che poteva vincere il Giro d’Italia? O quell’altro che soffriva le pene d’inferno, e ancora soffriva i tifosi di Moser che l’avevano hanno portato [nel 1984, nda] a segare una bicicletta? Ci sono cose… Visentini, una classe eccelsa, va bene? Uno che faceva anche tanti sacrifici per la bicicletta. Molti di più di quel che si diceva. Perché il golden boy, il figlio di famiglia ricca, il papà che aveva una agenzia di pompe funebri, tutta ’sta roba qui, la macchina bella, “eh ma a Filippi…”. Per vincere, in bicicletta, devi allenarti. E lui si allenava, però lo faceva sulla base di una classe che altri non avevano. Aveva una capacità di guidare la bicicletta in discesa… Quell’anno lì si è partiti da Sanremo con un gara in salita, una gara in discesa e si arrivò a San Romolo: tre semitappe in due giorni. Lì chi vinsero? Visentini, Breukink e Roche: mica pizza e fichi. Era ancora un ciclismo in cui la squadra contava relativamente. E c’erano momenti in cui, ad esempio, la cronosquadra rischiava di fartelo perdere un Giro, non di fartelo vincere». 

- Anche se in realtà quell’anno la Carrera la stravinse sia a Lido di Camaiore al Giro sia a Berlino al Tour. Questo per dirti che era una squadra molto forte.

«Sì, rispetto alle altre. Era la Juventus del ciclismo italiano. L’unica [nell’87 con la Del Tongo-Colnago e la Supermercati Brianzoli, nda] che andava a correre il Tour de France. Mettiamo insieme quella squadra lì. Lasciamo perdere Cassani, che è riuscito a perdere una Coppa Placci già vinta, facendosi infilzare, lui e Chiappucci, da quello che gli arrivava dietro [nel 1992, fuga a due con Chiappucci (Carrera) e Cassani (Ariostea) beffati in rimonta da Johan Bruyneel (ONCE) come Roche e Criquielion da Argentin alla Liegi ’87, nda]. Quella era la squadra di Visentini, Mächler, Roche, Bontempi, Chiappucci, Ghirotto, Leali. Questi qui potevano benissimo essere, in quel ciclismo là, dei capitani delle altre squadre. Un po’ come la Sky di adesso». 

- Lì volevo portarti. Si può dire quindi che la Carrera fosse una sorta di Team Sky con trent’anni di anticipo? Però con una forbice molto più stretta fra le grandi e le medio-piccole? Oggi, tra i 35 milioni di euro annui del Team Sky e una medio-piccola, il divario è amplissimo. Com’era il rapporto tra quella Carrera e, non so, l’Atala di Cribiori o la Magniflex di Magrini di quegli anni?

«Sì, la forbice era più stretta, okay, ma adesso quant’è la forbice – vera – tra Sky e la FDJ?».

- Uno a quattro? Son stato troppo basso?

«Uno a tre. Col risultato che la “tre” uccide le corse. La Carrera non riusciva a uccidere le corse».

- Vuoi dire che allora, rispetto a oggi, c’erano più squadre medie?

«No. Voglio dire che adesso una squadra come Sky tiene in pugno un Tour de France dall’inizio alla fine».

- Mettendone sette là davanti ai cinquanta all’ora.

«Esatto. Quelli potrebbero essere capitani di altre squadre. Ciascuno».

- Non era così anche allora? L’Ariostea non si prendeva i migliori per le classiche? Il “problema” è che è un altro ciclismo.

«Gare per gare. L’Ariostea dettava legge nelle classiche. Nelle corse a tappe no. Poi le corse bisogna analizzarle tutte… Tipo quella col Muro di Huy, la Freccia Vallone, quando [Michele] Ferrari disse che è doping quello che si trova, quello che non si trova non è doping. E lì della Gewiss c’erano primo-secondo-e-terzo. Lì chi c’era? C’erano Furlan, Berzin, [nel 1994: 1° Argentin, 2° Furlan, 3° Berzin; nda], tutti vestito allo stesso modo, con le biciclette uguali, con le ruote rinforzate. Dal punto di vista della preparazione erano avanti».

- La Carrera era all’avanguardia anche per l’immagine, i materiali, la particolarità di andare a prendere non soltanto i corridori più forti, ma anche stranieri di vari Paesi. Perché così volevano i patron Tacchella: uno o due per nazione.

«Sì, un’intuizione, ma perché? Perché volevano sviluppare…».

- …altri mercati. A differenza di altri patron. Del Tongo, per esempio, che a Saronni diceva: per me il Giro di Puglia è più importante del Tour de France. 

«Perché il suo mercato era lì».

- Poi magari mi dici se Del Tongo lo diceva davvero.

«Sì, è vero. Era così. Era un ciclismo molto nazionale e poco internazionale. La Carrera, prima come Inoxpran e poi come Carrera, è stata quella che ha fatto il salto di qualità. Andava in giro per il mondo ed era strutturata per essere protagonista. Aveva i lungagnoni per vincere le premondiali per andare in nazionale, aveva quelli per vincere il Giro d’Italia e comunque andare là… Noi ci dimentichiamo di Battaglin ma Battaglin è stato un precursore». 

- Con lui Boifava ha pescato il jolly perché pronti-via, avere subito un Battaglin che dopo due anni ti vince, in 47 giorni, Giro e Vuelta poi ti apre la strada per dire: possiamo permetterci i migliori corridori, i migliori materiali, una certa struttura eccetera. 

«Certo. Erano gli anni in cui la Bianchi aveva Contini, Segersäll, Prim e Baronchelli e non riusciva mai a scegliere quello che doveva vincere. Io mi ricordo benissimo Battaglin, il giorno prima di prendere la maglia rosa. Lui arrivava dalla Spagna. Aveva vinto la Vuelta e Contini gli ha detto: “Mañana, torna mañana”. Gli ha fatto così [mima il gesto, nda]. “Mañana por la mañana” [domani mattina, in spagnolo, nda]. Nel senso: me la prendo io quella maglia lì. Erano tutti e due all’antidoping, non so per quale motivo. Era un ciclismo diverso. Quale fosse il migliore, quale il peggiore, non lo so. Ti dico che c’erano degli sprazzi di fantasia, nella gestione tattica delle corse, che adesso non vedo».

- Oggi quindi, nel ciclismo degli srm, delle radioline, una Sappada o situazioni simil-Sappada non le vedi possibili?

«Le radioline sono funzionali allo svolgimento della competizione. Le radioline ti dicono: attenzione che fra duecento metri c’è un cane che sta attraversando la strada. Oppure può partire l’ordine: ragazzi, fra tre chilometri soffia il vento da destra, attacchiamo e buttiamoci nei ventagli. Sempre radioline sono. Dipende da come le utilizzi. È un’idiozia dire che le radioline uccidono l’aspetto agonistico. Le radioline sono fondamentali per la sicurezza in corsa. Tu sei sempre sotto controllo. E allo stesso modo sono impietose nei confronti di quei direttori sportivi che sono solo dei tassisti».

- E allora come valuti Boifava in quella situazione, con i due galli nel pollaio Carrera? Prima mi citavi addirittura i tre-quattro galli della Bianchi…

«Boifava era uno che, in un mondo di ciechi, aveva un occhio. Però ne aveva solo uno, tant’è che lui, che di quella Carrera era il team principal, è dovuto andare a Verona a prendersi Tacchella per redimere la situazione tra Visentini e Roche: ma cosa lo leggi, sulla carta? Te lo dice il padrone chi deve vincere il Giro?».

- Visto che quella sera eri lì, c’è qualche mito da sfatare? A partire dal famoso elicottero dei Tacchella che a Sappada non poté atterrare perché a Venezia c’era il presidente USA Reagan in visita per il G7…

«Sono arrivati in macchina. E la cosa si è protratta…».

- Sono venuti loro, no?

«Sono venuti da Caldiero. Eravamo a Sappada. Non è che fossimo in Irlanda. I Tacchella vennero insieme e probabilmente avere insieme due dei tre fratelli [il quarto, Eliseo, era già missionario comboniano, nda] dava più forza, e magari più conforto nelle decisioni da prendere. Elicottero… ma quando poi volavano gli elicotteri col buio, nel 1987?! Neanche quelli del Vietnam volavano nel buio. Sono venuti in macchina. E ci han messo tanto tempo. E poi il resto lo considero dettagli, no? Che sia partito Boifava per andare a prenderli, o che fosse sufficiente una telefonata dal numero fisso, in azienda, per dire: qui abbiamo un problema, vieni giù che lo risolviamo. Qual era il problema? Era una scelta tattica? No. Era da sottolineare alcune cose: tu perdi il Giro, e questo ti dà dieci milioni di lire, oppure…».

- Tu che cosa hai raccontato sulla Gazzetta, il giorno dopo e quelli successivi?

«Nel dettaglio non me lo ricordo».

- L’atmosfera però l’hai ancora presente?

«Sì, era un momento che per certi versi…». [sorride]

- Non si era mai visto che un compagno attaccasse la maglia rosa…

«Non in modo così evidente, così smaccato, okay? Però analizziamo le due situazioni: Visentini era il deputato a vincere il Giro d’Italia e Roche era il deputato a vincere il Tour de France». 

- Tra l’altro Visentini aveva vinto il Giro l’anno prima.

«La mia domanda è: se tu hai Visentini in squadra, perché vai a prendere Roche? (Io poi avevo fatto uno scoop…)».

- Per provare a vincere il Tour. Nell’85 aveva fatto terzo.

«Sì, ma perché vai a prendere Roche, prima di tutto, e perché lo schieri al Giro d’Italia?».

- Qua ci sono dei distinguo da fare. Roche era finalmente guarito ma c’era il problema dell’ingaggio. E aveva un signor ingaggio.

«Certo».

- Era caduto alla Sei giorni di Parigi nel novembre ’85, nell’86 non aveva fatto risultati, Boifava voleva ridurgli l’ingaggio, Roche aveva ancora un anno di contratto ma intanto aveva cominciato a guardarsi in giro. E teneva il piede in più staffe: Fagor, Panasonic, un eventuale rinnovo con la Carrera ma a cifre più basse. Allora, nell’87, o faceva risultati oppure… E qual era lo scoop che hai fatto?

«Lo scoop che ho fatto è che a un certo punto, quando prese Roche, saltò fuori che Boifava fosse a Parigi per trattare Fignon. E invece era lì per trattare Roche, che ha sempre avuto un grandissimo legame con Parigi. Lì ha vissuto a Parigi, lì ha corso da dilettante eccetera. Avevano fatto un incontro, credo, all’aeroporto “Charles de Gaulle” per definire alcuni particolari con il procuratore di Roche che credo fosse McQuaid a quel tempo là, o uno della famiglia McQuaid [tradizione familiare tramandata agli eredi: Gary McQuaid, agente Uci e fondatore della Altus Sports Management, è stato procuratore di Nicolas Roche, il figlio di Stephen, nda]».

- Si conoscevano dalle categorie giovanili. Il ciclismo irlandese dell’epoca “era” la famiglia McQuaid.

«Lì la Gazzetta aveva fatto uno scoop-ino. Tutti pensavano che Boifava fosse là per prendere Fignon, invece era là per prendere Roche. Torniamo al discorso di prima. Roche aveva bisogno di vincere, perché ne valeva della sua quotazione, okay? Non c’erano mai stati patti, prima di quella roba lì. E furono commesse delle leggerezze. Tu non prendi Roche, che è in debito con se stesso e con la società, per fargli fare il gregario di Visentini. Poi noi, o la tifoseria italiana, vista dal punto di vista italiano, tiri fuori tutto, no? Visentini ha vinto l’anno prima, è maglia rosa, e non si attacca la maglia rosa, di qui e di là… Allora: lo puoi fare in modo pacchiano; o lo puoi fare come è successo tra Cunego e Simoni. Lì la situazione era più delicata perché erano due italiani, ma il Cunego del 2004 e Simoni: perché devi attaccare Simoni? Perché sei Cunego, perché stai andando forte, perché in quel Giro lì non c’è nessuno. Gli unici due corridori “da Giro” sono Simoni e Cunego. Corrono nella stessa squadra, e viene il giorno di Falzes. Uno si trova davanti e l’altro non riesce ad andargli dietro [batte le mani come a dire: fine]. Se sei il direttore sportivo che cosa fai? Decidi di “rinunciare” a Cunego aspettando Simoni in un Giro equilibrato, perché i valori quelli erano, per correre il rischio di non vincerlo né con Cunego né con Simoni?».

- Tu hai mai creduto alla versione, che Roche nei suoi tre libri cambia e ricambia, secondo cui fu un attacco preparato da lui a tavolino in camera con Schepers addirittura un paio di giorni prima? Oppure, semplicemente, Roche si è infilato nella fuga di Bagot e Salvador, e magari ha detto: io provo…

«Dove correvano Bagot e Salvador?».

- Salvador nella Gis, Bagot nella Fagor, dove Roche sarebbe andato l’anno dopo, con i suoi. C’era però anche un “cambio-merce” precedente: sul Terminillo, va in fuga Bagot con Schepers, che in vista del traguardo neanche ci prova a giocarsi la tappa. La vinci tu poi però ricordati che…

«Certo».

- Secondo te quindi era tutto preparato?

«Roche è troppo intelligente, come persona, per fare una cosa così grande all’insegna dell’improvvisazione. L’ha studiata prima. Com’era stata studiata la sera prima, al Giro’99. la fuga di Zaina verso Aprica, la partenza di Pantani da dietro eccetera. Poi, quei controlli di quella mattina lì hanno fatto saltare il piano ma lì, nell’anno in cui vinse Gotti, era stata studiata a tavolino. Tutti dovevano lavorare fino a un certo punto. Zaina doveva essere il punto di riferimento, andava in fuga, quello partiva da dietro, lui lo aiutava, quello arrivava e spaccava il Giro. Faceva l’impresa. Il Giro doveva passare alla storia con quell’impresa di quella giornata lì. Poi è passato alla storia per un pantano incredibile. Non Pantani eh, un pantano. Lì, quindi, non fu occasionale».

- Parlavi di Roche intelligente come persona oltre che come corridore. Era anche bravissimo a leggere le corse e nel tessere alleanze. Magari dove non poteva arrivare con la classe di cui parlavi prima per Roberto, Roche ci arrivava con altri mezzi.

«Perché lui era un corridore di stampo internazionale. Ha vissuto in Francia, correva al Tour, è irlandese. Quando tu sei in quella situazione lì e non sei parte di un ciclismo nostrano, casalingo, fai meno fatica a trovare quelli delle “convergenze parallele”, no? Il Bagot che trovi lì te lo ritrovi al Tour, quell’altro te lo trovi dall’altra parte, lo conosci, quindi ti basta guardare… Roche era un corridore che con ottocento chilometri nelle gambe vinceva la Parigi-Nizza. Era protagonista dall’inizio dell’anno, e con “poca” fatica. Aveva una classe immensa se andava in fretta in forma. Arrivava alla Sanremo con ottocento chilometri e aveva già vinto la Parigi-Nizza. Adesso arrivano alla Sanremo con quindici-ventimila chilometri. Se non ne hai fatti ventimila, non sei nessuno». 

- Quella battuta feroce di Roche – Visentini appena legge il cartello “Chiasso” si perde – conferma ciò che dicevi ma non riguardava solo il ciclismo. Toccava anche l’aspetto caratteriale, perché Roberto in gruppo non aveva tutte queste amicizie, o no?

«No, le aveva delle amicizie, anche insospettabili». 

- Amicizie più personali che alleanze di corsa.

«Un grande amico di Visentini, pur correndo in squadre diverse, era Saronni. Quando Saronni era tagliato fuori dalla maglia rosa, a far lavorare i suoi Lualdi, Ceruti, Landoni, Piovani, questi qui, parzialmente per sé, e parzialmente per qualcun altro che sfruttava questo tipo di lavoro, lo faceva quindi più per Visentini che per Moser, no? Ci son stati degli episodi, quali gli “uomini mascherati” che scendevano dalla montagna e spingevano Moser, e gli altri corridori li vedevano. Visentini a volte, sulle Alpi, andava via di testa. Quando ci fu un arrivo di tappa a Selva Val Gardena [al Giro ’84, nda], dove c’è l’Hotel Rosa, Visentini con la sua squadra dormiva di là del Passo Gardena, nella discesa che porta a Corvara. Due chilometri prima di arrivare a Corvara, sulla sinistra, c’è un albergo con sauna. Quando lui fu preso a cazzotti, insultato e voleva tornarsene a casa – “Basta, io della bicicletta non ne voglio più sapere –, io andai lì. Poi mi dirai: perché sei andato lì tu? Son andato lì perché… mi han detto di andarci, va bene? [sogghigna, nda] Siamo andati, e lì ho visto Visentini distrutto. Distrutto dalla sindrome-Moser. Quindi: Visentini con la sindrome-Moser per quei fattacci lì. Saronni con la sindrome-Moser. È facile creare un’alleanza. Saronni però non andava al Tour, Visentini non andava al Tour. Era un’alleanza funzionale ai risultati in Italia, okay? Io in una Milano-Vignola, su quelle colline lì, alle squadre di Saronni e di Visentini, ho visto fare delle cose che, se le facessero adesso, diresti: cazzo, guarda, è tornata la Panasonic. Quella delle classiche. Invece l’han fatto quelle squadre lì, a dei ritmi altissimi. E poi quella corsa l’ha vinta Visentini, non Saronni. Però mettendo nel sacco qualcun altro, no? Quello che stava sulle scatole a tutti e due, e che era Moser». 

- Sindrome-Moser di cui soffriva anche Baronchelli.

«Ecco, e con i suoi buoni motivi. Baronchelli non ha mai spiegato perché andò a casa dal Giro d’Italia [’86], quando poteva vincerlo. Eran tutti e due alla Supermercati Brianzoli, giusto? Ah. E dopo due mesi correva con… la Del Tongo? Probabilmente, in quella camera d’albergo, in quell’albergo lì, è successo qualche cosa. Stanga potrebbe raccontarcelo, se volesse».

- L’ho sentito Stanga, è un po’…

«…reticente». 

- Però sta per uscire l’autobiografia di Baronchelli. 

«Baronchelli è una persona di grande dignità. E intellettualmente onesta». 

- Perfino crudo nell’analisi, anche con se stesso.

«Io lo vedevo correre quando era alla Iclas [nel 1973, da dilettante, nda], qui in giro, io abitavo qui. Carimate è sempre stata un crocevia… Andavano tutti dietro a Tano, il corridore era Tano. Prendi Tano però devi prenderti anche il Tista. Eh però… Io ho visto Domenico Garbelli [allora diesse alla Iclas, nda] tirargli una bicicletta addosso, al Tista. Eran gli anni in cui si frequentavano un po’ di corridori perché eran tutti più o meno della stessa classe ed erano tutti intruppati nella squadra dei bersaglieri lì, in viale Ca’ Granda, lì in viale Suzzani, c’è una caserma e lì c’era il corpo degli atleti dello Stato». 

- Perché Garbelli tirò la bici addosso al Tista?

«Quegli anni lì c’era un gruppo di corridori, Tista, Osvaldo Bettoni, [Giuseppe] Mion, Fausto Stiz, Claudio Cavalli eccetera, che si allenavano insieme, uscivano insieme eccetera. In una corsa in cui il deputato a vincere era il Tano, il Gaetano, in una fuga si ritrova il Tista con gli avversari del fratello. E gli avversari del fratello che erano dei figlioli di… han cominciato a dirgli: “Cazzo, ma come pedali oggi! Non senti neanche la pedalata, madonna, ma come fai ad andare così forte ma cazzo tu sei il vero…”. Cioè gli dicevano per scherzo quello che in realtà era, va bene, e lui invece di restare passivo per non penalizzare l’inseguimento della squadra in cui era il fratello, si mise a tirare. Non era come adesso, con le radioline: no, non tirare eccetera. All’incrocio delle strade ti trovavi il Garbelli della situazione, l’Alberto Cappelletti della situazione, lo Zilioli con la Fiatagri eccetera che ti davano gli ordini. E lui quando vedeva Garbelli, smetteva di tirare, poi due chilometri dopo, vrooom, era là che faceva… E ha fatto fuori il fratello. Senza vincere la corsa. L’ha vinta un altro. E quindi Garbelli quando arrivò prese la bicicletta e gliela mise in testa. Sai proprio… nel triangolo del telaio, truc!, così... E ci mancava poco che lo prendesse a sberle. Garbelli è vivente, frequenta i social, è su facebook quotidianamente. Prova a chiederglielo. Chiediglielo». 

- Prima me l’hai buttata lì, en passant. Però una brutta pagina del tifo italiano ha riguardato anche Roche. Dopo Sappada, in quel Giro i “tifosi” gli sputavano addosso riso e vino rosso, gli tiravano brandelli di carne come a dirgli ti facciamo a pezzi…

«Era una vicenda non dico tra Visentini e Roche punto e basta. No. Era una vicenda tra italiani e stranieri. Mettiamola anche da questo punto di vista…».

- Tu da ex Gazzetta, trent’anni dopo, avverti delle responsabilità dei media per certe campagna di stampa? O i beceri ci sono ovunque e comunque, vedi i francesi contro Froome?

«Io mi ricordo che m’invitarono in televisione, quel giorno lì, per parlare dell’episodio della sera prima. E mentre ero lì credo ci fosse in fuga van der Velde [che aveva vinto il giorno prima a Sappada e avrebbe vinto anche quella tappa lì, l’indomani, con arrivo a Canazei, nda] con gli altri dietro che se la smazzavano. I tifosi lo insultavano, gli buttavano addosso eccetera. E io credo d’aver detto una cosa del tipo: la mamma degli imbecilli è sempre incinta. Ed era così».

- Tu quindi sleghi l’inciviltà dei beceri da quel che magari leggevano sui titoloni. Lo avrebbero fatto comunque?

«La gente non si fa tanto condizionare dai titoloni».

- Ricordo quella famosa foto sul palco con Millar in maglia verde accanto a Roche in maglia rosa che zittisce il pubblico…

«Ma, sai, son cose che in modo così eclatante, nello sport, non è che succedano tutti i giorni. Tu guarda nel basket, quello fa un tiro a un secondo e venticinque poi fa così [fa il gesto dei “cocones”, nda], cosa vuol dire? Tu sei un coglione che non mi facevi giocare; oppure c’abbiamo i coglioni, te l’ho dimostrato; oppure voi tifosi siete una banda di coglioni?».

- Marco Belinelli ha detto che quelli per la multa presa per quel gesto dopo la tripla del 91-81 dei suoi Chicago Bulls in gara7 al Barclays Center contro i Nets, playoff NBA 2013, sono stati i 15 mila dollari che ha speso meglio in carriera…».

«È così, eh». 

- Come l’hai vissuta dall’altra parte della barricata, quando da direttore il Giro dovevi organizzarlo e lungo il percorso dovevi preoccuparti di questo tipo di problemi?

«Guarda, ci son stati dei momenti davvero difficili. Quando ancora ero da questa parte, ad esempio, c’è l’episodio di Belli che fu mandato a casa dal Giro d’Italia, perché sul Bondone…. Quell’anno lì, il 2001, succede questa roba qua. Gli hooligans di Simoni. Hooligans che poi sono spariti in una settimana, perché il ciclismo non ha mai vissuto di hooliganismo e son stati proprio emarginati. Belli tira un pugno a questi qua. Perché? Perché questi qui sono i tifosi di Simoni che, a casa loro, perché si era sul Bondone, insultano Belli. Quello è un episodio che mi ha fatto riflettere in prospettiva organizzazione dell’evento. Perché è successo questo? Perché c’è stato abbastanza tempo per cui qualcuno, da dietro le transenne, saltasse verso la strada, si inserisse nella corsa e prendesse a pugni Belli, ma perché è successo questo? Perché era il primo anno che al Giro d’Italia venivano usate le Gilera a tre ruote. E i piloti di quelle moto lì non si sentivano così sicuri, perché alcune avevano 150 cc di cilindrata, altre erano assemblate con motori da 250 eccetera, con dietro la giuria e il portabagagli, quello grande, eccetera. Quelle erano moto quasi sperimentali che ai piloti non davano sicurezza. I piloti quindi prendevano margine prima del gran premio della montagna, per portarsi avanti, per non essere rimontati dal gruppo o dalla fuga. E quindi c’era un buco dove ognuno poteva fare… Era terra di nessuno quella lì. Se invece tu hai un mezzo affidabile, stai lì, appena davanti, e poi se sgasi vai via, quello resta indietro, ma stai vicino alla transenna, tieni indietro la gente, apri il varco, tutta questa roba qui. Quando si facevano gli accordi per…, prima di fare qualsivoglia accordo con la casa delle moto, io obbligavo il responsabile delle moto, il Vito Mulazzani della situazione, a testare queste moto, per capire se queste moto erano adeguate a quel tipo di lavoro o no. Il business, il commerciale, non poteva venire prima dell’aspetto sportivo. E comunque doveva essere legato, essere condizionato, a questa cosa. Queste sono cose che ho imparato da giornalista e che poi ho messo in pratica organizzatore. A volte mi vedo, mi confronto, con qualcuno che vive il Giro d’Italia in sala stampa e purtroppo queste cose non le annusa, non le respira, non le percepisce, non le approfondisce. Erano anni in cui il giornalismo pativa dell’assenza di “tecnici”. Cioè: il mondo del giornalismo ciclistico patisce di una cosa molto importante che è la mancanza di alcune generazioni. Perché alcuni vecchi santoni hanno fatto di tutto perché non venissero su i giovani, okay? Tu quindi passavi da un panorama di giornalisti sessantenni ai venticinquenni. E in mezzo non avevi…».

- …la “classe media”, nel senso dell’anzianità nel mestiere. 

«Esatto. Quella carenza, quella mancanza lì, che cosa determinava? Determinava la povertà di competenze da parte dei giovani. Perché i vecchi generali ai giovani non insegnavano un cazzo. E i giovani non avevano quelli intermedi da cui succhiare qualche cosa. E quindi, difettando di tecnicismo, diventava un giornalismo da gossip. Adesso, andrebbe benissimo». 

- Il problema è che adesso non ci sono personaggi.

«Neanche allora c’erano. Però la storia del prosciutto di Mino Farolfi, il prosciutto crudo che gli avevano dato e doveva essere portato a De Zan ma era sparito, dava a un giornale come Il Giorno la possibilità di fare delle aperture; ma voglio dire…».

- …parliamo pur sempre del prosciutto di De Zan.

«Esatto. Non parliamo del Giro d’Italia. Allora, quando c’è stata quella deviazione lì, sai… Ci son state delle trasmissioni televisive, non sul ciclismo ma sul calcio, dove vedevi gli hooligans che rimanevano per terra e sembravano morti, poi quel filmato lì se anziché essere fermato lo lasciavi continuare vedevi che l’hooligan si rialzava e magari andava a bere il caffè, capito? Allora: quello non è un giornalismo che mi appartiene. Quelle categorie lì non sono buone. Non faccio il nome di questi colleghi che: a) non ritengo colleghi; b) non ritengo neanche meritevoli di considerazione. Perché sai, quando tu vai a un Giro d’Italia e la cosa precipua è di sparare contro il sistema… Cazzo, va bene, ma fallo un giornalismo d’inchiesta. Dimmi perché nella carovana del ciclismo continua a circolare un sacco di doping. Poi io ti dico che io ho portato i carabinieri dei Nas sotto copertura al Giro d’Italia. E non se n’è accorto nessuno, se non i carabinieri, i quali, peraltro, essendo carabinieri, nel loro house organ scrissero: due nostri colleghi sotto copertura al Giro d’Italia. Capisci?! Sputtanando così la copertura. Neanche i miei colleghi sapevano chi fossero quelli lì. Perché gli avevo procurato la macchina della Skoda, che era un nostro fornitore, da andare a ritirare a Verona. Andarono a Verona, gli feci dare l’abbigliamento, i pantaloni con le tasche laterali, le magliette eccetera. E questi erano lì per fare un certo lavoro, che era il lavoro sotto copertura dei NAS: controllare quelli che arrivavano, mettere le microspie, fare tutto quello che dovevano. Non se n’è accorto nessuno. Se però tu vuoi proteggere…». 

- Mi stai dicendo che ancora oggi nessuno non l’ha mai saputo?

«Esatto, ma adesso te lo dico. Quelle cose lì sono state fatte da parte mia per proteggere il Giro, non per…».

- Tutto questo è finito con Zomegnan?

«Sììì…».

- E non è più stato fatto?

«Mah, questo… Quando è stato trovato il metodo per scoprire l’epo, non ancora l’ormone della crescita eccetera, mentre l’Unione Ciclistica Internazionale, consultandosi con una certa parte della comunità scientifica, aveva elaborato un sistema per cui tu arrivavi per deduzione, e non per induzione, a scoprire la molecola dell’epo, l’eritropoietina sintetica, sulla base di sei-sette parametri che cambiavano – i reticolociti [forme immature dei globuli rossi; il loro numero o la loro percentuale nel sangue riflette l’attività funzionale del midollo osseo, nda], la ferritina [proteina globulare che si trova principalmente nel fegato, nella milza, nel midollo osseo e nei tessuti scheletrici, nda] e tutte ’ste cose qua, in quella fase lì, i prodotti continuavano ad andare e venire, eh. Non è che non andassero. Poi, una volta messo l’occhio di bue su quella vicenda lì, il problema principale è diventato quello della logistica: dove te le porto le cose? Non andiamo tanto lontani: ma nel Paese europeo dove, per via del passato, delle colonie eccetera, tu trovi tutta la frutta esotica dell’universo, in qualsiasi supermercato di Francia, dal Géant Casino del Mont-Fréjus al Carrefour di Lille, tu mi devi dire perché una squadra doveva avere un furgoncino refrigerato per portare in giro quei prodotti lì? A chi lo vai a raccontare, eh? Tu non hai idea di quante notti la polizia francese abbia perlustrato alcune situazioni, attorno agli alberghi delle squadre, per vedere cosa succedeva. Poi il fatto che beccassero quelli che buttavano nella poubelle [la pattumiera, nda], per dirla alla francese, il sacchettino con dentro le siringhe per fare, non so, anche le vitamine, era una conseguenza di un altro tipo di lavoro che stavano facendo. Ci son stati degli inseguimenti notturni in Francia, quando io ero al Giro d’Italia… Me lo raccontava Patrice Clerc, che era il presidente di ASO e veniva sistematicamente in Italia, ed io sistematicamente andavo in Francia per rendermi un po’ conto anche dell’evoluzione della corsa. Lui perché innamorato dell’Italia da quando veniva a giocare a tennis agli Open d’Italia con Panatta e Barazzutti, ed io anche per fare un aggiornamento professionale. Perché dal Tour – dal Tour, non dai francesi – c’è sempre da imparare. Ti portano i ritrovati più importanti, le soluzioni tecniche, la telemetria, la grafica. Noi in Italia avevamo delle grafiche che facevano ridere. All’asilo... Se mia figlia, che andava all’asilo, faceva un lavoro così, me la mandavano a casa. Però, sai, la Rai lo faceva. Non si capiva mai, nell’ultimo chilometro, se uno era rientrato o non era rientrato. Perché farle sparire? Sparivan le grafiche perché i rilevamenti eran sbagliati, no? E allora li cancellavano. Li toglievano, e arrivederci. Tutti fenomeni. Quale sia stata la “strozzatura” della Rai per il Giro d’Italia io non riuscirò mai a capirlo e a immaginarlo. Se il Giro fosse stato nelle mani, anche soltanto di Mediaset, come per alcuni anni è capitato… A Mediaset, Popi Bonnici non faceva niente. Faceva come la barzelletta del carabiniere e della scimmia, no? Li mandano nello spazio, fa tutto la scimmia e il carabiniere, quando viene il suo turno, per fargli sapere cosa deve fare gli dicono: non toccare niente, dai da mangiare alla scimmia altrimenti non tornate indietro. Okay? Popi Bonnici non faceva niente. Facevano tutto quelli della Société Française de Production. In corsa c’era questa Citroën col tetto rosso, in modo che gli elicotteri la riconoscessero eccetera, e lì c’era la vera regia per la produzione delle immagini televisive. Poi quello staccava, metteva la riga, lanciava la pubblicità. Sai, tutte ’ste stronzate qui, ma roba da terza elementare, okay?».

- Per la serie: facciamoci degli amici...

«Ma chissenefrega. Io non ho bisogno di avere degli amici, no? Io ho amica la mia coscienza, ed è sufficiente».

- Prima parlavi del tuo rapporto privilegiato con Roche, adesso di quella fase del ciclismo che ha portato, anzi c’eravamo già dentro, all'èra dell’epo. Tu hai riscontrato due Roche diversi, tra il primo e il secondo, tornato in Carrera a inizio anni Novanta, cui furono associati i tre pseudonimi (Rocchi, Roncati e Righi) rivelati nel processo di Ferrara?

«Allora: quella Carrera lì portava i corridori migliori da Conconi. La preparazione era fatta a Ferrara. Punto».

- Con medici approvati dal CONI.

«Sì. No, ragazzi, non confondiamoci: nel 1980 il santone delle maratone, che è Massimo Magnani, va bene, portò Conconi al CONI. E Conconi venne poi portato poi da Angelo Laverda, che era alla Lega, alla Federazione Ciclistica Italiana. E preparò il quartetto della cento chilometri, fu il frutto sulla scorta di quanto aveva fatto con Moser [per il Record dell’Ora, nda]; ma Conconi era un uomo del CONI. Ragazzi, non sbagliamoci. All’Olimpiade di Los Angeles, io lo andai a intervistare e feci una pagina su Conconi, okay?, dove lui raccontava di Cova, della Dorio, dei ciclisti, di tutto. Aveva in mano lo sport. Le medaglie-record di Los Angeles ’84...».

- Trentadue, se non ricordo male.

«Sì, ma 14 sono di Conconi, eh. Eh! Quello era il ciclismo che andava da Conconi, e quelli che non andavano da Conconi facevano di tutto per andarci». 

- Come poi col suo discepolo, Michele Ferrari: tutti facevano di tutto per andarci…

«I medici della Carrera erano Grazzi dell’Università di Ferrara, Casoni dell’Università di Ferrara. Cioè, voglio dire… Quando partì il Tour da Berlino, cos’era?».

- Sempre quell’anno lì, l’87.

«Okay, Grazzi era davanti al Muro di Berlino prima che il Muro lo abbattessero, eh, non era lì per caso. Non l’avevano ancora abbattuto». 

- Quindi, visto il tuo rapporto privilegiato, hai trovato un Roche diverso?

«Sììì. Era un Roche diverso. Più sistematico. Era un Roche che si chiedeva se il test di Conconi, basato sulle tempistiche, sul minutaggio, fosse più o meno efficace rispetto allo stesso test modificato da Sabino Padilla, che era il medico di Indurain. E della Banesto. Questo si basava sul quarto d’ora. Uno sui cinque minuti. L’altro sul quarto d’ora. Sabino Padilla sosteneva che basandosi sul quarto d’ora il ciclo di un’ora era più realistico che non sui cinque minuti. Però c’eran tanti corridori. E cinque minuti sulla pista di Ferrara, in mezza giornata facevi tutti i corridori della Carrera. Se li tenevi tutti un’ora, ci volevan tre giorni».

- Questione di costi. Mi dai un assist: tu ci credi al Froome che viene al Giro senza prendere un compenso-extra? Quando era organizzato e diretto da te il Giro pagava le superstar per convincerle a partecipare?

«Allora: io ho avuto un episodio che non ho mai nascosto. Non vedo perché. Il Giro è uno spettacolo. Se vuoi avere gli attori principali, gli vai a pagare il cachet. Non è che fai Sanremo gratis e non dai seicentomila euro a Baglioni, quattrocentomila a Hunziker e non so quanto a Favino, okay? Nessuno si è meravigliato del fatto che Favino fosse venuto a una presentazione del Giro e ha preso un cachet per leggere dei brani su… Pantani, giusto? Nessuno s’è meravigliato. Perché?».

- Perché c’è questa paura, quasi, di ammetterlo? Perché il Giro non “può” pagare un corridore per convincerlo a partecipare? 

«Perché è ignoranza. Io feci una negoziazione, una trattativa, con il procuratore di Lance Armstrong, cifre che non dico ma sicuramente non erano le cifre di Froome, ma sotto un’altra formula: non per farlo venire al Giro d’Italia, ma per farlo venire al Giro d’Italia a fare della comunicazione. E per dare della visibilità al Giro. Io, senza Armstrong al Giro d’Italia, non avrei avuto la televisione americana. Non avendo i canali americani non avrei – come dire – impreziosito il brand Giro d’Italia e non avrei aperto delle frontiere diverse. Non lo avrei reso “internazionale”, e sarebbe continuato a essere il Giro degli italiani corso in Italia. Invece volevo che diventasse il Giro d’Italia nel mondo. Che son due cose diverse. Allora: nell’accordo con Armstrong, con chi curava gli interessi di Armstrong, c’erano: i suoi passaggi, le sue presenze, la partecipazione alla Milano-Sanremo, per cominciare a lanciare la comunicazione, un passaggio al Ministero degli Esteri quando il Ministro per gli Esteri era Franco Frattini [lo è stato per due mandati, e due partiti, dal 12 novembre 2002 al 18 novembre 2004 (con Forza Italia) e dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 (con Il Popolo della Libertà), nda], insomma tante cose. Tante cose. Ed io non ho difficoltà a dire che a uno degli sponsor del Giro d’Italia, dei partner del Giro d’Italia, che era Mediolanum, con il suo presidente Ennio Doris… Io chiamai Doris per chiedergli di dire al suo socio, che è Silvio Berlusconi, che in un programma d’incontro con il presidente degli Stati Uniti, che era George Bush Jr, chiedesse a Bush di perorare presso Armstrong la causa di farlo venire al Giro d’Italia. Io non ho mica vergogna a dirlo. Doris ed io: non so se poi Doris gliel’abbia mai detto a Berlusconi. Berlusconi è vivo – mi dicono, ho visto ieri sera che firmava delle cose – e Armstrong è tuttora vivo».

- La stessa cosa, che tu sappia, accadeva – o accade – anche al Tour?

«Il Tour credo non ne abbia bisogno. La realtà del Giro è che se tu prendi il ranking – che poi sia giusto o non sia giusto, che poi i criteri per stilare il ranking siano adeguati o no, questo è un altro discorso –, se tu prendi il ranking dei primi cento corridori al mondo, al Tour ne corrono sessanta, al Giro ne corrono dieci. Allora: il Tour “fa” il campione, ed è vero. Il Tour, quando nel 2008 arrivò anche la minaccia di dire: lo facciamo per squadre nazionali, o per dilettanti, sarebbe stato sempre il Tour. Il Tour crea il campione. Il campione crea il Giro. Se non c’è il campione, non c’è il Giro. Che venga o non venga Froome – che secondo me neanche doveva essere preso, soprattutto in un momento in cui tutti sapevano da due mesi che aveva il problema [la vicenda del salbutamolo alla Vuelta 2017, per cui poi è stato assolto dal tribunale antidoping dell’UCI, nda] –, se sono andati a offrire dei quattrini per farlo venire al Giro a uno che era “indagato”, vuol dire che sono degli incapaci».

- Com’è stato per te portare sulle spalle quell’eredità, pesante, di direttore del Giro dopo Torriani e Castellano?

«Be’, quella di Castellano non era pesante».

- Eppure era cresciuto alla scuola di Torriani, no?

«Torriani è stato un grande generale che non ha cresciuto alcun attendente».

- Lo riconosci nella definizione di “Napoleone” che di lui ha dato Claudio Gregori?

«Ma sì, numero uno in assoluto. Più grande anche di Goddet, di Lévitan, di questi qui. Non c’è corsa. Uno che nel 1946, con l’Italia tra le macerie, porta in giro la carovana del Giro d’Italia, è come se [il sindaco Sergio] Pirozzi ad Amatrice organizzasse la Milano-Sanremo tutte le settimane, no? Quello era Torriani. Torriani ha portato il Giro d’Italia a Venezia. Torriani ha “inventato” la cronosquadre, la cronodiscesa, la cronoscalata. Ha portato le ambulanze dentro il Giro. Poi, ti devo dire: io ho fatto sulle ambulanze, con la telemetria, un altro lavoro. Quando un corridore cade e si fa male, arriva al pronto soccorso. E al pronto soccorso già conoscono tutti i valori di questo qui, non c’è bisogno di fargli le analisi. Arriva che è già… ».

- La sua cartella clinica è già pronta.

«Esatto. Ci sono delle camere allertate, delle sale operatorie pronte, insomma ci sono diverse cose che strada facendo abbiamo perfezionato. Però l’idea basica era quella. Ma quello era un ciclismo che aveva il miglior letterato, che era Bruno Raschi; il miglior inventore di eventi, che era Torriani; uno scrittore straordinario con un’arguzia nel coniare i neologismi, nell’individuare le situazioni, che era Gian Maria Dossena; uno scrittore di paesaggi e di ambientazioni inarrivabile, che era Luigi Gianoli. Dove cazzo vai contro questi quattro qui? Ma quali Goddet, quali Lévitan…».

- Questa visione globale che avevi tu l’hai sempre avuto, è innata, o l’hai sviluppata abbeverandoti a questi grandi personaggi che poi non hanno avuto eredi?

«Io ho una dote, che è quella della curiosità».

- E che dovrebbe essere alla base di ’sto mestiere.

«E poi, forse, così, ho avuto anche l’intuizione di capire che quel tipo di giornalismo era destinato all’estinzione o comunque al ridimensionamento. Cosa che sta accadendo, no? Allora: il giornale non ha ucciso il libro, la radio non ha ucciso il giornale, la televisione non ha ucciso la radio, il web non ha ucciso la televisione – forse la assoggetterà a service, o a quel che sarà – e i social non hanno ucciso il web. Però in questo panorama, fatta di cento la torta, ognuno se n’è ritagliata una fetta, okay? E se tu parti da un giornale che nel 1982 aveva una tiratura media di 750 mila copie, lascia perdere il lunedì che faceva un milione e due, un milione e tre, un milione e quattro, sto parlando di Gazzetta, e che adesso ha una tiratura media di 120 mila copie, cioè: ti porrai una domanda, no? 

- Perché.

«Esatto. Perché questo? Perché non è un giornalismo d’inchiesta, non è tecnico, non è di nicchia, non è un giornalismo… eccetera. C’è qualcosa che ti perdi. La gente non guarda più la televisione. Mia figlia non guarda la televisione. In camera sua non c’è la tv. Io, se vado in una camera d’albergo e non c’è la tv, mi sento spaesato. Lei, succede il contrario. Se va e c’è la tv, dice: “Cazzo me ne faccio, lì ci devo mettere il beauty…”. No, okay? Questa roba qua. Però, sono informatissimi. Male. Perché poi, sui social, uno si alza la mattina, dice delle stronzate pazzesche, tu le leggi e pensi che siano vangelo, con la sacralità tale che sembra siano vangelo. Poi tu le analizzi e dici: no, però è una stronzata questa qui, ha detto una cosa che non è giusta. Ma questo tipo di analisi non c’è, e neanche di sintesi. Però quando ho capito che il giornalismo era destinato ad “assottigliarsi” e, ti devo dire, ero anche abbastanza stanco di andare in giro…».

- Questa è una sindrome che hanno anche tanti corridori a fine carriera, uno dei motivi che li fa smettere e magari poi non restare nell’ambiente, come direttori sportivi o altro.

«Io ho provato a fare duecentocinquanta giorni fuori, e son tanti. Se non sei sposato, se non hai famiglia, se non hai figli, se non hai un cane, se non hai giardino, va bene. Però se… Va bene, punto. Devi cambiare».

- Nel tuo caso, è stata anche una di quelle promozioni che non promuovono (ma rimuovono) o un’esigenza di cambiamento che hai avvertito dentro di te, perché avevi capito che quel tempo era finito?

«Sì, esatto. Non m’interessava, ecco».

- Perché non eri uno “da carriera”, uno da posto di responsabilità che a un certo punto smette di fare il giornalista sul campo e va a fare pr, dirigere gli altri?

«Io ho lasciato la Gazzetta da vicedirettore vicario, eh? Capito? Io ero un uomo di macchina. Io sono del pensiero che chi fa le chiusure deve fare anche le aperture, dei giornali. Cioè: tu devi essere buono di fare il giornale, di fare la macchina, di fare la cucina, ma anche di fare l’inviato. Cioè: devi fare le aperture e le chiusure, okay? Non c’è più, quella roba lì. Adesso si va verso la “vivisezione” dell’attività. Uno fa solo la cucina, uno guarda solo le agenzie…».

- Col paraocchi…

«Sì, però alla fine sei incompleto. Non è vero che lo specialista di adesso, nel suo settore, sia peggio del medico di campagna di prima. No, non sto dicendo questo. Sto dicendo che ci sono delle situazioni per cui, per essere completo, come corridore, devi saper andare in pista, andare in montagna, devi difenderti a cronometro, allora sei un corridore e vinci il Giro. Sennò sei il Viviani della situazione. Io poi ho finito i campionati del mondo di Firenze il 29 settembre del 2013, è lo stesso giorno di compleanno sia di Bersani sia di Berlusconi, quindi non è che la dimentichi in fretta come data. La settimana dopo era a vedere le Spartan Race. Tu sai cosa sono le Spartan Race? Le corse a ostacoli, okay? Noi organizziamo sei Spartan Race in Italia, vuol dire trentamila partecipazioni, tre volte la Coppi e Bartali e tre volte la Maratona delle Dolomiti. In sei località diverse. Con uno staff di sette-otto persone, che tutto l’anno sono in giro per l’Italia e per il mondo. E che diventano cinquanta il giorno in cui ci sono gli eventi. Trentamila partecipazioni a 80 euro di media l’una significano due milioni e quattrocentomila euro di incasso. Su sei eventi. Per allestirli, ci costano duecentocinquantamila euro l’uno. Sono miei. Io sono lo sviluppatore delle licenze. Sono nel board internazionale di questa roba qui. È una roba da fuori di testa, va bene? La gente però diventa matta».

- Come mai non si riesce più a fare qualcosa di simile, magari in scala ridotta, per le tante piccole e medie corse che c’erano in Italia trent’anni fa: Bernocchi, Matteotti, giri delle regioni eccetera? Il buco generazionale di maestri non c’è stato solo nel giornalismo…

«…ma anche nelle organizzazioni, nel panorama organizzativo. Ti ho anche detto perché. Allora: il ciclismo soffre di alcune problematiche. Se vuoi avere la diretta, la devi fare il pomeriggio, giusto? Il pomeriggio la televisione è dei pensionati, degli over 65. Gli over 65 non sono di interesse delle cose di telecomunicazioni, di tecnologia eccetera. Le sponsorizzazioni sono difficili. Molto remunerative e appaganti, ma di nicchia».

- Se vuoi un ciclismo per trentenni, bisogna quindi andare nei Paesi che – per fuso orario – possano guardarlo in tv la sera, possibilmente senza far correre i corridori in notturna con le luci artificiali?

«Uno. E, due, devi cambiare format. I martedì-mercoledì-giovedì che siano liberi dalla Champions League e dalla Europa League. La mentalità è cambiata, si è trasformata. La gente non è più disposta a stare ore davanti al televisore per vedere qualche cosa, ma vuole sapere che la corsa comincia la sera alle 20,45 e finisce alle 22. Poi, alle 22, va a mangiare la pizza o guarda il film in seconda serata. Devi cambiare il format. Che poi quel format tu lo faccia il pomeriggio e lo faccia vedere la sera, o lo faccia in Nuova Zelanda quando là è mattina e qui è notte, è un altro tipo di problema. Ma devi cambiare format. Il point-to-point non lo capiscono. Se tu vai dall’americano e gli fai vedere una corsa che dura quattro ore e arrivano in tre, uno alza le braccia, dopo cinque minuti arriva il gruppo e c’è un altro che vince la volata, poi c’è il podio e c’è quello che ha alzato le braccia e poi un altro che gli mettono la maglia: ma cosa cazzo vuol dire? Da dove spunta questo qui? Ah, era nel gruppo, però siccome ha vinto la cronometro due o tre giorni prima, ha due minuti di vantaggio e quello che ha vinto quella tappa lì è il suo rivale, e ha vinto questo qua. Minchia. I giovani, i ragazzi [schiocca le dita, nda] non la vogliono ’sta roba qua. I ragazzi, e quelli che hanno una cultura diversa rispetto a quella degli sport tradizionali, vogliono qualcosa di smart e cose più veloci».

- E quindi tutto il patrimonio che abbiamo? Non vale niente?

«No. Vale tantissimo. Però bisogna…».

- No, perché tutto questo, allora, non spiegherebbe l’esplosione del ciclismo in tanti paesi anglofili che si sono innamorati del ciclismo negli ultimi venti (?) anni…

«Sì, però questi hanno dietro una cultura per l’ambiente che è diversa rispetto alla nostra».

- E come si può coniugare il mondo smart che hai riassunto con questa parola con quello della nostra tradizione? Con nostra intendo europea, e continentale.

«Sfruttare la Milano-Sanremo facendone il “di cui” di altri eventi. Sanremo ha una pista ciclabile di 32 chilometri. La Sanremo deve essere l’opportunità, o il pretesto, per metterci attorno altri eventi».

- Perché la Sanremo? Perché è la nostra prima grande corsa, o perché è la prima classica-monumento in calendario?

«Perché è la più a rischio. Perché è la più a rischio rispetto alle grandi corse-monumento. Il Lombardia non è più il Lombardia, perché quando tu fai il Lombardia prima del campionato del mondo o della grande chiusura ad Abu Dhabi, e sei tu lo stesso organizzatore, vuol dire che c’è qualcosa che non va, no? Nella vita io ho imparato, magari mi sbaglio, che la finale di Champions League arriva dopo la semifinale, giusto? Questo è una cosa. Credo che in Rcs qualcuno non abbia ancora capito che prima c’è la semifinale e poi la finale, eppure Cairo dovrebbe intendersene, no? Si occupa anche di calcio. Gli altri neanche non si occupano di calcio. E questa è una cosa. Il Fiandre, la Liegi-Bastogne-Liegi, la Parigi-Roubaix sono al di sopra di tutto. Okay? È vero che durante la Parigi-Roubaix, su quel tratto di sassi, arrivano la nonna che abitava a duecento metri dall’altra parte e il cugino che abitava a un chilometro dall’altra parte e si ritrovano solo quel giorno lì. È vero. Perché questa è la cultura della Parigi Roubaix, è la cultura di quella roba lì. E questa non la ucciderai mai. Mai. E la Roubaix continuerà a essere la Roubaix. Il Fiandre credo sia il primo evento del Belgio e di quell’area lì. E quindi stiam parlando di 55% di share. Okay? E sopravvive. Però, voglio dire: tu vai al Giro delle Fiandre, entri nella trattoria e sulla tovaglia di carta ci sono le scommesse, vai nell’oratorio e c’è il megaschermo…».

- Per loro è quello che è il calcio per noi [italiani].

«È quello che è il calcio per noi. La Sanremo cos’è? La Sanremo non è la scommessa, non è il punto d’incontro, non ha il supporto mediatico. Si consuma tutto in dodici secondi. Non te la fanno vivere. Non sono capaci. Non so quanto la televisione italiana abbia da una parte aiutato a svilupparsi e dall’altra soffocato l’esplosione di questa passione qua. Se tu sei un Paese tradizionale della bicicletta, c’hai uno che quasi l’ha “inventata” e che si chiama Leonardo Da Vinci, e poi arriva quello di Southampton a dirti come devi andare in bicicletta? C’è qualcosa che non è andato, no?, lì in mezzo. Lì in mezzo c’è qualcosa che non ha funzionato».

- C’è anche un aspetto culturale. In Francia il Tour è la Festa di luglio, ma sul serio e non solo perché tanti francesi in quel mese vanno in vacanza. È proprio una festa che il francese sente dentro. Qua se ti bloccano il traffico per dieci minuti perché passa la tappa…

«Ma tu vatti a vedere le immagini della Milano Sanremo del 1930. Vai a vedere quelle immagini lì. Quella gente lì, che vedi solo all’arrivo, adesso la vedi lungo tutto il percorso. Tu prendi quella lì, la “spalmi” per trecento chilometri ed è la stessa popolazione che c’è alla Sanremo. La Sanremo non può avere ottocentomila spettatori di media, no? Ma come può essere? In televisione? Di audience? Ottocento mila? Ma se io devo fare la pubblicità dell’acqua San Benedetto, sì, va bene, un bancale te lo mando. Costa 0,10 euro a bottiglietta. Io che la compro lo so quanto costa: alla Metro costa 0,10 a bottiglietta. Io te la mando. Mando un bancale. Anzi, se vieni tu prenderla è meglio. E io ti dico: ma no, se vengo io, spendo più per venire a prenderla che non a comprarla. Se io la compro me la portano, no? Allora: ma perché devo fare un’audience di 800 mila spettatori?! Ottocentomila spettatori era l’audience di basket di quindici anni fa. Se tu facevi tre partite, facevi ottocento-ottocento-ottocento, ed erano due milioni e quattro. La Milano-Sanremo faceva due milioni e quattro da sola! Adesso il basket fa due milioni e cinque e la Sanremo fa ottocento mila: c’è qualcosa che non va, no? C’è qualcosa che non va».

- È lo stesso discorso dei giornali. 

«Sei ore di televisione. Ma perché io ti devo far vedere tutto il campionato di Lega Pro? Perchééé? Cioè, sei ore. Sei ore di diretta: ma cosa vuol dire? Quest’anno il Tour farà tappe totali». 

- Anche l’anno scorso le ha fatte.

«Sì, ma quante ne fa? Quest’anno le raddoppia. Ma come puoi pretendere che uno stia sei ore davanti al televisore? È uno che va in un campeggio e non sa che cazzo fare, capito? Non sa che cazzo fare. Sta lì, 14 luglio, va bene, festa nazionale, guarda otto ore. Però…».

- A guardare il ciclismo, che siano cinque minuti o quello che sia, ti diverti ancora?

«Lo guardo sempre. Mi diverto, in alcune circostanze mi diverto. Mi diverto più guardando il Giro che non guardando il Tour. Il Tour credo sia esasperato in un modo, e la Vuelta esasperata nell’altro. Okay? Guarda che i corridori che vanno alla Vuelta, che fanno quelle tappe di 140 chilometri a sessanta all’ora, escono dalla Vuelta che sono più stressati di aver fatto tre Tour».

- Dal punto di vista fisico, non però da quello nervoso. Perché lo stress che hanno al Tour, al di là della corsa in sé, è proprio dovuto alla pressione mediatica.

«Io vado spesso in Spagna, vedo più corridori nelle discoteche la sera che in fuga durante il giorno».

- Appunto. È quello che ti volevo dire. Alla Vuelta magari soffri i cinque colli in 140 km, al Tour invece c’è una pressione mediatica che ti logora. 

«Le Tour ça c’est le Tour. Non ha bisogno di stare al passo con i tempi, perché ha tutte le fortune che gli piovono addosso: i concorsi del governo, lo Stato, gli sponsor, tutto quello che vuoi. Guadagna lira di dio, guadagneranno 40 milioni di euro l’anno, di profitto pulito eccetera. Ma è ancorato a degli schemi così convenzionali, così vecchi ed elementari che vincere il Tour è la cosa più “facile” dell’universo se c’è un buon corridore. Te lo dimostra il Team Sky: si mettono lì, vrooom… Ecco, il Tour mi annoia. Tra le tappe migliori del Tour c’è l’arrivo ai Campi Elisi, quindi… Questo te la dice tutta». 

- Per chiudere: a Sappada ’87 fu tradimento o scelta di corsa? E tu da che parte stai: roche o Visentini? 

«Io sto dalla parte della classe. Sto dalla parte di Roche. E sì, fu un cocktail fra tradimento e necessità».

- Però non basta Sappada a spiegare perché Roberto è diventato il Salinger del ciclismo italiano…

«No, ma dai, cosa vuol dire?».

- Anche se in realtà si tratta di una mezza balla, perché Visentini alcuni ex compagni e avversari ancora li frequenta. E in bici ci va. Magari il mattino presto, col berrettone ben calato in testa, per non farsi riconoscere…

«Ma tu analizza quella stagione lì di Roche, che poi è esploso, no? Ma voglio dire…».

- Presto fatto. Aveva vinto la Volta Valenciana e il Romandia. Poteva rivincere la Parigi-Nizza, ma forò nel finale e lì Sean Kelly mise i suoi (e non solo i suoi) a tirare a tutta. Aveva buttato la Liegi, facendosi beffare in surplace con Criquielion dalla rimonta di Argentin. Aveva una gran gamba.

«Ha vinto il Giro d’Italia, il Tour de France e il campionato del mondo. Io a una prova del trittico di preparazione per il mondiale di Villach ero con questo Carletto nella casa di un ex alpino. C’era la strada in discesa, e il gruppo scendeva. C’era un giardino, c’era una collinetta e sotto il portico di questa casa c’erano gelati Sanson, la porchetta… A un certo punto c’erano Schepers e Roche, sempre uno vicino all’altro, con Roche che aveva un gomito fasciato. Non so se per terra c’era una borraccia o qualche cosa eccetera e Roche, che stava andando in discesa, va bene, ha le mani sollevate dal manubrio. A un certo unto capisce che deve evitare quella roba lì, sta mangiando un panino o bevendo qualcosa con la sinistra, con la destra prende la sinistra del manubrio, in discesa, e guida la bicicletta. Io non ho mai scommesso sulle corse. Partiamo da lì in macchina con questo Carletto, che invece era un frequentatore di giochi eccetera, e gli dico: dai, giochiamo qualcosa su Roche. Ma cazzo, dice, Roche ha vinto il Giro, ha vinto il Tour, basta, non ne può più, è fasciato, è caduto… Abbiamo vinto. Che poi ci son serviti, quei soldi lì… Siccome mi aveva lasciato le luci accese della Mercedes 190, mi ha scaricato la batteria, e ci son serviti per pagare l’auto per ripartire sennò… Però: hai capito? Questo era Roche».
CHRISTIAN GIORDANO ©

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