"Pacho" Lualdi, il Sovversivo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Vado a trovarlo nel suo bar, un pomeriggio sul tardi, dopo l’allenamento. Il suo. Perché Valerio Lualdi – “Pacho” per ex compagni e avversari – è vivo. Eccome se è vivo. E pure in forma. 

Bustocco di nascita e gallaratese d’adozione, classe 1951, la stessa di Moser di cui è stato gregario leale e tutt’altro che incline al signorsì, Lualdi non ha perso la verve né quell’istrionica, carismatica personalità che in gruppo l’hanno spesso fatto passare, a seconda dei casi o delle antipatie, come «comunista», «sovversivo», o semplicemente «rompicoglioni». A farla breve altro che pacifico: un sindacalista a pedali; che quel famoso sciopero di Pisticci al Giro '84 l’ha poi pagato caro, forse più di tutti: con la carriera da diesse mai nata.

Dopo un lungo inseguimento telefonico, finalmente fissiamo una data per – propongo – parlare «di ciclismo». «Insomma di cazzate», ribatte lui con quella sua voce calda e pastosa ridendo al cellulare.

La chiacchierata procede liscia, con un unico intoppo: quando si parla del suo addio alla Carrera del diesse Boifava e di come abbia contribuito a portare in Italia, e in quella squadra, Stephen Roche. La conversazione, lì, è diventata riservata. E tale resterà.

Bar Lualdi
Gallarate (Varese), martedì 13 marzo 2018

- Allora, Lualdi: devo chiamarla Valerio o “Pacho”? E da cosa nasce “Pacho”?

«Valerio. “Pacho” nasce dall’essere stato, magari, un po’… tranquillo. Allora, da dilettante, han iniziato a chiamarmi, a dire, “pacifico”, Pacho, Paco, Pacifico, ed è uscito là il nome Pacho».

- Il corridore Lualdi tranquillo lo è mai stato? A me non risulta.

«No, tranquillo non ero».

- Per chi non l’ha visto correre, Valerio “Pacho” Lualdi che corridore è stato?

«Un corridore completo, un po’ coordinatore della squadra. Poi, nel finale di carriera, davo consigli ad altri, tipo Bontempi, Visentini. Perché mi piaceva». 

- Come ha cominciato col ciclismo?

«Una premessa. Io ho iniziato a correre, ma ero appassionato di calcio. Ero appassionato dell’uno e dell’altro, poi ho dovutoscegliere il ciclismo perché i miei genitori, soprattutto mio padre, non volevano che giocassi a calcio. Dicevano che i calciatori son dei fannulloni». 

- I corridori no di sicuro. [ridiamo, nda]

«E allora ho scelto la carriera di ciclista. “Carriera”… Ho scelto di gareggiare. Poi, da esordiente, i risultati venivano».

- Lì ha capito di avere qualcosina di buono, nel motore?

«Sì. Vedevo che rispetto ad altri miei coetanei andavo bene. Dopo iniziavi a prepararti sempre di più, non mollavi mai. Perché quello che conta, nello sport, specialmente nel ciclismo, è non mollare mai. Devi allenarti anche quando ricevi delle sconfitte, delle batoste. Nelle categorie giovanili molti si demoralizzano. Io non mi demoralizzavo, e il giorno dopo uscivo ad allenarmi, altri miei compagni non uscivano. Non uscivano perché allora si facevano gli allenamenti tre volte la settimana. Io ne facevo quattro, cinque la settimana già allora; ma, penso, come tutti quelli che poi sono arrivati al professionismo. Poi, da allievo, ho iniziato ad andare meglio, a vincer le gare. A vincere piùgare. Piazzamenti. Poi da dilettante e così via. Fin quando dopo ho trovato Franco Cribiori».

- Subito uno squadrone, perché tale era la Brooklyn del diesse Cribiori. 

«Sì. La mia fortuna è stata quella di gareggiare alla Lainatese-Brooklyn [dopo un anno, il 1971, da dilettante nella Varese-Ganna, nda]». 

- Era una squadra-satellite affiliata alla Brooklyn?

«Sì. E loro hanno scelto – Cribiori ha scelto – due corridori. Ha scelto me perché avevo vent’anni e un altro perché andava benino in salita».

- Chi era l’altro?

«Giuliano Fontana, di Varese». [in realtà lainatese, nda]

- E non ha fatto carriera.

«No. Ha fatto un anno e dopo ha smesso. Poi in quell’anno la Brooklyn ha preso anche Fausto Bertoglio, un corridore “esterno”, perché era stato consigliato da Pierfranco Vianelli, che correva per la Brooklyn. E poi Vianelli smise. Era destinato a essere un fenomeno, invece…».

- Corrado Donadio, pure, sembrava un fenomeno e invece si perse.

«Vianelli fisicamente era davvero un fenomeno. Io ci dormivo in camera assieme per cui so che fisico aveva, ma aveva un carattere non adatto per il professionismo. Da dilettante era è stato campione olimpico [oro nell’individuale e bronzo nella cronosquadre a Città del Messico ’68, nda]; ma grande, eh. Il più forte dilettante italiano è stato. Nel ’68 ha vinto il Giro della Val d’Aosta e la Ruota d’oro. Fortissimo in salita. Solamente che poi, quando è arrivato al professionismo… È vero che è arrivato settimo al Tour ’69 e quinto al Giro ’71, poi però si è perso un po’. Correva per la Molteni. Ha vinto anche lui come me la Coppa Bernocchi, è arrivato con Giacinto Santambrogio[1], poi però si è perso; ma fisicamente era davvero un fenomeno. Tanto per dire, aveva dei battiti… – allora si controllavano i battiti, come a tutti i corridori – Aveva 27-28 battiti al minuto. Una cosa incredibile».

- Indurain 28, quindi siamo lì.

«Quindi, vedi?».

- Com’è stato l’impatto con la Brooklyn e più in generale col professionismo?

«Brutto. Brutto, perché ti sei reso conto già dal primo allenamento che abbiam fatto in collegiale in Liguria. Eravamo alloggiati a Capo Cervo, il pomeriggio siamo andati a fare un giretto. Siamo arrivati al mattino, il pomeriggio abbiam fatto questo giro. Il Poggio. Io arrivavo dal dilettantismo, ero stato campione lombardo, avevo vinto una tappa al Giro d’Italia [baby], avevo fatto la Berlino-Praga-Varsavia. Ero un corridore quotato. Quando ho visto questo, ho detto…».

- …"non è per me"?

«No, no: quello che ho fatto l’ho fatto per sbaglio. No, veramente. Ho visto Roger De Vlaeminck e poi altri, anche altri che erano gregari “normali”: eran più forti di me. E dicevo: come mai? Dopo, mi sono adattato. E allora, col tempo, con i mesi, ho cominciato a essere… noncome De Vlaeminck, però ho iniziato». [ridiamo, nda]

- Ho dato una scorsa alle sue squadre: Brooklyn, Sanson, Bianchi, Gis Gelati, Famcucine, Inoxpran, Carrera Jeans. Mica male…

«Tutte squadre grosse». 

- Infatti: ce ne fosse una piccola o anche soltanto media.

«No. Diciamo che, paragonandole a quelle di oggi, erano da World Tour. Sì, son sempre stato in squadre grosse. Ho sempre avuto fortuna. M’han sempre chiesto. Forse ho cambiato spesso perché magari capivano il mio carattere, che non era buono». 

- Perché non era buono? 

«Perché dicevo quello che pensavo». 

- Ahia. Nel ciclismo, come nella vita, allora è dura.

«Difatti, sì. Eccerto!».

- Si diventa scomodi.

«Perché fai il sovversivo. Ti considerano un sovversivo, per cui…».

- Nella migliore delle ipotesi, un rompicoglioni.

«Un rompicoglioni. Ti considerano un “comunista”, mentre lì è un circuito “capitalistico”. Non puoi fare il comunista, o dire questo non va bene, devi fare così…».

- Neanche se si tratta della sicurezza dei corridori. Mi racconta di quel famoso sciopero di Pisticci al Giro '84?

«Noi volevamo la sicurezza sugli arrivi, li volevamo transennati. Volevamo la sicurezza durante le discese, che ci fosse il personale a segnalare le curve pericolose. Non erano state segnalate e allora abbiamo deciso – in comune, dieci-quindici “capigruppo” – di scioperare. Mentre c’è stato qualcuno che non è stato ai patti. Un direttore sportivo ha detto ai suoi corridori di far la volata e poi questo corridore ha fatto la volata e ha vinto, e quindi lo sciopero è scemato. Poi ci han dato contro, perché “non si possono fare queste cose”, “bisogna programmarle prima”, “non si può”, bisogna – per prevenirle – “discuterle a tavolino”. Però io dicevo: se si discute a tavolino, non arrivi più alla fine. È meglio dare…».

- …un segnale forte? Lì però non si trattava di essere “comunisti” o “sovversivi”: la sicurezza dei corridori dovrebbe – sempre – esserela priorità.

«Certo, ma il fatto è che, sai…».

- Questione di costi, come sempre? Di costi, di pressapochismo, di considerare i corridori carne da macello?

«È vero. È vero! Come alla Roubaix: se non ci sono cadute, non c’è spettacolo». 

- Come in Formula Uno: la gente si aspetta – per non dire “vuole” – gli incidenti. 

«Sì, è vero. È vero!».

- Com’era correre da gregario in quelle super squadre, per grandi capitani? Che differenze c’erano, per esempio, tra le squadre di Cribiori e quelle di Boifava?

«Quella di Cribiori era una squadra basata su un unico capitano, Roger De Vlaeminck, e poi c’era Sercu per le volate. A Sercu potevi anche dare una mano, in volata, ma non più di tanto, perché la priorità era De Vlaeminck. Com’era la Brooklyn [per De Vlaeminck] erano anche la Sanson e la Famcucine per Moser, oppure la Gis per Saronni: la priorità era sempre il capitano. Non so cosa succedeva nelle altre squadre, ma in quelle di Boifava si giostrava un po’ di più. È vero, c’erano dei capitani, come Visentini, come Bontempi, e li si aiutava però era una cosa un po’ più…».

- La gerarchia era meno definita, meno rigida?

«Sì, non era così… Si faceva tra noi corridori e si diceva: Visentini va aiutato. Certo, d’accordo, Boifava dava delle disposizioni, ma non era così ferrea come lo era con De Vlaeminck. Tanto per dire, se arrivavi davanti a De Vlaeminck, facevi un dispiacere. Perché voleva dire che ne avevi ancora e quindi dovevi aiutare lui. Oppure, in squadra con Gimondi… Però era un Gimondi già a fine carriera per cui era più malleabile, più modesto. Cioè “modesto”: era più umano. Mentre ai tempi Gimondi, per come l’ho conosciuto io, era uno…».

- …bello tosto?

«Non è che si lasciava sottomettere, o che potevi permetterti di passargli davanti. No! Dovevi rimanere lì con lui. E quando non ne avevi più, ti staccavi». 

- Com’è stato il rapporto di Lualdi con i suoi capitani? Conflittuale?

«Alti e bassi. Ho sempre avuto battibecchi, sia con Moser sia con Saronni. Con Moser, poi, tra l’altro, abbiamo la stessa età, siamo anche cresciuti assieme nelle categorie giovanili. C’è sempre stato rispetto per lui, perché era un campione. Però se lui diceva che questo era rosso, e invece era bianco, io non potevo dirgli lo stesso che era rosso. No, gli dicevo: guarda che questoè bianco. Mentre i direttori sportivi e i manager dicevano che [i capitani] bisognava sempre assecondarli, capisci?».

- Non era controproducente, anche per lo stesso Moser, circondarsi di yes men? O lui voleva diesse e gregari che non gli facessero ombra?

«No, è che lui aveva un carattere troppo forte. Voleva che nessuno lo comandasse; poi, conscio della sua forza di corridore, che era un personaggio, non si sottometteva. No, lui non poteva più sottomettersi a nessuno».

- Lualdi invece ha avuto diesse di forte personalità? Per esempio un Cribiori non era certo un Boifava, come modo di porsi e forse di imporsi, no?

«Cribiori era un personaggio… Era uno che s’imponeva, ma non è che ti diceva tante cose, che faceva il vero direttore sportivo; però era uno che quando parlava lo ascoltavi, perché è intelligente. E poi, di carattere. Mentre altri no. Ferretti invece era più direttore sportivo».

- Magari meno organizzatore?

«Organizzatore anche, però stava vicino ai corridori: come stai? Come va? Come non va? Oggi facciamo così. Facciamo in un certo modo, che cosa ne pensi? Cribiori invece era più… Certo, anche lui voleva che ci si aiutasse: De Vlaeminck, e basta». 

- È vero che Ferretti, nella riunione pre-gara e soprattutto in certe corse, si metteva in un angolo della stanza, o saliva su una sedia e voi tutti intorno, per caricarvi: perché voi eravate i suoimarinese per lui correre era come andare in guerra? 

«No, in quel periodo no. Forse dopo». 

- Si è un po’ esagerato con tutta quest’aneddotica del Sergente di ferro?

«Per me, sì. Perché lui non ha mai spinto. Certe volte voleva farti sentire che eri veramente un corridore. Con me ha provato anche a dirmi delle cose, a spingermi. “Guarda che tu per me sei un grande corridore – mi diceva – Che cosa pensi, che questa gente sia inferiore a te?”. Ed io: “Non lo so, Ferron, io so che faccio fatica…”. E lui è stato gregario di Gimondi. Poi, da lì, ha iniziato la sua carriera. No, bravissimo. Una bravissima persona. Ecco, lui era un verodirettore sportivo». 

- Vecchia maniera. Di Boifava invece che cosa ricorda? Perché lo chiamavano il Cardinale?

«Sinceramente, non mi ricordo più. Boifava però è stato quello che mi ha tranciato la carriera. Io avrei dovuto fare il direttore sportivo, e invece con quella storia dello sciopero al Giro d’Italia, la mia carriera è finita». 

- Perché c’entra Boifava?

«Probabilmente vedeva che io ero uno con le potenzialità per coinvolgere in un certo modo i ragazzi. Lui con loro non poteva relazionarsi e vedeva che con me i ragazzi… In gara facevo io il direttore sportivo, e tante volte ero io a decidere cosa bisognava fare. E quindi i ragazzi mi davano ascolto. Tanto per chiarire: quando hanno iniziato il treno di Cipollini, non è vero che è iniziato da loro. È iniziato da me. Io avevo messo a punto una cosa che mi era stata detta da un vecchio corridore che correva con Coppi; loro iniziavano a fare così: uscivano agli ultimi due chilometri… Io invece avevo messo a punto un’altra tattica. Quando ho incominciato, con Saronni, al Giro d’Italia, io facevo una trenata davanti, poi quelli che arrivavano a due chilometri dal traguardo cedevano e bisognava “girare”, tenere abbastanza alta l’andatura, tutti in fila, eravamo sei o sette, per poi rimanere nell’ultimo chilometro e mezzo, quello più difficile, in tre, prima di quello che doveva partire per la volata».

- L’ultimo “vagone” era Roberto Ceruti?

«Ceruti era il terzultimo, quello che partiva a un chilometro e mezzo, poi c’ero io e l’ultimo era Simone Fraccaro. E diciamo che i tre fondamentali eravamo noi, perché il difficile era l’ultimo chilometro e mezzo».

- Com’era composto e come funzionava quel treno?

«Ceruti-Lualdi-Fraccaro, e Saronni a ruota. Alla Carrera [per Bontempi, nda] abbiamo fatto lo stesso, Ceruti però non c’era. Dietro di me c’era Fraccaro, davanti a me non ricordo più chi c’era, arrivavamo all’ultimo chilometro in due-tre, perché l’andatura così alta non la puoi tenere. Al massimo la tieni per trecento-quattrocento metri, già quattrocento metri son tanti. Il momento più difficile era l’ultimo chilometro e mezzo e lì partiva Ceruti, quando gli altri avevano dato il cambio. Lui teneva fino a un chilometro, novecento-ottocento metri, ed io, che ero dietro, lo incitavo. Ero quello che scandiva: vai-vai-vai! Fino ad arrivare…».

- Questo alla Gis?

«Questo alla Gis. Si arrivava fino a novecento-ottocento metri, poi entravo io e tiravo, massimo, fino ai cinquecento metri, perché di più non ce la facevo. Poi arrivavano gli altri e ai cinquecento metri doveva partire Fraccaro. Fraccaro partiva, fortissimo, arrivava fino ai duecentocinquanta, duecento metri e poi doveva partire Saronni. La metodica era questa».

- Il diesse lì chi era, Carlo Chiappano?

«C’era il povero Chiappano, che poi è morto nell’incidente». 

- Era un po’ il padre putativo di Beppe Saronni, no?

«Sì, esatto. Saronni ha anche avuto la fortuna di poter disporre un grandissimo gregario, Thurau, che sulle salite gli scandiva sempre il tempo. Saronni ha finito il Giro [dell’83, che vinse, nda] che si è finito. Cioè: ha finito il Giro… finito».

- In albergo lì a Gorizia, alla vigilia della crono conclusiva, avete avuto sentore di quello che stava succedendo, il caso del Guttalax?

«No. Si è saputo dopo». 

- Come Saronni nell’83 su Visentini, anche nell’81 Battaglin vinse grazie anche gli abbuoni: sennò su strada, come tempi effettivi, la maglia rosa sarebbe stata di Tommy Prim. 

«Ha vinto Battaglin. Pensavamo che il Giro lo vincesse Saronni ma poi nell’ultima cronometro…».

- Ferretti mi ha detto che in quel Giro sbagliò lui: aveva tre punte, Contini, Baronchelli e Prim, e siccome pensava che Battaglin non avrebbe retto fino alla fine se le giocò tutte insieme anziché attaccare Battaglin con un corridore per volta. E così buttò via il Giro.

«Ferretti ha sbagliato anche con Contini a Montecampione, in pratica gli ha fatto capire che non lo considerava il capitano. Contini poi è un ragazzo sensibile, un bravissimo ragazzo, ed era così giovane per cui… Me lo son trovato davanti mentre saliva a Montecampione, gli ultimi due chilometri. Me lo son trovato davanti e gli ho detto: ma Silvano… Basta. E così glielo ha fatto perdere. Non puoi aver la controprova, però magari poteva anche vincerlo». 

- Avendo le gambe per, meglio essere capitano o gregario? O scelta non c’è? 

«Se sei fortissimo, e convinto, perché devi esser convinto dei tuoi mezzi, devi essere capitano… Io avrei potuto fare il capitano. L’avrei potuto fare».

- Per l’ascendente sugli altri?

«No, l’avrei potuto fare perché mi avevano scelto per andare a fare il capitano in una squadra: la Hoonved, qua di Tradate, quando c’era come direttore sportivo Dino Zandegù. Erminio Dall’Oglio, il proprietario della ditta, mi teneva al telefono delle ore, tanto che mi faceva male l’orecchio… Allora il cellulare non c’era. Mi chiamava e gli dicevo: non posso venire da voi, ho già firmato il contratto. Avevo firmato per andare con Saronni. Dall’Oglio mi voleva alla fine del ’79 perché andassi da lui per l’80: “Non c’è problema, pago io la penale, gli avvocati. Abbiamo già discusso tutto, tu devi venire da noi”. E mi davano un sacco di soldi».

- E invece niente perché lei aveva già dato la parola?

«Sì. E perché ero sempre stato abituato a squadre grandi. Andare alla Hoonved, anche se mi davano… Mi davano molto più del doppio, allora. Erano tanti soldi. Però, sai, un conto è dirti: te li do subito e tu sei a posto. Però anche prenderli subito… Io non ero abituato a gareggiare in squadre piccole. L’organizzazione era molto inferiore, mentre nelle squadre grandi avevi tutto. Lì, non me la sentivo. Era un po’ andare allo sbaraglio. Non me la sentivo perché dicevo: sì, posso venire a correre, a gareggiare per voi però devo avere la squadra che mi supporta, devo fare un determinato tipo di preparazione, devo cambiare mentalità. Sai, c’è anche quello che lo fa. Io non me la sentivo».

- Com’era invece correre in una grande squadra come la Carrera? E che differenze ha trovato fra quegli squadroni e tra grandi diesse come Cribiori, Ferretti, Boifava?

«Nelle squadre piccole, non posso dire. La Brooklyn è stata la più grande, in assoluto. Forse perché è stata la mia prima. Aveva un’organizzazione incredibile, non ti mancava niente. Niente». 

- Il corridore doveva soltanto pensare a correre.

«Sì. Forse perché son stato proiettato lì dal mondo dilettantistico al mondo professionistico, però poi, facendo il confronto con altre squadre, non è più stato così. Tanto per dire, una sciocchezza, ma per farti un’idea. Tutte le gare, tutte, arrivavi, andavi in camera e trovavi: maglietta e pantaloncini nuovi. Sempre. Tutte le gare. Cento gare, cento volte così». 

- E pensare che fino a pochi anni prima Bitossi lavava i calzini suoi e del neoprofessionista in camera con lui. Bitossi!

«Sì, è vero. È vero! Le altre squadre, sì, c’era una grande organizzazione, ma come alla Brooklyn non ne ho più trovate».

- Neanche alla Carrera, che pure è stata la seconda in Italia, dopo il team di Stanga, che lo comprò usato dalla PDM, ad avere il pullman “su misura” per i corridori? La Carrera era avanti in tante cose, no?

«Sì, erano organizzati. Però io una cosa proprio così “opulenta” non l’ho mai più trovata. Oltretutto c’erano i Perfetti, che erano dei signori, delle grandissime persone».

- Anche i Tacchella lo erano, vero?

«Anche i Tacchella. Tacchella, Imerio, quello più alto, quando c’è stato lo sciopero, è stato l’unico che mi ha difeso. Mi ha difeso. E m’ha detto: va be’, sai, hai fatto una cosa così… Va be’, cosa ti posso dire? Non farla più. È stato l’unico che m’ha difeso. Basta, finita qua. Mentre gli altri se la sono presa».

- La Carrera, e prima ancora come Inoxpran, all’epoca era una delle poche squadre italiane ad andare al Tour.

«Come la Brooklyn». 

- Erano fra le poche squadre italiane ad avere una mentalità “internazionale”. Anche perché ai tempi, per poterci andare, al Tour, bisognava metterci del cash. E tanto. Fino anche 100 milioni di lire.

«Io con la Brooklyn sono andato al Tour due volte. Una volta, e per Cribiori è stata la gioia più grande, una squadra come la nostra è stata capace di portare tutti fino alla fine del Tour. E con Sercu in maglia verde. Io, giovane, ventidue anni, sempre davanti ad aiutare Sercu. Sercu poi neanche mi ha detto grazie. Lui è andato a fare tutte le riunioni post-Tour. Ed io l’avevo aiutato…».

- Sercu era molto amico di Merckx.

«Sì. Eh, ma tutti volevano essere “amici” di Merckx».

- Perché esserlo portava del grano?

«Perché lui era il più forte. Perché senza di lui non facevi niente. Tutte le cose, in gara, le decideva lui. Se uno doveva andare via, la fuga, decideva lui. Lui sovrastava tutti. Se lo facevi arrabbiare, erano cavoli amari. Io da neoprofessionista, al Giro d’Italia, ho avuto la prova che, quando gli spagnoli han voluto attaccarlo in partenza, l’han pagata cara. Perché lui ha messo davanti tutta la squadra, han fatto settanta-ottanta chilometri, eravamo nel Lazio, tutti saliscendi e tutti in fila, la squadra davanti e lui che la comandava, ma… a sessanta all’ora. E quando ha finito…».

- …quegli spagnoli li han poi raccolti col cucchiaino?

«Sì, e nessuno ha più osato passare davanti. Nessuno voleva più andare davanti a tirare. Lui era così. Un’altra volta, uno spagnolo, non mi ricordo più chi, forse Fuente, lo aveva attaccato, sul Monte Taburno, mi ricordo, lui si era arrabbiato, ha detto una cosa in italiano, è partito… Tanto per dirti, io – vabbè che quel giorno stavo male, avevo la dissenteria – però con Dancelli e altri sei o sette abbiamo scollinato il Monte Taburno, saran stati tredici-quattordici chilometri di salita, e ci avrà dato con cinque minuti. E poi, in fondo alla discesa, c’era la pianura, ha rallentato, ha lasciato andar via la fuga e noi siamo rientrati. Siamo andati all’arrivo… a piedi. Si arrivava a Fiuggi, allora. Lui era così. Era uno che comandava. Comandava la gara, a suon di forza».

- Tornando alla Carrera, e allo zoccolo duro di bresciani, è vero che c’era non dico del “nonnismo”, che magari è un parolone, però un certo noviziato sì, da pagare ai vari Bontempi, Leali eccetera?

«Be’, no. Io quando son andato con loro Bontempi era un ragazzo, io ho nove anni in più per cui… Ma poi con tutti i bresciani andavo sempre d’accordo. Anzi: con i bresciani parlavo bresciano, con i toscani parlavo toscano. No, ma con i ragazzi io andavo d’accordo. Con tutti».

- E col Visenta?

«Visentini era un ragazzo sempre taciturno, un po’ sulle sue. Gli davano del latin loverma era uno che andava a letto alle nove di sera».

- Tutte ’ste dicerie se le sono inventate perché lui veniva da una famiglia benestante?

«Sìììì. Sì, perché proveniva da questa famiglia che faceva le onoranze funebri. Lui si è dato da fare, ha sempre l’impresa di pompe funebri. Era un bravissimo ragazzo, e non aveva neanche tanti grilli per la testa. Era uno che faceva il corridore. Se non avesse fatto il corridore non avrebbe potuto fare i risultati, non poteva ottenere… Nel ciclismo non inventi niente».

- Non puoi “nasconderti” col passaggetto a tre metri, né incolpare altri. 

«O non allenarti. O vai al night e poi vinci. No!».

- In carriera l’ha pagata, Visentini, questa sua fama? O una volta vinto il Giro ’86, la sua carriera, di fatto, è finita lì, quindi prima ancora di Sappada?

«Non credo l’abbia pagata. La sua carriera l’ha fatta».

- Intendevo anche per quel suo non mandarle a dire a Torriani, a Moser. Non l’ha pagata?

«Ma no. Era un taciturno. E aveva i suoi limiti, non era Merckx. Poi è arrivato Roche. Roche l’ho portato io in Italia, anche se sapevo che alla Carrera m’avevano fatto fuori».

- Ma la Carrera non l’aveva contattato al Tour? Quell’anno al Giro avevate fatto male ed eravate andati al Tour per salvare la stagione.

«Boifava però voleva prendere Delgado». 

- E alla fine invece prese Roche. Rispetto a Roberto era più bravo a leggere la corsa, a a farsi amici in gruppo. Di lui che impressione ha avuto?

«Furbo. Visentini invece era di una semplicità disarmante. Semplice. Sì, s’incazzava, si arrabbiava ogni tanto ma…».

- Forse “ciclisticamente” meno intelligente? Con rispetto parlando, sia chiaro.

«L’intelligenza, non lo so… Io e Roche non ci siamo mai parlati a lungo, non ci son mai stato assieme. Con Visentini posso dire quello che vedevo. Non potevi neanche leggerlo bene Visentini, perché era di una semplicità incredibile…».

- E aveva la fissa di stare sempre in decima-quindicesima posizione a destra o a sinistra, di non correre mai in pancia al gruppo. Perché aveva paura di cadere.

«Prendeva un sacco di vento. Sempre. Io andavo lì vicino a proteggerlo dal vento, gli dicevo: stammi qua vicino. Stammi qua».

- Orlando Maini mi ha detto: ah, tutti che dicevano quant’era forte Roberto a cronometro. Eh, grazie: per lui tutte le corse erano a cronometro…

«Sì. Per lui tutte le gare erano a cronometro. Era tremendo: gli lasciavi prendere cinquanta metri e non lo riprendevi più». 

- Il ciclismo di oggi Valerio Lualdi lo guarda? E si diverte ancora?

«Lo guardo, quando… lo registro. Sembra una barzelletta. Allora: avevo il decoder, no? Con la chiavetta. La chiavetta l’anno scorso non funzionava più, ed io lo guardavo la sera. Però la maggior parte delle volte mi addormentavo, non arrivavo alla fine. Lo vedevo la sera allora dico: vado a prendere il televisore nuovo. Ho una villetta e di sopra ho fatto un salottino dove la sera… così non faccio le scale per andare fino in camera, son già lì, c’è un salottino e guardo la televisione. Prendo il televisore nuovo con il registratore incorporato, lo porto a casa e dico: ma qua ci vuole l’hard disk. Va be’, adesso vado a comprarlo. Non l’ho ancora comprato…». [sorride]



[1] Coppa Bernocchi 1969: Pierfranco Vianelli, primo al traguardo, fu in seguito squalificato per doping e la vittoria fu assegnata al secondo classificato, Giacinto Santambrogio.

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