Gianfranco Josti, il Decano: «Più amico (dei corridori) che giornalista»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Decano fra i suiveur, in quasi mezzo secolo di mestiere (1962-2005) Gianfranco Josti ritiene d’essere stato, per corridori e addetti ai lavori, «un ottimo amico e un pessimo giornalista». 

I beg to differ, mi permetto di dissentire, mi vien spontaneo dire e pensare. A Josti però l’inglese garba il giusto, e non lo parla. Parla invece, e bene, il francese; con l’italiano la lingua ufficiale in gruppo nel ciclismo della sua epoca. E che gli consentiva entrature che alla concorrenza erano precluse.

Nel veloce caffè che prendiamo assieme in un bar milanese di piazza Sant’Agostino, vicino a casa sua, ne ripercorriamo l’epopea. La vicenda di Sappada, per quanto paradigmatica, per una volta scivola sullo sfondo nel quadro generale dell’epoca. L’ultima età dell’oro del nostro movimento.

A raccontarcela, in quegli anni c’erano i cosiddetti Quattro dell’Ave Maria. Così li chiamavano, o si facevano chiamare, Beppe Conti di Tuttosport, Maurizio Evangelista del Corriere dello Sport, Josti del Corriere della Sera e Paolo Ziliani (cui poi subentrò Cristiano Gatti) de Il Giorno

Contrariamente a quanto si crede, nel clan non c’era Marco Galdi dell’agenzia Ansa, il quale per età e affinità rientrava più fra i Giovani Leoni. Così si sentivano, e si facevano chiamare, i loro eredi: Pier Bergonzi della Gazzetta dello Sport, Marco Evangelisti del CorSport (cui poi sarebbe subentrato Pietro Cabras) e Paolo Viberti, allora secondo di Beppe Conti a Tuttosport.

Ah, non fatevi ingannare dal suo atteggiamento solo in apparenza austero e severo. E fidatevi: in quasi mezzo secolo di mestiere Josti sarà anche stato un ottimo amico, ma di sicuro non un pessimo giornalista.

Caffè “So Natural”
Milano, martedì 13 marzo 2018

- Gianfranco Josti, una vita da inviato del CorSera. Il “tuo” ciclismo e quello di oggi: il tuo primo pensiero qual è?

«È un’altra cosa. Esattamente come il mondo degli anni Sessanta non ha nulla a che fare con il mondo del terzo millennio. È cambiato il mondo, non possiamo pretendere che il ciclismo sia rimasto quello di un tempo. La cosa che trovo più avvilente è che del ciclismo, il vecchio ciclismo, dicevano sempre: è uno sport povero ma ricco di umanità, ricco di cultura, fondamentalmente. Credo che queste due caratteristiche, umanità e cultura, non si trovino più nel ciclismo del giorno d’oggi». 

- Perché dici così?

«Perché non c’è molta memoria. Perlomeno, la memoria la fanno gli archivi. Adesso tutti quanti – soprattutto la Rai, che ha la fortuna di avere una cineteca straordinaria – vanno a pescare dei pezzi strabilianti; ma non è che i giovani giornalisti si fermano a parlare con i vecchi giornalisti, magari un po’ rincoglioniti, come invece facevamo noi. Io ricordo che le prime corse che seguivo, restavo a bocca aperta ad ascoltare Mario Fossati, Dante Ronchi, Ermanno Mioli… Avevamo la sete di imparare. Mangiavamocultura e ciclismo».

- A proposito di Fossati, Brera fingendo di lodarlo lo chiamava “il Generale”, per via della Campagna di Russia. Però lo stesso Brera, che pure lo stimava, lo confinava nell’orticello per non fargli prendere troppo spazio. O no?

«Sì, ma ti dico: Fossati lavorava a Il Giorno, io al Corriere, quindi in teoria eravamo – tra virgolette – rivali. La prima corsa professionistica che mi hanno fatto seguire è stata un Giro dell’Appennino, credo nel ’62 [vinse Franco Balmamion davanti a Gaston Nencini e a Idrio Bui, nda]. Ero andato a Genova in treno, l’organizzazione mi aveva messo a disposizione una macchina, ovviamente senza radio, e avevo visto dal vivo quelle poche cose che era possibile vedere. Quando Mario Fossati ha scoperto che ero su una macchina senza radio, ripeto: lui de Il Giorno, mi ha detto: vieni su con me. E così ho potuto seguire le notizie del Giro dell’Appennino dall’autoradio di Mario Fossati. Secondo te, oggi lo trovi un ragazzino che...».

- Se anche ci fosse quel ragazzino oggi forse neanche lo riconoscerebbe, un Mario Fossati.

«Ecco. Quindi…».

- …il ciclismo continua a essere uno specchio della società, nel bene e nel male?

«Credo di sì. Però una società che non conosce più la parola sacrificio. O perlomeno, sacrificio che si cerca di evitare. Si cerca la comodità. L’essenza del ciclismo è sacrificio». 

- Però non si può certo dire che i ciclisti di oggi non facciano fatica.

«Sì, ma i ciclisti di oggi… Quanti sono ciclisti italiani che arrivano al professionismo? All’epoca di Merckx, il personaggio più importante nel mondo del ciclismo, in gruppo si parlava italiano. Adeso tutti quanti parlano inglese. Fino a qualche anno fa, Hampsten, l’americano che vinse il Giro, era qualche cosa di stratosferico, una sorta di marziano. Han provato a portare il ciclismo negli Stati Uniti, è stato quasi un fallimento. LeMond, anche lui, ha fatto molta fatica a imporsi. E soprattutto LeMond era un americano che però correva in Francia, e per una squadra francese. Poi c’è stata l’èra-Armstrong, e lì il ciclismo ha cominciato a cambiare». 

- Non abbiamo quasi più corridori italiani. E non abbiamo più squadre World Tour. Quel ciclismo là però era molto eurocentrico, si correva con un calendario ristretto, dal Laigueglia al Lombardia. Oggi in gruppo si parla inglese perché il ciclismo si è globalizzato. Nessuna squadra può essere paragonata al Team Sky, che ha un budget annuo di 35 milioni di euro. Nella tua epoca tra le piccole medie e le grandi squadre – la PDM, le squadre di Guimard (Gitane e soprattutto Renault, Système U e Super U), la forbice non era così ampia come invece è oggi. Sei d’accordo o sto partendo per la tangente?

«No, no: è vero. Allora: c’era più equilibrio, però la Mapei, il dottor Squinzi, nel ciclismo ha investito un sacco di soldi».

- E già lì si cominciava a drogare il mercato, no?

«Il problema è che c’erano anche troppe squadre senza fondamenta. Troppi gruppi sportivi. Bastavano un paio di milioni – dico delle cifre a caso –, e poi tremila marchietti sulle maglie, così, si raccoglievano cinquecentomila euro da una parte, cinquecentomila da un’altra…».

- E così di anno in anno, per tirare a campare.

«Però squadre tipo Mapei, Bianchi, Carrera, Del Tongo: abbiamo avuto anche squadre molto solide. Il problema, che nel panorama italiano c’è ancora oggi, è che ci sono delle squadre che con un budget minimo riescono a…».

- …a sopravvivere. Per esempio la Bardiani, che però, non essendo nel World Tour, partecipa al Giro grazie alla wild card?

«La Bardiani, e la Androni. Sono squadre di serie C che possono giocare in serie A, però fondamentalmente son squadre di serie C». 

- A proposito delle maglie con sopra «tremila marchietti», Chiappucci mi ha detto: «Alla Carrera la nostra era una maglia, non un giornale». In che cosa la Carrera si distingueva dalle altre dell’epoca? Era davvero un Team Sky con trent’anni di anticipo, o ti sembra una forzatura?

«La Carrera sì, però guarda la Mapei, la Bianchi… La Bianchi, l’unica pecca che ha avuto è quando ha fatto l’abbinamento con la Faema. Sulla maglia della Bianchi-Faema [nel 1978, nda] c’era la fascia rossa che era un pugno in un occhio. Era un insulto al [colore storico del marchio] Bianchi. Però allora c’era Trapletti, non era una Bianchi così… La Del Tongo, anche, aveva una maglia pulita. Erano invece le piccole squadre che…».

- Per chiudere il discorso sui cantori di quell’epoca, c’è stato poi un buco generazionale dopo i grandi con cui siete cresciuti voi e la mancanza di maestri patita dalla mia generazione.

«Allora: all’epoca Fossati, Astori, Mioli, Raschi – Roghi no, era antecedente – erano abbastanza egoisti. Vedevano male l’avvento di un giovane, perché gli portava via spazio. E parlo soprattutto di giornali come Stadio e Corriere dello Sport. In Gazzetta invece, grazie a Zanetti che a un certo punto aveva imposto la linea-giovani, Mura ragazzino era uno dei cantori del Giro, e benvoluto da tutti. Non a caso era uno dei pupilli di Gianoli, a proposito di cantori, di scrittori di stile. Tu trovami un Gianoli che scrive oggi…».

- A proposito di scrittori, tu a che fonte ti sei abbeverato?

«Il mio maestro è stato Fulvio Astori. Tutto quello che ho imparato nel ciclismo, è stato da Fulvio Astori; ma soprattutto son state le serate passate in loro compagnia, a sentire le loro storie, che mi hanno fatto amare il ciclismo. Tanto è vero che, mentre prima ero in prestito al ciclismo, perché come tutti dovevo scrivere di calcio, quando ho potuto, ho scelto il ciclismo. Ripeto: erano tutti maestri».

- E dopo, che cos’è successo? Perché c’è stato questo buco generazionale? Se c’è stato, un perché.

«Il perché non lo so. Io credo una cosa: anche per colpa di molti giovani. Faccio e ho sempre fatto questo tipo di confronto. Sono un giornalista di ciclismo, seguo la Milano-Sanremo, che è una bellissima corsa. Esco di casa a Milano alle sette e mezza del mattino, mi fermo pure a mangiare, però rientro a Milano all’una e mezza di notte, e ho anche cenato. Se faccio la finale di Coppa dei Campioni a San Siro, esco di casa alle sei di sera, perché sono molto scrupoloso e tutto quanto, quindi ho già pranzato, non ho problemi, se tutto va male – evitiamo i supplementari e i calci di rigore, io a mezzanotte e mezza sono al ristorante e all’una sono a casa. E c’è il doppio della gente che legge della partita di Coppa dei Campioni rispetto a quelli che leggono della Milano-Sanremo. Allora: per fare il giornalista di ciclismo devi essere anche disposto a un po’ di sacrificio; che non ha niente a che fare con il sacrificio che fanno i corridori. Il loro sacrificio è mille, il nostro è solamente dieci, ma è pur sempre un sacrificio. Perché eravamo rispettati anche dai corridori, allora? Quando a un certo punto dovevi seguire le corse, loro in bicicletta, noi in macchina, la strada la facevi anche tu. In mezzo a loro c’eri anche tu. I tapponi dolomitici, i tapponi pirenaici: partivano alle otto del mattino. Tu alle sei dovevi essere in piedi. Ecco: loro mangiavano riso in bianco e filetto, grazie a dio non potevamo bere caffelatte e mangiare brioche. Però [anche tu] facevi un certo tipo di fatica. Ripeto: non è paragonabile alla loro, però è faticoso. Oltretutto, non vedi quello che succede. Ne vedi una parte. Il direttore di corsa, quindi la macchina più vicina, vede un decimo di quello che succede. Grazie a dio adesso c’è la televisione, ci sono i droni, ci sono le riprese e vedila corsa. Vedi quasi tutto. Allora non vedevi niente e dovevi ricostruirla. Quando non c’era la televisione, perché c’erano i grandi scrittori a seguire il Giro? Orio Vergani, Dino Buzzati, Giovanni Mosca, Achille Campanile, più avanti Giovanni Arpino che però già ha avuto fatica… Non c’era la televisione, e quello che il giornale scriveva era legge. C’eravamo noi dell’Informazione[1]e La Notte[2]che facevamo anche l’edizione per il Tour e un giorno, parlando con Fulvio Astori e Ferruccio Berbenni, mi hanno raccontato una scena bellissima. Non c’era la televisione, perlomeno facevan vedere solo qualche cosa, e Berbenni su La Notte ha inventato una breve fuga, e Fulvio Astori, per controbattere, aveva inventato a sua volta una fuga». 

- E chi poteva smentirli...

«E chi poteva smentirli?».

- Io ripeto sempre che il nostro mestiere si “è”, non si “fa”. Quindi, questa cosa dell’uscire di casa alle sei e mezza e rientrare all’una per seguire una corsa, ce l’hai dentro anche se segui una partita; perché hai quel tipo di forma mentis. Difficile tirare una riga: il ciclismo è così, il calcio è cosà. 

«È difficile. Anche perché nel calcio c’è una tensione… Io quando lo frequentavo, poco, a dir la verità, e sono andato a seguire qualche partita di coppa o di manifestazioni internazionali, c’era gente, giovani che si aggiravano a mezzanotte nella hall degli alberghi con le antenne dritte così. Ma cosa cazzo volete che succeda. Stanno dormendo. “Eh, non si sa mai”. Ecco: quest’ansia da prestazione, che nel ciclismo non c’è. Nel calcio invece c’è un’ansia da prestazione che invece è fasulla, è creata sul niente. Il calcio ha creato un mondo virtuale. Adesso non lo so, l’ultima partita che ho seguito sarà stata trent’anni fa, a Genova, credo una finale di Coppa Italia con Eugenio Bersellini allenatore della Sampdoria [quindi Sampdoria-Milan 2-1, gara di ritorno del 3 luglio 1985; oppure Sampdoria-Roma 2-1, gara di andata del 7 giugno 1986, nda]. Però già allora c’era quest’ansia…».

- Mi confermi che già allora, al Tour, pronti-via e tutti subito a tutta, mentre al Giro la corsa cominciava davvero quando entravano in azione i cosiddetti “uomini-RAI”, che tiravano per farsi vedere non appena si accendeva la lucina rossa delle telecamere?

«Sì, sì». 

- Ed è vero che specie al Giro, nelle tappe lunghe, specie all’inizio, non dico che si andasse a passeggio però c’era tempo per la battuta, lo scherzo, una risata, la visita-parenti. Oggi queste cose sono quasi scomparse. 

«Comunque anche al Tour, pronti-via: ma pronti-via per creare la fuga. Poi magari facevi un’ora ai cinquanta orari, dopodiché una volta andata via la fuga, il gruppo andava a venti all’ora. E la fuga andava ai ventidue. Non è vero che il Tour è molto più battagliato del Giro, o che sia più divertente». 

- Più divertente no di sicuro, anzi...

«Dei Tour hanno proprio rotto i coglioni. I Tour di Indurain, una noia mortale. Soprattutto perché il percorso che la Francia offre non è variegato come il nostro. Mi diceva una volta Jacques Goddet: in Italia potete fare un Giro senza neanche una salita e potete fare un Giro con tutte salite, noi no. Noi abbiamo le Alpi, il Massiccio Centrale…».

- …e i Vosgi, i Pirenei. E poi la Francia è grande.

«Esatto: e poi è grande». 

- C’è un altro aspetto, che la gente spesso misconosce o sottovaluta: la carovana del Tour, oggi, è mastodontica. Tanti dicono: le salite son troppo lontane dall’arrivo. Più vicine però non si può, perché il carrozzone ha dimensioni inimmaginabili.

«Allora: il gigantismo del Tour è la rovina del Tour, a mio modo di vedere». 

- È il gigante che fagocita se stesso.

«Il gigantismo del Tour: purtroppo noi italiani, parlo come dirigenti, e come organizzatori della RCS, come organizzazione del Giro, non lo abbiamo capito. Hein Verbruggen, quando è diventato presidente dell’UCI, aveva intuito che il Tour era un grosso nemico del movimento del ciclismo in genere. Nel ’94, ai mondiali di ciclismo ad Agrigento, in Sicilia, quelli di Chiappucci secondo [dietro a Luc Leblanc e davanti a Richard Virenque, nda], Indurain preparava il record dell’ora. I grossi personaggi il mondiale lo snobbavano. Perché? Perché il problema era il Tour. Verbruggen quindi aveva tutto l’interesse a rafforzare il Giro per fare da contrappeso al Tour. Angelo Zomegnan invece gli ha fatto una guerra spietata, ma proprio spietata, e alla fine Verbruggen è andato… E un’altra cosa, che Carmine Castellano non ha avuto il coraggio di fare, io l’avevo proposta e secondo me avrebbe anche avuto l’appoggio di Verbruggen: benissimo, facciamo in modo che ogni quattro anni un grande Giro sia per nazionali. Tu pensa un Giro d’Italia…».

- Non sarebbe anacronistico, oggi?

«Sarebbe stato possibile». 

- Magari allora, ma oggi?

«Oggi, no».

- E perché allora sarebbe stato possibile?

«Primo, perché quando facevano il Tour per nazionali, non c’erano nazionali sufficienti. Quando invece – ti parlo degli anni Novanta – oltre alle nazionali tradizionali europee c’era l’est, c’erano gli ex sovietici, gli svedesi, potevi fare la “nazionale” scandinava, la “nazionale” baltica, c’era la Colombia e potevi fare una squadra sudamericana… Sarebbe stato penalizzante per le piccole squadre, ma in fin dei conti alla Mapei, se le metti dentro cinque corridori della nazionale, sì, hanno la maglia azzurra ma c’è scritto “Mapei”».

- Ti faccio un esempio forse illuminante: Lanfranchi a Lisbona 2001. Per “chi” lo corse quel mondiale, Lanfranchi?

«Ah, be’, perché Lanfranchi è stato un pirla. Eh, sì. Ecco, ma sai perché è successo? Perché non sono abituati a correre insieme. La nazionale esiste un giorno l’anno. Quando c’era il Tour [per nazionali], per almeno venti giorni correvano insieme». 

- Ci vorrebbe però un Alfredo Martini per amalgamarli.

«Ci vuole un Martini, ci vuole tutto quanto. Il caso-Lanfranchi è eclatante. Non c’entra niente, ma ti posso citare anche Van Looy e Beheyt [a Ronse 1963, nda]. Van Looy poteva vincere il mondiale, ha fatto di tutto…».

- Qui entriamo nel discorso della maledizione della maglia iridata. Van Looy poi gli ha fatto la guerra. Non gli ha più fatto fare un circuito, e Beheyt ha dovuto smettere di correre, a soli 26 anni. 

«Per forza. Quando uno è scemo può anche ottenere un risultato, però poi la paghi». 

- Beheyt, che poi ha vissuto la tragica morte del figlio, ucciso per un colpo partito dalla pistola che il padre stava pulendo, sosteneva di aver dato quel colpo di reni per non finire sulle transenne. Tu non hai mai creduto a quella versione?

«No-no-no. Allora: riunione – lo so perché me l’han raccontata Van Looy e Sorgeloos. Riunione…».

- Non c’era una scrittura privata per cui tutti avrebbero dovuto correre per Van Looy?

«Nessun accordo, non esistono. Era l’epoca in cui ancora una stretta di mano era più…».

- Valeva più che un foglio…

«Del foglio, ma scherziamo?! Allora: riunione la sera, tutti quanti per Van Looy. Behyet dice sì, però non lo dice molto convinto. Edgard Sorgeloos, che era lo scudiero del “patron”, come lo chiamava lui, va da Van Looy e gli dice: patron, stai attento perché…».

- Ah, quindi Van Looy già fiutava che…

«Fiutava. Volata, tutti quanti pronti, Van Looy come fa per partire… Se lo vai a vedere, uno parte di qui, uno parte di là… Van Looy se va dritto, vince. È andato da una parte… Voleva buttare giù Beheyt. Voleva buttarlo giù. A quel punto, voleva buttarlo giù. E l’ha mancato. L’ha mancato».

- E quindi lì aveva ragione Beheyt, perché l’altro gli stava andando addosso. Quello era vero.

«Quello è verissimo, ma è verissimo perché quell’altro, giustamente, s’è sentito tradito». 

- Ci siamo arrivati, parliamo di tradimenti. Sappada ’87: il tuo primo pensiero qual è? Eri al seguito del Giro? E se sì, come hai vissuto quella giornata?

«Quella tappa, no. Ho vissuto, qualche giorno prima, la tappa che partiva da Giulianova, e arrivava a Osimo perché c’era di mezzo Fred Mengoni [nativo di Osimo e deceduto il 3 febbraio 2018, nda]. Quella tappa lì di Osimo l’ho fatta sulla macchina del dottor Tredici, il medico di corsa, che è il posto più “bello” per vedere la gara. Maglia rosa era Roche. Una tappaccia, piena di montagne e Visentini che continuava ad attaccare. Continuava ad attaccare-attaccare-attaccare, e c’è stato un momento in cui Roche aveva perso la maglia rosa. Poi c’era una bellissima salita, per niente conosciuta, e dove è successo di tutto e di più. Roche è arrivato con la lingua fuori, ma l’aveva vinta Forest e quindi è diventata una tappa di merda; ma ti assicuro che è stata una delle tappe più belle. [Visentini la chiuse 11° a 49”, Roche 17° a 59” e, nonostante i postumi della caduta a Termoli del giorno prima, cedette solo 7” a Visentini, sempre secondo nella generale ma a 25” e non più a 32” dall’irlandese in rosa, nda]Purtroppo la televisione non c’era, e come sempre riprendeva quel poco che poi faceva vedere. Lì ho capito che tra i due c’era una guerra incredibile. Io credo che alla fine i corridori parteggiassero per Roche perché Visentini era assolutamente inaffidabile. Assolutamente inaffidabile».

- E la sera di Sappada, quando sei arrivato?

«Quando son arrivato lì, mah, niente…».

- Tu c’eri al traguardo quando Visentini disse la famosa frase “stasera qualcuno va a casa”? Eri lì sotto lo striscione dell’arrivo?

«Sì, sì».

- Quella frase l’hai sentita? L’ha detta?

«Sì, sì, quella l’ha detta. Proprio così, incazzato come una…».

- Zomegnan sostiene di essere stato l’unico giornalista italiano a fermarsi lì all’hotel dove la Carrera alloggiava.

«C’eravamo tutti, o perlomeno eravamo in tanti…».

- Tu eri proprio nell’albergo, l’hotel Corona Ferrea, ad aspettare i Tacchella?

«I Tacchella son arrivati, ma non siamo stati lì fino a quell’ora». 

- Anche perché arrivarono tardi, verso le 21.

«Sì, ma c’era Gianfranco Belleri, che era il plenipotenziario dei fratelli Tacchella. Era quello che aveva seguito la sponsorizzazione della Carrera nel ciclismo mentre lui invece era un appassionato di basket…».

- Questa mi mancava…

«…e quindi non vedeva di buon occhio il ciclismo. Quella sera lì Belleri, prima ancora che arrivassero i Tacchella, ha detto: ragazzi, qui si tratta di vincere il Giro d’Italia, eh. La Carrera deve vincere, che vinca uno o vinca l’altro, comunque la Carrera deve vincere». 

- C’era un po’ di pressione per far vincere l’italiano, un bresciano, l’ex compagno di squadra di Boifava, o contava solo che alla fine in rosa ci fosse uno della Carrera?

«Boifava, proprio per rapporti di amicizia era per il Visenta, che un anno, finito il Giro [dell’84, nda], gli si era presentato con la bicicletta tagliata a pezzi. Quindi tanto “intelligente” non era; tanto è vero che a distanza di trent’anni… L’anno scorso la Carrera ha fatto la festa…».

- …per il trentennale, il 30 settembre 2017. Tu c’eri, che atmosfera hai trovato?

«Bella, molto bella. Secondo te, chi non c’era?».

- Non c’era Visentini. Ma ne mancavano diversi, e alcuni con scuse più o meno credibili. Ghirotto e Chiesa, per esempio, non c’erano. 

«Sì, però per Ghirotto c’era di mezzo la mountain bike o qualche corsa. Può anche darsi, però. Non lo so. Guido Bontempi c’era. Cassani c’era. Mario Chiesa non c’era. Però alcuni sono direttori sportivi. Sì, probabilmente c’era un gruppo di fedelissimi. Però, sai, le scelte di Boifava sono sempre un po’…».

- …da Cardinale. 

«Tra Pantani e Chiappucci lui ha "scelto" Chiappucci». 

- A un certo punto hai avuto la sensazione che la festa, più che per il trentennale della Carrera, fosse una vetrina per la Carrera-Podium marca di biciclette, per la Carrera marchio d’abbigliamento? Hanno parlato solo Roche e Chiappucci, e qualche ex gregario c’è rimasto male. Hai avuto questa sensazione? O forse in quel tipo di celebrazioni è sempre così?

«No, il problema è che a un certo punto la festa l’ha “gestita” Beppe Conti. Con Boifava. Io non so se sia stato Boifava a dargli l’input. Ecco, anche lì: non so fino a che punto è il Beppe che è così o se invece c’è stato un input di Boifava». 

- Di Boifava, da Sappada in poi, che idea ti sei fatto? O anche prima, visto che lo conosci da oltre trent'anni. Perché lo chiamavano “Cardinale”? 

«Aveva delle grosse qualità. Per anni la sua è stata l’unica squadra [italiana] che partecipasse al Tour».

- All’epoca si pagava, e salato: cento milioni di lire, sessanta per l'iscrizione.

«Si pagava. Non so quanto, comunque si pagava. Già questo ti fa capire il livello della squadra, e suo. Perché a un certo punto, sai, potevano andarci anche altre squadre».

- Si racconta che il patron Del Tongo dicesse a Saronni che per loro il Giro di Puglia contava più del Tour de France. Il che sarebbe un po’ una fotografia di quel ciclismo: ma è vero che Del Tongo lo diceva? Sarà un caso ma al Giro di Puglia Saronni ha il record di vittorie, tre, più un secondo e un terzo posto. Mentre al Tour c’è andato una volta, proprio nel 1987, e neanche lo finì: si ritirò alla 13ª tappa.

«No, non lo diceva Del Tongo. Lo diceva il patron della GiS, Pietro Scibilia. Saronni all’estero ha vinto solo una classica, la Freccia Vallone [nel 1980; ma nell’83, alla seconda e ultima partecipazione, fu secondo alla Liegi, nda]. Poi, basta. Non ci andava. Primo, perché non gli piaceva andare, già Lugano, per lui, era troppo lontano; ma soprattutto perché all’epoca di Scibilia, della Gis, lo era. L’ha detta a me, Scibilia: per me è più importante… Quando Saronni vinse la Freccia, c’era anche Scibilia, che disse: sì, però per me è meglio che vinca il Matteotti [gara in linea che si corre a Pescara e che Saronni non ha mai vinto, nda], perché io i gelati li vendo in Abruzzo». 

- Quindi non c’entravano né il Tour de France né il Giro di Puglia, e tantomeno Del Tongo?

«Assolutamente no. Era alla Freccia Vallone [17 aprile 1980, nda], ed era una delle poche corse che Saronni ha vinto all’estero. Tre giorni dopo, la domenica, si corse la Liegi-Bastogne-Liegi. C’era un tempo di merda, proprio una nevicata e Hinault vinse per distacco, fece uno dei suoi numeri [il 20 aprile Hinault vinse in solitaria con 9’24 su Kuiper, nda]».

- Quando l’ho ripetuta a Ferretti quella frase, “Ferron” è impazzito: «Sbagliava».

«Sono sicuro: non era Del Tongo, era Scibilia. Io non ricordo gli anni, ma le cose importanti sì. Però, vedi: purtroppo le nostre case, i nostri sponsor, erano solo nazionali. Lo era anche la Salvarani, però stava lanciando i prodotti in Belgio, per cui a un certo punto correre in Belgio era diventato basilare. Era quella la grossa differenza tra le squadre. L’unico nostro marchio internazionale era la Carrera». 

- E difatti produceva jeans, non mobili, cucine, materassi eccetera. I Tacchella volevano un corridore o due per ogni Paese dei mercati di loro interesse: Schepers per il Belgio, Roche per l’Irlanda, il nucleo degli svizzeri…

«Non solo. Mi ricordo, e questo me lo aveva detto o il Tito [Tacchella] o Gianfranco Belleri, il rappresentante francese continuava a rompergli i coglioni: dovete fare promozione, dovete fare promozione, dovete fare promozione. Quando han vinto il Tour, gli ha detto: non c’è più bisogno di niente. Non c’è più bisogno di niente».
CHRISTIAN GIORDANO

NOTE
[1] Corriere d'Informazione: quotidiano del pomeriggio pubblicato a Milano dal 1945 al 1981. Per concorrenzialità con il «Corriere della Sera», che usciva nel pomeriggio con il Corriere d'Informazione, anche Il Giornoaveva un’edizione pomeridiana, diretta da Giorgio Susini.

[2] La Notte: quotidiano del pomeriggio edito dal 1952 al 1995. Fondato dall'industriale bergamasco Carlo Pesenti e diretto dal 1952 al 1979 da Nino Nutrizio, fu tra i giornali milanesi più popolari negli anni Cinquanta-Sessanta e arrivò a una tiratura massima di circa 250 mila copie.

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