Eddy Schepers - Ribelle con causa
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
«In Belgio il gregariato, così come lo si intende in Italia, non esiste. Una squadra ha venti dipendenti, e tutti si fanno la forca per cercare di intascare quanto più possono»
- Gianni Mura (1968)
«Costui - e non la famiglia, la società, i vicini, le cattive compagnie o "n'importe que" - è individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le conseguenze davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni. Senza scuse. Senza sconti, perché quello che ha assunto è un impegno con se stesso e verso se stesso. Questo tipo d'uomo è il Ribelle».
- Massimo Fini, Il Ribelle (2006)
Dalle Ande alle Fiandre. Per arrivare al Ribelle, al secolo Eddy Schepers (si pronuncia "Skìpers"), fidatissimo gregario del “Giuda” Stephen Roche e terzo polo nella “trinità del Male” col piccolo “Diavolo” Patrick Valcke, ho dovuto prenderla larga. E passare telefonicamente dall’Argentina. Avevo già ottenuto il numero di cellulare di Schepers, ma non mi aveva mai risposto.
Per strani percorsi del mestiere, e forse del destino, conosco Filippo Fiorini, un film-maker da poco rientrato in Italia dopo dieci anni d’Argentina, col quale ho collaborato al suo documentario “Luka Modric – Il capolavoro col numero 10”. Grazie a Fiorini entro in contatto con un suo collega belga, David D’Hondt, anch’egli giornalista freelance rimasto però a lavorare a Buenos Aires.
D’Hondt chiama Schepers e come d’incanto Eddy, nei giorni successivi, risponde a quei SMS di richiesta per un’intervista prima bellamente ignorati. Di lì ai mille chilometri per raggiungerlo nella bella casetta nella campagna fiamminga, è stata una mera questione logistica. Idem gustare con lui e la sua moglie Carine, nel suo salotto, davanti al caminetto, un caffè espresso e della ipercalorica pâtisserie belga; pardon, fiamminga.
Per strani percorsi del mestiere, e forse del destino, conosco Filippo Fiorini, un film-maker da poco rientrato in Italia dopo dieci anni d’Argentina, col quale ho collaborato al suo documentario “Luka Modric – Il capolavoro col numero 10”. Grazie a Fiorini entro in contatto con un suo collega belga, David D’Hondt, anch’egli giornalista freelance rimasto però a lavorare a Buenos Aires.
D’Hondt chiama Schepers e come d’incanto Eddy, nei giorni successivi, risponde a quei SMS di richiesta per un’intervista prima bellamente ignorati. Di lì ai mille chilometri per raggiungerlo nella bella casetta nella campagna fiamminga, è stata una mera questione logistica. Idem gustare con lui e la sua moglie Carine, nel suo salotto, davanti al caminetto, un caffè espresso e della ipercalorica pâtisserie belga; pardon, fiamminga.
In un italiano neanche troppo zoppicante che volutamente ho editato il giusto, questa è la sua storia di amicizia (e reciproco interesse) con il capitano di una vita. Fino a quel distacco, che non si misura in secondi quando a ruota dell’amicizia si mette l’interesse. Perché allora il tempo non sempre è galantuomo.
Hoeleden (Kortenaken), Belgio, sabato 27 ottobre 2018
- Eddy Schepers, dopo più di trent’anni, se ti dico “Sappada” che cosa ti viene in mente?
«Che c’era un po’ la guerra dentro la Carrera. Già prima, all’inizio del Giro, siamo partiti con due capi, Roche e Visentini. E, bon, dopo qualche tappa abbiamo fatto la cronometro individuale a San Marino, e lì Roche non ha funzionato “normale”».
- È vero che in quella cronometro Roche fu condizionato dalla sua caduta di tre giorni prima a Termoli, dove aveva picchiato il ginocchio destro? O Visentini quel giorno andò comunque più forte?
«Sì, ma Visentini quel giorno era più forte. Può darsi che Visentini sia andato anche un po’ più… E anche per quello che lui, due giorni dopo è andato in crisi, perché non era normale che Roberto…».
- …che si staccasse così. Cioè, aveva speso troppo, dici?
«Sì, ma aveva guadagnato tanto tempo su Roche e per la Carrera era un po’ già… Hanno fatto il punto e hanno detto: Visentini è il capitano e Roche…».
- Quando siete partiti, all’inizio del Giro, la gerarchia era chiara: Visentini capitano al Giro e Roche in suo aiuto e al Tour il viceversa? O in squadra c’erano due capitani?
«Per me, erano due capitani, sì. Perché io ho avuto dei problemi per essere dentro la squadra».
- I premi al Giro erano più alti rispetto a quelli per il Tour, vero? E tu volevi correre il Giro per guadagnare di più. Roche ha scritto nei suoi libri che c’era anche un altro motivo. Avete una corporatura simile e lui voleva un gregario che in caso di necessità (forature, cadute o guasti meccanici) potesse lasciargli la bicicletta. Tu sei un po’ più alto di lui? [Eddy era 1,71 x 62 kg, nda]
«No, non era per quello. Io sono un po’ più basso di Stephen. Però, anche le gare prima, avevo sempre aiutato io Stephen. Io stavo sempre con lui. Una volta, alla Parigi-Nizza, l’ultima tappa, io gli ho dato una ruota. Io ero sempre vicino a lui, per tirare un po’ davanti, per esempio quando c’era vento. Io dovevo sempre stare con lui».
- Era quello il motivo quindi, non tanto le misure simili delle bici?
«No, la bici non c’entra. E poi, per me, io volevo partecipare anche al Giro d’Italia e lì Stefano(lo chiama così, all’italiana, nda) è andato da Boifava a chiedergli: io voglio una cosa, che in squadra con noi venga anche Schepers (“Skìpers”, così lo pronuncia Eddy, nda). E l’anno prima, quando Roberto ha vinto il Giro, ero anch’io nella squadra. E io ho lavorato per lui».
- Alla Carrera come ci eri arrivato?
«L’anno prima al Tour de France avevo fatto abbastanza bene nella Lotto, una squadra belga. Sono arrivato 14° in classifica [a 16’13” dal vincitore Bernard Hinault, nda] e a un certo momento c’era Boifava che mi chiamava, perché in quel periodo non c’erano i manager come ci sono adesso. Lui mi chiamava e…».
- Boifava voleva te perché aveva visto come ti muovevi in corsa?
«Sì. E perché cercava un gregario per Roche. Perché l’anno prima Roche era arrivato terzo al Tour, e nell’86 lui sarebbe andato alla Carrera.
- Roche in quel Tour aveva vinto la semitappa dell’Aubisque, la cronoscalata.
«Sì, e così sono andato anch’io in Carrera».
- Che cosa successe nella tappa di Sappada, al Giro ’87?
«Roche cercava anche dei momenti per fare la sua corsa. Per essere “felice” devi anche cercare una certa situazione dentro la corsa. Lui era bravissimo in discesa. A un certo momento erano con tre-quattro corridori…».
- Roche andò dietro a Bagot, Salvador, Muñoz…
«Anche Salvador, sì. Sono andati giù…».
- L’azione quindi non l’avevate studiata in camera, in albergo? L’avevate preparata?
«Non puoi mai dire come va…».
- Diciamo che c’era un’idea, o no?
«C’era un’idea di non dire: è finita, che lui non poteva più vincere. Cercava ancora un’azione per… Però in quella tappa non potevi immaginare che…».
- Se però in corsa nasceva un’azione… Cioè: vedi che va via Bagot e vai dietro a Bagot. Era questa l’idea?
«Sì».
- Anche perché tu a Bagot, otto giorni prima, avevi “lasciato vincere” la tappa del Terminillo. Eravate in fuga voi due e neanche hai sprintato.
«Io in salita ero il più forte».
- Lo hai lasciato vincere o no?
«Non l’ho lasciato vincere. Alla fine di quella tappa ero un po’ senza benzina, uno-due chilometri prima andavo ancora bene…».
- Bagot era più veloce di te o in volata avresti anche potuto batterlo?
«Potevo batterlo… [sorride] Dopo, la Fagor ha anche un po’ aiutato Stefano, e lì c’era qualcuno che diceva: ah, che forse prima io avevo lasciato vincere Bagot…».
- Per quello son venuto fin qui a chiedertelo: e quindi non era vero?
«Nooo. No».
- Sai, la gente magari pensa male perché fa due conti e dice: Roche e Schepers l’anno dopo sono andati tutti alla Fagor di Bagot…
«Sì, ma in quel periodo non stavamo pensando di lasciare la Carrera. È cominciato tutto dopo, quando, finito il Giro, noi avevamo paura di non potere partecipare al Tour de France. Dopo il Giro siamo partiti, neanche bevuto champagne…».
- È vero che siete rientrati subito a Parigi, avete guidato tutta una tirata e siete arrivati a tarda notte. In macchina eravate in quattro? Tu, Roche e sua moglie Lydia e Valcke?
«No, in tre. Lydia era a casa sua a Parigi. Eravamo in tre: Patrick Valcke, Stefano e io. E anche mia moglie è andata a Parigi, così uno o due giorni dopo siamo venuti qua [nella loro casa di Hoeleden, frazione di Kortenaken, in Belgio, nda]. In quel periodo avevamo paura di non poter più correre per la Carrera. Anche la notte di Sappada».
- Avevi paura che i patron Tacchella e il diesse Boifava vi mandassero a casa?
«Sì. Perché se Roche avesse perso tre-quatto secondi in più… Prese la maglia per cinque secondi».
- Su Tony Rominger.
«Sì. E se lui in quel momento non avesse avuto la maglia, sono quasi sicuro che…».
- …vi avrebbero mandato a casa?
«Sì. Perché a un certo momento, sull’ultima salita, quando Roche era in fuga, lui tirava con tre quattro-corridori. Tirava come gli altri. E diceva: lascia tirare le altre squadre, dietro di me. E la Carrera: no-no-no, è Visentini il nostro capo, tu non puoi tirare. E invece Stefano correva davanti, tirava…».
-… e anche la Carrera, dietro, tirava: con Ghirotto, Leali e via via tutti gli altri.
«Alla fine tutti».
- Perché Boifava li faceva tirare? Era andato nel panico, non sapeva cosa fare?
«Io penso che per la Carrera, in quel momento, era meglio se vinceva Visentini più che Roche. Perché lui aveva già vinto l’anno prima. E poi io sono anche convinto che, quando in una squadra italiana vengono dei corridori stranieri, un italiano deve sempre essere meglio dell’altro. Perché comunque è sempre un po’…».
- Me l’ha detto anche Fondriest, quando è andato in Olanda alla Panasonic.
«Sì? Sì, un po’ è normale. Però io non avevo tirato. Quando Roche era in fuga e tutta la squadra tirava, io a Boifava ho detto di no, io non tiro dietro di lui. A un certo momento tutti si sono rialzati. Alla fine anche Visentini, ma perché è andato in crisi. Boifava è venuto accanto a me per dirmi: Schepers, aspetta Roberto. Perché io ero sempre dietro Roche. Sempre, sempre: tutte le tappe. Ed io a Stefano dicevo: adesso devo aspettare perché… Però se tu mi dici che l’anno prossimo io può stare con te dentro la squadra, io adesso rimane con te. “Stai qua”, mi dice. Ed io non sono andato. Anche già per questo quando il capo ti dice… O Boifava mi chiedeva… – e non soltanto chiedeva ma ordinava… Questa è una cosa grave, basta per essere licenziati. E uguale per Stefano».
- È vero che nella tappa del giorno dopo, la Sappada-Canazei, Visentini con la bici ti è venuto contro con la bici per buttarti giù?
«Sì».
- La giuria gli ha inflitto una multa di tre milioni di lire.
«C’era la Marmolada. All’inizio della Marmolada lui attaccava ed io sono andato a prenderlo».
- E lui ha provato a buttarti giù?
«Sì, sì. Perché sulla Marmolada ho tirato in testa per quasi tutta la salita».
- Perché ce l’aveva più con te che con Roche? Perché ha provato a buttare giù te e non Roche?
«Perché io ero andato a prenderlo. Con Stefano alla mia ruota».
- E tu lì che cosa hai fatto? L’hai mandato via, lo hai evitato? Oggi, tutto questo sarebbe impossibile. È tutto in diretta tv, telecamere ovunque per l’intera corsa. È un altro ciclismo.
«Ah, no. Guarda quello che è accaduto a Moscon…».
- Solo per il gesto di tentare di colpire in corsa, con una manata, il francese Élie Gesbert della FDJ, e senza neanche averlo centrato. A casa! Espulso dal Tour 2018 e poi sospeso per cinque settimane.
«Sì, però Stefano lì sulla Marmolada aveva anche paura del pubblico».
- Che cosa hai visto lì, con i tuoi occhi? È vero che gli tiravano brandelli di carne, che gli sputavano addosso del riso misto con vino rosso? E che sul Pordoi ha preso pugni e schiaffi?
«Lui non voleva correre al bordo della strada».
- Aveva sempre te da una parte e Millar dall’altra, vero?
«Sì. E poi abbiamo avuto anche l’aiuto della gendarmeria, lì sul monte…».
- I carabinieri e la polizia stradale.
«Sì, sì. Loro andavano con i piedi davanti, così, per aprire la folla… [mima il gesto degli agenti in moto che a gambe larghe tenevano lontano il pubblico al passaggio dei corridori, nda]. E d’importante c’era anche che il giorno di Sappada, e anche il giorno dopo, penso, Boifava voleva che nessuno parlasse con la stampa. E a un certo momento Stefano dice: io, parlo. Perché, dice Stefano, così anche la gente si fa un’idea, conosce anche la mia versione».
- Com’era l’ambiente, quella sera, all’hotel Corona Ferrea? C’era un’atmosfera pesante?
«Sì. È per quello che, ancora adesso, io dico sempre che è quasi impossibile andare con due capi. Sky l’anno scorso l’ha dimostrato».
- Sì, con Landa e Froome al Tour 2017. E anche al Tour 2018, con Thomas e Froome, che però sono amici: è diverso.
«Però hai visto anche Froome e Wiggins…».
- Sì, al Tour 2012: lì anche le mogli, Michelle Froome e Cath Wiggins, litigarono fra loro.
«Sì-sì… [ridiamo, nda] Non erano bei tempi, né per Stefano né per la squadra: per nessuno».
- E nei giorni successivi, com’era il clima in corsa e fuori?
«Con la Carrera non c’era nessuno che voleva…».
- È vero che tu mangiavi con Stephen e la squadra era spaccata in due? A colazione, a cena, era come se foste due squadre separate?
«Eravamo insieme ma… Qualche corridore voleva comunque aiutare Stefano, però c’è anche la squadra. E quando il direttore ti dice di fare altre cose…».
- Anche perché, sai, in ballo c’erano bei soldi: 45 milioni di lire il premio-vittoria per il Giro…
«Sì, sì… È anche per questo che a un certo momento [Roche] ha cercato un po’ per trovare qualcuno che potesse aiutarlo. E d’altra parte in quel momento io andavo forte, ho tirato tanto in salita in testa per lui».
- Al Tour invece è stato più “facile”? La squadra era persino più forte di quella al Giro.
«Sì, perché al Tour abbiamo avuto un capitano. E anche prima, eh, è sempre andata bene. È solo in quel momento lì che… Io un po’ posso anche comprendere Visentini, perché per lui forse è stato anche brutto di perdere così il Giro d’Italia».
- Sai, si erano già visti gregari che attaccavano il capitano ma mai il proprio capitano in maglia rosa. Tu con Visentini che rapporto avevi, dopo Sappada? Intanto, vi siete chiariti dopo che aveva aver cercato di buttarti a terra?
- No, no. Io non l’ho più visto».
- Non vi siete più parlati?
«No, no. Però con Johan De Muynck, che ha vinto anche il Giro d’Italia [nel 1978, nda] una volta anche Gimondi aveva avuto… Era successo altre volte, ma non così…».
- L’anno dopo, alla Fagor, che cosa non ha funzionato? Non era molto organizzata, vero? Valcke diesse, problemi già dal ritiro di gennaio, con lo “sciopero” di voi corridori che rifiutate di posare per la foto ufficiale, vero?
«Eh-eh, sì… [ride] Roche aveva troppo fiducia in Patrick Valcke, perché da una parte Patrick non aveva esperienza…».
- Aveva solo 28 anni, era giovane…
«…e poi era pur sempre un meccanico».
- Fare il direttore sportivo è un’altra cosa.
«È un’altra cosa. Poi anche chi faceva il manager… Prima c’era Philippe Crépel…».
- L’hanno ingaggiato ma poi non l’hanno fatto lavorare.
«C’è sempre stata una squadra “spagnola” e una… Il patron AgustínMondragón e Miguel Gomez erano appassionati di ciclismo e c’erano soldi però…».
- …non c’era organizzazione?
«No, no. Non è perché hai tanti soldi… Tu devi anche essere a punto, eh. E lì, per Stephen, il suo problema era un po’ il ginocchio. Anche quell’anno lì, ancora una volta, problemi al ginocchio e quando si perde un po’ troppo allenamento, e anche corse, allora la condizione non è…».
- Quando tu e Roche siete arrivati in Carrera, tu già parlavi italiano perché in passato avevi corso in squadre italiane, quindi lo avrai aiutato. Gli facevi un po’ da interprete?
«Sì, ma con Stefano ho parlato sempre francese. Però è vero che prima avevo corso qualche anno in Italia: alla GiS nel 1982 e alla Dromedario nel 1984».
- Che ricordi hai di quelle esperienze all’inizio della tua carriera? Alla GiS con chi eri, con Pieroni?
«Sì, sì. Con Piero Pieroni e con i belgi Jean-Marie Wampers e Noël Dejonckheere» [in squadra c’era anche Ennio Salvador, nda]
- È vero che il diesse Piero Pieroni vi metteva in camera con un compagno che parlava un’altra lingua così per comunicare dovevate per forza imparare un po’ l’uno la lingua dell’altro?
«Sì, ma questo è un buon metodo».
- Come organizzatore era il numero uno.
«Sì, perché io ho corso anche con Piovani e con quello che era nella fuga a Sappada, Salvador. Per quello lo conoscevo bene…».
- E questo, in corsa, ti ha aiutato? Salvador ce l’aveva con Visentini dal campionato italiano dell’anno prima, perché Visentini gli aveva promesso di aiutarlo e invece niente. E quindi Salvador era più contento di vedere in rosa Roche che Visentini.
«Questo non lo so».
- Però di Salvador eri più amico tu che Visentini, questo è sicuro.
«Sì, questo sì».
- E perché Boifava a quel Giro non voleva portarti?
«Nella sua testa c’era l’idea di chiedere a Schepers di andare solo al Tour de France, e questo era sicuro-sicuro. E c’erano altri corridori che volevano fare il Giro, eh. Però c’erano anche tanti corridori italiani che volevano stare a casa quando c’era il Tour de France».
- Ah, sì?
«Sì, sì. Anche Visentini, lui non era…».
- …un grande fan del Tour, lo so. All’epoca pochissime squadre italiane ci andavano, anche perché costava parecchio: cento milioni di lire.
«Non è che non mi voleva mandare al Giro, perché Boifava prima mi aveva selezionato, c’era piuttosto che lui…».
- …ti vedeva più per il Tour, in appoggio a Roche?
«Il mio rapporto con Boifava è sempre stato buono. Però in quel momento io volevo fare anche il Giro».
- Una volta hai detto quando ti allenavi con Roche «era come andare dietro una moto». È vero? Stephen era così forte?
«Penso sia successo in febbraio, o qualcosa così, a un “campo di allenamento” in Spagna. Con la Carrera facevamo lunghi allenamenti, già a quei tempi. Facevamo già i training camp. Noi siamo arrivati dopo un allenamento forse neanche troppo lungo e siamo andati un po’ a letto. E lui, dopo, aveva voglia di fare ancora…».
- …un allenamento-extra?
«Voleva fare ancora allenamento per la cronometro».
- E quindi andavi con lui?
«Ed io per fargli piacere dicevo: vengo con te. E lui faceva l’allenamento come una cronometro. In quel periodo facevamo già allenamenti con il cardiofrequenzimetro. Perché erano pochi, non tanti corridori lo facevano. Però la Carrera era stata una delle prime squadre a farlo e lui si allenava anche sulla frequenza e così io gli stavo a ruota… Sì, sì.».
- Come mai in tante cose la Carrera era così avanti alle altre. In questo era bravo Boifava?
«Sì. Perché mi ricordo che anche prima, quando era ancora Inoxpran, per noi erano quelle le grandi squadre».
- La Carrera veniva qua in Belgio per le classiche e ci stava un mese.
«Sì, in quel periodo un corridore belga che poteva andare in Italia, non diceva mai di no. Perché da voi l’organizzazione era super».
- Questo è stato uno dei motivi che ti hanno convinto ad andare alla Carrera?
«Anche. E perché a un certo momento ho anche capito che io, per fare classifica, non andavo abbastanza bene a cronometro».
- Però andavi forte in salita.
«Io volevo andare a una squadra per aiutare un capo. Solo che nel momento in cui Boifava mi ha chiamato io avevo già firmato con la Lotto. C’era Walter Godefroot come direttore. Boifava chiamava e io a Godefroot ho detto: ho questa proposta. E il direttore mi diceva: devi andare lì. Se hai questa opportunità… Perché anche lui era andato in Italia, un anno alla Salvarani. Io gli ho dato una bottiglia di champagne, e a posto così».
- Come hai iniziato tu col ciclismo? Raccontami la tua storia.
«Quando io ero bambino e mi chiedevano che vuoi fare quando sarai grande, io dicevo: il ciclista».
- Qual era il tuo idolo, il tuo campione preferito?
«In quel momento c’era Rik Van Looy. Quando io ho cominciato, a quindici anni, tanti ragazzi dicevano: ah, vado a correre un po’ e poi vediamo. Io invece no: io ho cominciato con un’idea, io voglio arrivare a…».
- Hai vinto il Tour de l’Avenir, il Giro delle Regioni, ma quando hai capito che magari ti mancava qualcosa per diventare campione e invece potevi essere un fortissimo gregario?
«Dopo qualche anno. Ho cominciato a correre nella squadra di Merckx, la sua ultima squadra, la C&A, che non è tanto conosciuta. L’anno prima lui aveva corso per la Fiat, l’anno dopo lui ha corso solo due-tre mesi».
- Aveva capito di non essere più il “vero” Merckx?
«Per noi non era tanto un bene perché quando puoi cominciare in uno squadrone, anche quello di Merckx allora, puoi crescere piano piano. Invece noi, Guido Van Calster ed io– siamo sempre stati insieme da quando eravamo juniores e ancora adesso ci vediamo, siamo amici – il giorno dopo siamo andati alla DAF Trucks. Una squadra di giovani, con Fred De Bruyne come direttore sportivo che da corridore[1]aveva vinto tantissime classiche. Però quando sei in una squadra così, di giovani, non puoi pensare di lasciare spazio ai campioni, perché i risultati devi farli e quindi sei sempre sotto pressione. E questo per i giovani non è un bene».
- Pensi che lì ti abbiano un po’ bruciato? Magari in un’altra squadra avresti potuto avere un altro percorso di crescita?
«Sì, magari potevo fare… Adesso, per esempio, sarei venuto in Italia giovane-giovane, perché in questo momento in Italia il ciclismo non è più come prima».
- Non è più com’era trenta, quarant’anni fa.
«No, no. Poi quando cominci a correre fai le classiche, Parigi-Nizza, Tirreno-Adriatico, Dauphiné… E allora pensi: adesso so come va la corsa con i professionisti, però quando vai al Tour… è il doppio…». [sorride, nda]
- Che cosa c’è di così diverso, perché “è il doppio”? C’è troppa pressione, tutti vogliono correre davanti…
«Sì, e tutti i corridori sono al massimo della condizione».
- E in gara ci sono i migliori al mondo.
«Sì. Per esempio, prima c’erano corridori che dicevano: ah, al Giro andiamo un po’ per allenamento. Al Tour de France, no».
- A tutta, dall’inizio. Full gas.
«Sì. E a un certo momento devi anche fare una scelta. Per me andava bene una squadra come la Carrera, dove io potevo aiutare».
- Roche poi è tornato per due anni da Boifava nell’ultima parte della carriera. Tu perché non sei andato?
«Mah… L’ultimo anno alla Fagor, il secondo, Roche non andava tanto bene. Ancora problemi fisici. Lì c’era un po’…».
- C’erano stati problemi tra voi?
«Sì, lui aveva sempre un po’ troppa fiducia in Patrick. Con la Fagor c’era la possibilità di fare una squadra, ma doveva essere diverso. E lì loro hanno lasciato la Fagor per la Histor-Sigma».
- E così, dopo i due anni alla Fagor, vi siete separati. Ognuno per la sua strada.
«Sì».
- Dopo non li hai più seguiti perché c’era Valcke?
«Sì, ma anche perché avevo qualche anno di più. [Schepers è del ’55, Roche del ’59, nda] E a un certo momento il fisico dice ancora va bene, però quando la testa non è più lì…».
- Meglio smettere.
«Sì. E quando sei un po’ più grande di età, freni un po’ prima che gli altri».
- Perché, il pensiero che sovviene qual è? Che a casa hai famiglia? Magari hai figli, e quello cambia tutto? In discesa non vai più giù “a tomba aperta” come prima. Cominci a pensare…
«Cominci un po’ a… E non solo per la discesa. Tante volte sei tu che sei “capitano” della tua bici, però in gruppo è diverso. Lì può succedere…».
- …che magari ti vengano addosso.
«E prima di te, quando c’è qualcuno che cade, dov’è che vai…».
- Allora è quello che cambia, scatta qualcosa nella testa?
«Sì, per quello anche i velocisti a una certa età…».
- Ti sei accorto, a fine carriera, che stava cominciando l’era dell’epo? Forse ti sei ritirato prima, ma ti eri accorto che nel gruppo qualcosa stava cambiando?
«Questo era un po’ prima. Io non ho mai…».
- Tu ti sei ritirato nel 1990.
«Roche ha vinto tutto nell’87, poi due anni alla Fagor. Io ho smesso nel ’90».
- Alla Tulip. Hai chiuso con la Vuelta, quell’anno.
«Sì».
- Giusto in tempo. Tutti ti avranno chiesto di Sappada, di Roche, di Visentini, ma tu hai qualcosa che vorresti raccontare e che magari nessun giornalista ti ha mai chiesto?
«Una cosa di cui parlo sempre con amici, per esempio, è del mio primo anno da professionista. Io e Van Calster nei dilettanti andavamo forte…».
- Eh, se hai vinto il Tour de l’Avenir…
«…però avevamo paura di passare professionisti».
- Perché il salto era grosso, vero?
«Perché è così, è totalmente differente».
- Me l’hanno detto tutti.
«A un certo momento arriviamo al campo d’allenamento in Costa Azzurra, in Francia. C’era una gara, la Haute Route Seraing-Draguignan, uno o due giorni prima o dopo il Laigueglia, a inizio stagione. Era una gara abbastanza dura, con qualche salita nel finale. Qualche giro alla fine ed erano avanti quindici corridori, c’era Freddy Maertens, che poi vincerà la tappa, c’era Merckx e in questa fuga c’ero anch’io. Merckx ogni tanto attaccava e c’era sempre qualcuno che andava dietro di lui, non so che risultato ha fatto Merckx, però dopo la corsa noi andiamo… Non c’era un albergo, c’era piuttosto una sala, dove eravamo un po’ tutti insieme, e lui s’è messo la tuta ed è andato a fare altri sessanta chilometri dopo la gara. E questo è stato sempre qualcosa che mi è rimasto, perché era il grande Merckx, che aveva fatto una corsa dura, forse di quasi duecento chilometri. Noi tutti dentro una macchina e lui da solo… E questo è anche…».
- …per spiegare chi era Merckx. Tanto talento ma anche tanto, tanto lavoro.
«E questo è uguale alla storia che dicevamo di Roche, che in allenamento andava così forte che io stavo come dietro una moto. Non è possibile vincere delle corse così senza allenamento, senza… Nessuno lo può fare».
- Tu hai corso contro Merckx, anche se era a fine carriera; poi Hinault, Fignon, Roche: come li classificheresti?
«Per me c’era Hinault, perché con lui ho sempre corso. Merckx l’ho visto che era a fine carriera, ma comunque quando parlo con qualcuno racconto sempre che quando si mettevano in testa, Merckx ma anche Hinault… Mi ricordo un anno che Hinault era caduto a Saint-Étienne, in una tappa, e aveva tutto il sangue che gli colava. Il giorno dopo qualche corridore pensava: ah, oggi Hinault… Ieri è caduto, oggi andiamo a provare…».
- E Bernard li ha suonati per benino.
«Maaa… cinquanta chilometri! Lui da solo, non la squadra: lui. E poi si girava, così: “Allora? Vi è bastato? O continuiamo?”. Questo, era Hinault».
- Quello era il ciclismo degli Sceriffi, vero?
«Sì».
- Per chi non ha vissuto quell’epoca lì, che cosa vuol dire? Intanto chi erano gli sceriffi? Moser, Saronni, Hinault… E chi era il “più” sceriffo fra gli sceriffi? Hinault era le Patron.
«Le grand patron. Al Tour de France lui correva sempre dietro i primi dieci del gruppo. Mai più indietro. E quando, a un certo momento, era un po’ più tranquillo e dovevi fare una pisciata: “Bernard, io vado un po’ davanti a…”. “Vai, vai, vai…”».
- …bisognava chiedergli il permesso.
«Sì-sì-sì. Sì».
- Che cosa succedeva se uno non chiedeva il permesso? Hinault ti veniva a prendere e…
«...o lui o la sua squadra. Però a me è sempre piaciuto così, perché un’altra volta, al Dauphiné i corridori dicevano: adesso il Dauphiné è diventato più duro del Tour, con così tante salite… Dobbiamo fare il Mont Ventoux fino in cima e poi scendere… E allora i corridori dicevano: dipende da noi, se non c’è nessuno che attacca andiamo tranquilli così l’organizzatore capisce che non vogliamo… Abbiamo fatto così, però poi c’è sempre qualcuno che… Alla fine Hinault si è messo in testa, ha fatto tutta la salita in testa ed io ero ancora alla sua ruota, in due. Ha vinto la tappa perché io ero così cotto che se si mettevo a fare la volata mi staccava».
- È vero che Hinault cambiava quando correva in Francia rispetto a quello che correva in Italia? Era un Hinault diverso, se possibile ancora più patron?
«No, anche in Italia, eh. Sì-sì-sì».
- Invece gli Sceriffi italiani? In che cosa comandavano la corsa? Visentini forse ha un po’ pagato il suo mettersi contro Moser, che in salita andava su a spinta dei tifosi trentini.
«Moser era più capo che Saronni. Il mio amico Van Calster era nella Del Tongo con Beppe… L’anno prima che siamo passati professionisti io e lui abbiamo firmato un contratto con Merckx. Poi a fine settembre c’era il Tour de l’Avenir ma io avevo già firmato. A un certo momento sono in testa alla classifica, Merckx mi chiama per darmi un po’ di consigli e mi dice fai così e così. E quando ho vinto mi ha detto: Ah, vi aspetto, tu e Van Calster, a casa mia per bere qualcosa e porta con te il tuo contratto che ne facciamo un altro. Per quello io dico sempre che nel ciclismo c’è più amicizia, fiducia anche, l’uno all’altro. Se mi dici una cosa…».
- …è quella. Devi mantenere la parola. Fuori del ciclismo invece ti è capitato diverso?
«I politici, per esempio».
- Ah, beh... No, pensavo ti riferissi nel lavoro, dopo il ciclismo. Che cosa hai fatto dopo?
«Sono diventato consigliere di sicurezza. Dovevo controllare le condizioni di lavoro in aziende anche di 3000-3500 dipendenti. Abbiamo reso il lavoro un po’ più sicuro».
- Anche nei cantieri, queste realtà qui?
«Sì. E questo l’ho fatto fino all’anno scorso».
- Per quasi trent’anni quindi.
«Sì».
- Come mai hai staccato con il ciclismo? Non hai pensato a fare il direttore sportivo o qualcos’altro per restare nell’ambiente?
«In quel periodo in una squadra c’era il direttore sportivo e forse qualcuno che aiutava un po’. E c’erano due…».
- …meccanici, un massaggiatore e, ma solo alle gare, un medico.
«Sì, e basta. Adesso…».
- Adesso al Team Sky hanno nove direttore sportivi, e nel pullman della squadra nove lavatrici. [Eddy ride credendo che io stia scherzando, nda] Guarda che è vero. È un altro mondo.
«Quando ho smesso, il mio interesse era piuttosto per l’allenamento».
- E ti sei messo a studiare?
«No, però…».
- La passione ti è rimasta...
«Sì. Quando ero alla Carrera noi avevamo già questa idea di allenarsi con la frequenza cardiaca. Però io avevo guardato un po’ all’atletica, e lì già si allenavano meglio rispetto a noi corridori. Ma dopo ormai avevo cambiato mestiere perché anche lì fai tanti giorni via…».
- Parlando di frequenza cardiaca mi hai fatto tornare in mente il gran cuore di Roche. Che cosa successe nella tappa di La Plagne, al Tour ’87?
«Il giorno prima arrivavamo all’Alpe d’Huez, e già lì Stefano doveva guadagnare tempo su Delgado».
- Perché poi tre giorni dopo c’era la crono decisiva, a Digione, prima della passerella di Parigi.
«Sì. Lui invece aveva in testa, negli ultimi due-tre chilometri, di andare fino a che moriva…».
- E ci è andato vicino.
«Però lui pensava di essere ancora con Delgado, e di staccarlo. Delgado invece si era staccato prima, però Roche ha fatto la stessa cosa: io vado a tutta-tutta-tutta. E, bon, è successo che aveva bisogno di un po’ di ossigeno. E la sera in camera gli dicevo: se ce l’hai fatta a far questo, puoi farcela anche a vincere il Tour; vuol dire che non sei al limite e che in corpo hai ancora abbastanza forze, perché il giorno dopo c’era l’arrivo a Morzine con lo Joux Plane…».
- …che è durissimo, ricordo ancora la cotta che Fabio Aru prese lì al Tour 2016.
«E quella lì probabilmente è stata una delle migliori tappe che ho corso. Sono andato in testa all’inizio, ho tirato fino in cima. Arriviamo ancora con – penso – cinque corridori e dopo Stefano ha attaccato in discesa e ha staccato Delgado di qualche secondo. E due giorni dopo c’era la crono».
- Era stato un Tour durissimo con un caldo infernale. Cinque giorni in Germania prima di entrare in Francia…
«Sì. E la Carrera era uno squadrone. Le cronosquadre: quell’anno ne abbiamo fatte tre o quattro e le abbiamo vinte tutte, a Champigny alla Parigi-Nizza, a Camaiore al Giro d’Italia, a Berlino al Tour…».
- Nel ciclismo di oggi non succederebbero tappe come La Plagne o Sappada… perché con le radioline dall’ammiraglia ti direbbero subito: non serve che attacchi così da lontano o che vai a tutta… ti dicono o quando attaccare e fino a dove. Vero?
«Sì, ma fino a un certo momento Roche era in testa».
- Oggi il direttore sportivo gli direbbe subito: guarda che…
«Sì, ma quando il corridore non fa quello che gli viene detto, allora…».
- Una Sappada o una La Plagne quindi sono ancora possibili?
«Sì! Guarda con Wiggins e Froome, ci sono andati vicino. Eh, sì».
- Oggi però i contratti sono così importanti che nessuno fa il colpo di testa, le cifre sono troppo alte.
«Sì, giusto».
- Per certe cose rimpiangi un po’ il tuo ciclismo? Dopo trent’anni che confronti puoi fare?
«Adesso un corridore è un professionista in tutti i sensi. All’inizio, quando io cominciavo a correre, a quindici-sedici anni, e c’era allenamento, partivamo da casa e facevamo qualche chilometro. Invece adesso…».
- …è tutto scientifico. Forse c’è però meno cameratismo fra compagni e con gli avversari, ci sono i social, l'iPhone, l'iPad…
«E meno rispetto».
- Ah sì? Per i veterani? In che senso rispetto?
«I giovani corridori non hanno rispetto per i loro colleghi. Io mi ricordo, quando ero un giovane professionista, che avevo paura accanto a… Ho corso qualche gara quando ancora c’era Gimondi… Aaahhh. Io avevo paura! E questo un po’ è anche normale, perché alla fine della carriera anche lui aveva paura. È quando sei giovane che non hai paura…».
- Non per fare della sociologia spicciola, ma è un po’ così anche la società: oggi c’è poco rispetto da parte dei giovani. Non solo nel ciclismo.
«Sì. No, no: non c’è».
- Per chiudere, dimmi due parole su Roberto, dopo trent’anni. Per te a Sappada non fu tradimento, fu un’azione di corsa, no? Neanche te lo chiedo, giusto?
«No, no-no. Certo, era un gran campione Roberto. Però lui pensava un po’ solo per se stesso. Perché anche in quel Giro, a un certo momento, dicevano: ah, adesso il capo è Visentini, Roche va a fare un po’ il gregario. Deve lavorare un po’ per Visentini e Visentini al Tour de France va ad aiutare a Roche. E lui: Io? No-no-no. Io vado in vacanza, vado in spiaggia…».
- L’ha pagata cara quella battuta, però.
«Ah, sì».
CHRISTIAN GIORDANO
[1] Tra cui sei Monumenti negli anni Cinquanta: tre Liegi-Bastogne-Liegi, una Sanremo, un Giro delle Fiandre e una Parigi-Roubaix.
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