Patrick Valcke, le petit Diable


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

“Quando era con noi, Valcke non si accontentava di fare il meccanico, voleva di più. Così si è costruito su misura il ruolo “uomo di Roche” e, sfruttando i successi dell’irlandese, è arrivato a fare il direttore sportivo della squadra che ha il campione del mondo. Poi il vento è cambiato, sono cominciati i problemi e in queste situazioni la furbizia non paga più. Adesso per Valcke sarà difficile trovare un posto anche come meccanico, ma del resto l’ha voluto lui”. 
- Davide Boifava, Bicisport, maggio 1988


Sessanta, e non sentirli. 
Piove, in questo sabato mattina a Roubaix. L’appuntamento è per le 11,30 allo Stab Vélodrome, quello couvert (indoor), attaccato a quello, scoperto, ormai tradizionale arrivo della Parigi-Roubaix. L’omino tutto pepe e sorrisi che si presenta puntuale, con super bici da pista e dolcissima signora Pascale, non sembra certo il “Diavolo”. Così, trentun anni addietro, media e tifosi additavano Patrick Valcke. La (presunta) mente – appunto diabolica – che ispirò il (presunto) “tradimento” di Roche a Visentini nella tappa di Sappada al Giro ’87. 

Dopo un lungo inseguimento e un paio di rinvii, l’ultimo dovuto a una mia caduta in allenamento, finalmente ci incontriamo. È sorridente e di buon umore, l’ex meccanico-tuttofare che di Roche fu – per quasi tutta la carriera dell’irlandese – uomo-ombra, amico oltre che gran consigliori e infine persino direttore sportivo. 

Francese tosto come la sua terra, Patrick è nato il 3 gennaio 1959 a Lille, dove la Francia sa già di Belgio, se non ancora di Fiandre, da dove provenivano i suoi avi. E penso d’aver detto molto, se non tutto. 

I sessanta (li compirà il 6 gennaio 2019), in bici proprio non li dimostra. Perlomeno a vedere come gareggia da “over obbligatorio” nel terzetto misto con gli amici David Laleu ed Erik Rouze (meccanico al team Cofidis e pure maratoneta); e come, tra una batteria e l’altra, fa il pieno di carboidrati piluccando pasta fredda e frutta dalla schiscetta (slang lombardo ormai italianizzato per l’antica gavetta o marmitta) preparata con tutto l’amore del mondo da Pascale, dalla quale Papy, come lo chiama lei, mai si separa se non allo start della corsa. 

Vederli insieme – e con ancora quel tipo di complicità dopo una vita l’uno accanto all’altra – è un privilegio raro che non soltanto ti riempie il cuore, ma ti fa continuare a credere che, almeno per qualcuno, esista per davvero l’Amore. Con la maiuscola. 

L’altro grande amore di Patrick, e anche questo – credo – con la minuscola, è sempre stato il ciclismo, antica passione trasmessagli dal nonno Julian. 

Capito presto di non avere le doti per correre da professionista, non poteva che cercarsi altre strade per vivere di e con la bici. Carattere fumantino (eufemismo) e per nulla incline non tanto al compromesso quanto anche al semplice deglutir ingiustizie, Valcke a 18 anni col cognato apre bottega e s’ingegna come meccanico. L’indole però è più da De bello Gallico che da partita doppia e registri, e quando il destino gli serve l’assist di un posto vacante in ammiraglia Peugeot, per il nostro è un rigore a porta vuota. È lì che conosce un ancora paffuto Stephen Roche, giovane e spaesato quanto lui. Per di più irlandese, e in quanto a indole guerriera – anche qui – penso d’aver detto molto, se non tutto. 

I due oltre che colleghi diventano subito amici. Roche poi se lo porterà dietro prima a La Redoute e poi nei due anni italiani alla Carrera. Lì, in terra straniera senza conoscere la lingua, il sodalizio diventa qualcosa di più che un semplice, per quanto forte rapporto di amicizia e colleganza. Somiglia più a uno Stato nello Stato, alla “Cia dentro la Cia” de I tre giorni del Condor. Durerà fino al Tour ’87, ma già dall’anno dopo, alla Fagor, qualcosa s’incrinerà. E nulla sarà come prima. 

Le Petit Diable mi espone la sua versione di fatti e fattacci. E lo fa à la Valcke, senza nascondersi né alibi. Dopo trent’anni abbondanti, persino il racconto dei giorni passati in guardina in Liguria per l’aggressione post-gara a un poliziotto (che non ne esce benissimo) assume contorni divertiti se non divertenti. 

E in fondo è anche per questo che mi sono spinto fin quassù: per sentire due campane su tre della “Evil Trinity”, la Trinità del Male assoluto (copyright mio), tanto denigrata all’epoca – invero con smaccata partigianeria – dai media nostrani. In mattinata quella del “Diavolo” Valcke, nel pomeriggio, nella sua bella casa belga di Kortenaken, quella del “Ribelle” Schepers. Per “Giuda” Roche ci vorrà ancora del tempo, ma già so che ce la farò. L’ho sempre saputo. E penso d’aver detto molto, se non tutto. 

NOTA PER IL LETTORE
Ove possibile ho cercato di mantenere francesismi e intercalare tipici di Valcke (bon, e sì eh, ci e là eccetera), così da rendere più fedele la trasposizione dell’intervista e non perdere l’originalità e la spontaneità del personaggio e del suo caratteristico modo di parlare. 

Stab Vélodrome 
Roubaix (Francia), sabato 27 ottobre 2018 

- Patrick Valcke, facciamo un po’ d’ordine. Intanto il nome: si pronuncia “Valcke”, con la “e”, o “Valck” con la e muta, alla francese? 

«Valck. In francese “Valck”, Patrìck Valck. Il nome è belga, fiammingo. Di Gand (o Ghent, in fiammingo). 

- Nomen omen, quindi era scritto che nella tua vita ci fosse il ciclismo… 

«Eh, non lo so… Però ho cominciato proprio giovane, a otto anni e fino ai diciotto. Dopo, ho capito presto che non potevo essere un corridore professionista, allora mi sono detto: se non posso essere corridore, devo aiutare i corridori, no?». 

- Così hai aperto il negozio con tuo cognato. 

«Sì, all’inizio sì. Poi però sono partito à l’armée – come si dice in italiano? – A fare il militare, un anno, perché era obbligatorio. E dopo ho aperto questo negozio però ho capito che…». 

- …non eri fatto per quello, che non era la tua strada? 

«No, no…». 

- Né per fare il ragioniere, anche se il diploma l’avevi conseguito. 

«Sì…». 

- La passione per il ciclismo non te l’hanno trasmessa papà Leon e mamma Ann ma tuo nonno Julian, vero? 

«Sì. È lui che mi ha iniziato. Mi ha pagato la prima bicicletta e tutto. Quando sono rientrato dal militare, c’era un posto libero alla Peugeot…». 

- Con Maurice de Muer direttore sportivo? 

«Sì, con Maurice. E sono andato. Ho fatto due giorni a montare delle ruote, due biciclette, ci e là, [“qua e là” nel suo intercalare in francese, nda] e mi ha detto: bon, okay, ti prendo. E così sono entrato alla Peugeot: inverno ’80. Trent’otto anni fa. E lì ho incontrato Stefano Roche». 

- Roche era venuto in Francia nel febbraio dell’80. 

«Sì. Alla ACBB. Però tra i professionisti è arrivato a inizio ’81. 

- Tre settimane dopo, ha vinto la Parigi-Nizza. Ancora oggi è il più giovane vincitore di sempre. 

«Sì, ma prima, in febbraio, ha vinto il Tour de Corse [il Giro di Corsica, davanti a Michel Laurent e a Bernard Hinault, nda]. Ha vinto bene. C’erano Bernard Hinault, Gilbert Duclos-Lassalle, Jacques Bossis [gli ultimi due compagni di Roche nella Peugeot, nda], tutti buoni corridori, no? E subito dopo ha vinto la Parigi-Nizza. Abbiamo visto subito che era un bel corridore. E la vita è così, lui che non parlava bene il francese, io ero là, giovane. In squadra c’erano anche Jean-René Bernaudeau, Bernard Bourreau, Michel Laurent, Phil Anderson, Robert Millar, Graham Jones. Tutti buoni corridori». 

- L’australiano Anderson, l’inglese Jones, lo scozzese Millar e l’irlandese Roche: tutti membri della famosa “Legione straniera” di corridori anglofoni della ACBB. 

«Sì-sì-sì. Ed io ero là con Stefano…». 

- Il giovane Stephen ancora un po’ rotondetto, con quelle guance belle pienotte… 

«Sì-sì…» [sorride, nda] 


- Tutti e due giovani e inesperti... 

«Sì, giovani. E siamo diventati amici, così. Quasi tutto il primo anno ho fatto tutte le corse con Stefano. E un giorno mi dice: “Ehi, la mia bicicletta la fai tu, eh. Voglio che la fai tu”. Ho fatto tre anni alla Peugeot con lui. Poi, nell’84, de Muer è partito alla La Redoute con Stefano e con me. Per me andava bene perché la Peugeot era a Parigi e la La Redoute era qui, a Roubaix, vicino a casa mia. Ho detto: okay, vengo. Ci siamo ritrovati tutti e due alla La Redoute con de Muer il primo anno, con Raphaël Géminiani il secondo anno». 

- “Gém”, detto Le Grand Fusil perché amava spararle grosse… 

«Sì, Le Grand Fusil… [sorride, nda] Nell’84 Alain Bondue ha fatto terzo alla Parigi-Roubaix [dietro Sean Kelly e Rudy Rogiers, nda]. Era una bella squadra: Jean-Luc Vandenbroucke, Ferdi Van Den Haute, Etienne De Wilde, Stefano, Bondue… Stefano ha fatto terzo al Tour, nell’85. E quando ha fatto terzo al Tour, è venuto a vederlo Boifava. E allora, Carrera: sì, però per noi era difficile, no? Perché io sono francese, lui irlandese, in Italia c’erano pochi stranieri in quel momento là, nell’85. Pochi stranieri. Sì, svizzeri, però francesi no, mai, mai, mai. Cosa facciamo? Andiamo o non andiamo? Era una bella squadra, allora: Visentini, Bontempi, Leali, Mächler, Zimmermann, Breu. Okay, andiamo». 

- Il contratto era buono? Perché tu andavi a prendere meno, vero? 

«Sì. Però il contratto non era la cosa più importante, perché abbiamo capito, nel 1985, che com’era arrivato terzo al Tour, [Roche] poteva vincere il Tour. Però, per vincere il Tour, devi avere la squadra forte, no? E in Italia la Carrera era...». 

- …intanto era una delle pochissime squadre italiane ad andarci, al Tour. Anche perché, per partecipare, bisognava sborsare cento milioni di lire. 

«Eh, lo so. Lo so. E allora con questa squadra abbiamo detto: oh, vincere il Tour è possibile. È possibile. Allora non abbiamo cercato di trovare un contratto pagato milioni e milioni. Abbiamo cercato una Squadra». 

- E perché non in Francia? Le grandi squadre francesi non sono venute a cercarvi? Penso per esempio alla Renault di Cyrille Guimard. 

«No, perché Guimard aveva Laurent Fignon, Charly Mottet, Marc Madiot. Aveva una squadra, aveva la sua squadra. E in Francia c’erano Guimard [alla Renault] e Roger [Legeay, alla Peugeot, nda]. Guimard aveva la squadra e Roger aveva la squadra. Allora abbiamo detto: andiamo». 

- Arrivate in Italia e nessuno di voi due parla italiano. È vero che l’ambiente era «un inferno»? Parole tue, virgolettate, di trent’anni fa, eh… 

«Per Stefano era più comodo perché lui parlava inglese; l’inglese con Mächler, con Zimmermann. Per lui andava bene. Per me, francese, era un po’ più dura. Però, di più, nell’86 Stefano ha male a un ginocchio e non corre molto». 

- Era caduto alla Sei Giorni di Parigi, novembre ’85. 

«Sì, sì. Ed io sono là da solo un po’, è ancora più difficile, no? Perché sei da solo, non parli bene italiano, il tuo corridore non…». 

- È vero che ti sei messo a studiare l’italiano con le audiocassette da solo, e capivi quando in squadra parlavano male di Roche? 

«Sì, sì. Chi te l’ha detto?». 

- Eh… 

«Eh… No, ma è vero, eh. È vero». 

- Tu piano piano imparavi le parole in italiano e capivi che dicevano: [Roche] è un fantasma, lo pagano come un capitano e non c’è mai. 

«Eh sì… Eh sì. Era ancora più dura, per me. Perché sei da solo. Sai che puoi andare in Francia con tutte le squadre e [invece] sei là in Italia con una bella squadra e il tuo corridore non c’è…». 

- In squadra c’erano tanti bresciani, e quindi tra loro facevano un po’ un clan. Tu eri straniero e magari verso gli stranieri c’erano pregiudizi… 

«Eeehhh. A dire la verità, con il personale, con i massaggiatori…». 

- Con i massaggiatori, Silvano Davo ed Enzo Verzeletti, andavi d’accordo? 

«Sì, sì. Anche con [Frank [Boifava], Gibì [il factotum Giambattista Portesi, nda], Luciano Bracchi. Sono buone persone. Però i corridori ti dicono, parlano. E parlano fra loro: eh, Roche prende un sacco di soldi, noi siamo là e lui è a casa. È difficile. È difficile…». 

- C’era quindi anche un po’ d’invidia, di gelosia? 

«Sììì, è normale. È “giusto”, no? Perché lui è arrivato terzo al Tour, firma un bel contratto…». 

- Ricordi le cifre? Lasciata la Carrera, alla Fagor prendeva un miliardo e duecento milioni di lire, vero? 

«Un miliardo». 

- Te l’ho chiesto per capire quanta differenza c’era tra il suo ingaggio e quelli dei suoi compagni. 

«Non c’era l’euro. In franchi francesi no, non ricordo. Veramente, sto cercando di ricordare... In più erano in lire, ora non mi ricordo più… Diciamo che, se alla Fagor prendeva un miliardo, alla Carrera [non prendeva] neanche la metà. Neanche…». 

- E quindi sotto i cinquecento milioni di lire? 

«Neanche… Però quando è arrivato alla Fagor aveva vinto il Giro, il Tour e il campionato del mondo. È un’altra situazione, no? Boifava però è stato molto corretto con i premi-vittoria. È normale, per il Tour, per il Giro: ha pagato tutto. 

- Quell’anno avete vinto pure la Sanremo, con Erich Mächler: una super stagione. 

«Sì. E anche il campionato nazionale». 

- Sì, con Bruno Leali a Lissone. Ti ricordi? [Gli mostro Bicisport del luglio 1987, con in copertina la foto di Leali, seduto sull’erba, in maglia tricolore con accanto la coppa, nda] 

«Sì, sì. Una bella squadra…». 

- Arriviamo all’86. Anno difficile e senza vittorie per Roche, che, frenato dai problemi fisici, corre pochissimo. Al Giro, vinto da Visentini, si ritira alla penultima tappa. Al Tour chiude 45°. Per curargli quel ginocchio andate a Monaco di Baviera dal dottor Hans-Wilhelm Müller-Wohlfahrt, storico medico anche del Bayern Monaco [dal 1977 al 2015, fino alla clamorosa rottura con Pep Guardiola, nda], e finalmente capite che cos’ha… 

«Era là con Müller [lo pronuncia alla francese, Miulèr, nda]. Andiamo là in Germania, c’erano Roche, [e i tennisti] Boris Becker e Yannick Noah. Müller capisce il problema. E ho avuto la mia parte di responsabilità con Boifava per spiegarli bene il problema di Stefano: che non era fantasia, che aveva il problema al ginocchio e che Müller aveva trovato». 

- I due medici italiani che lo avevano (mal) curato gli avevano detto che forse avrebbe addirittura dovuto smettere di correre… 

«Abbiamo fatto di tutto. Un inverno di lavoro. Lavoro fisico e “di testa”. Abbiamo fatto di tutto per dimostrare, a tutti i corridori della Carrera, che l’anno ’86 non era stato “di vacanze”, no? E l’abbiamo fatto così per fare bene, no? Per fare bene. E dopo, l’87, per noi, per Stefano e per me, non è stato un “miracolo”, no? Perché abbiamo lavorato per quello. Io mi ricordo, a casa mia, a casa sua, due volte la settimana: andavo a guidare il motorino, per fargli fare tre, quattro, cinque ore dietro motorino». 

- È vero che dopo, a sessione finita, faceva sempre un allenamento-extra? 

«Sì, sempre. Perché lui, già, “la vita”… Come si dice? Mangia troppo, no? A lui piacciono i gelati, la pasta… Gli piace tutto. E mangia, mangia, mangia, mangia… E se non vai a “lavorare”, prendi i chili, no?». [ride, nda] 

- Arriviamo all’87: pronti-via e lui, il 22 febbraio, vince la Volta Valenciana. 

«Subito, in febbraio, all’inizio della stagione, perché al momento là non andavi in Oman, in Argentina o a Dubai. No: l’inizio della stagione era il venti-venticinque di febbraio. Sì, sì: ha vinto subito. Ha fatto vedere che aveva lavorato». 

- Alla Parigi-Nizza fu sfortunato, forò nel finale e Kelly lo attaccò, chiamando a raccolta i suoi e tessendo alleanze nel gruppo. E poi buttò via la Liegi, facendosi beffare – con Claude Criquielion – dal rientro di Moreno Argentin… 

«Immagini… Meglio così, però. È stato meglio così. Quando non vinci troppo, all’inizio... Perché, immagini, se vinci Volta Valenciana, Parigi-Nizza…». 

- Poi però ha vinto il Romandia. 

«Sì, però, se prima vinci la Parigi-Nizza, dopo puoi dire: sono tranquillo, ho già vinto bene, ho fatto abbastanza e…». 

- E invece così aveva ancora fame? 

«Sì-sì-sì. E prima aveva vinto, dopo però c’era il contratto che a fine stagione scadeva». 

- Anche il tuo? 

«Sì. E sì, eh. [altro suo intercalare, nda] E allora penso che Boifava là ha sbagliato, perché doveva farlo firmare subito, alla fine del Giro. Subito alla fine del Giro». 

- Stephen però subito non voleva firmare, perché lui trattava anche con la Fagor. 

«No: abbiamo trattato con la Fagor dopo. Dopo. Te lo dico io. Eh sì, dopo il Giro e prima del Tour. Se Boifava lo faceva firmare, e diceva: oh, Visentini fa il Giro e l’anno prossimo Roche fa il Tour, penso che…». 

- E Stephen sarebbe rimasto alla Carrera dopo tutto ciò che era successo da Sappada in poi? 

«Sì». 

- Sì? 

«Sì!». 

- Ancora quei due galli nello stesso pollaio? 

«Sì! Uno per il Giro, uno per il Tour. Stefano non veniva al Giro, Visentini non andava al Tour. Fai due squadre». 

- A Sappada però c’era stata la guerra. 

«E sì, eh. E sì, eh. E sì, eh». 

- È vero che a Stephen tu, sporgendoti dal finestrino dell’ammiraglia, hai detto: “Se sei un uomo, devi tirare fuori i coglioni”? 

«Bon. Ho detto così: se hai i coglioni, devi farli vedere in questo momento». 

- In che lingua gliel’hai detto? In francese? 

«In francese: si vous avez les couilles, c’est le moment de les montrer». 

- L’attacco di Sappada l’avevate preparato prima? O è nato in corsa, quando Roche è andato dietro a Bagot? 

«No, prima no». 

- Non era preparato? Roche e Schepers non l’avevano preparato in camera, uno o due giorni prima? 

«No, non è così. Roche è uno che vuole sempre stare davanti. Sempre davanti. Non lo vedi mai...». 

- Sempre nella pancia del gruppo. Molto intelligente. 

«Sempre avanti. Molto intelligente». 

- Limava anche le lime, come si dice in gergo… 

«Eh sì. Eh sì. Eh sì. No, è partito così. Dopo, durante la tappa, ha provato, no? Non c’era anche Pedro Muñoz?». 

- In fuga c’era Ennio Salvador, che con Visentini ce l’aveva dal campionato italiano dell’anno prima. E sì, c’era anche Muñoz. 

«C’era anche Muñoz, sì-sì. Ho parlato con Muñoz. Visentini era troppo nervoso. Doveva lasciare che il compagno [Roche, nda]... Lascia fare. Dietro uno della Carrera, tu fai tirare i corridori della Carrera?!». 

- E Boifava perché li ha fatti tirare? Era andato nel panico anche lui? 

«Sììì. Sì! Tutti! Eh-eh-eh-eeehhh! In più Visentini aveva parlato: eh-eh-eeehhh. È lui che era troppo nervoso, Visentini. E Boifava e Quintarelli hanno avuto paura di Visentini». 

- Tu eri in ammiraglia con il vice di Boifava, Sandro Quintarelli? 

«Con Quintarelli». 

- E quindi con quella davanti? 

«Sì, però sentivo, perché avevamo la radio. E dal momento che capisco un po’ l’italiano, capisco le parole di Boifava a Quintarelli, quando Quintarelli andava a vedere Stefano, io con Stefano parlavo in francese…». [ride, nda] 

- Per questo tu eri diventato “il diavolo”, Schepers “il ribelle” e Roche “Giuda”? 

«Mi ricordo che la Gazzetta dello Sport aveva scritto: “Valcke il traditore”. E sì, eh. Però…». 

- Tu ti senti traditore? 

«No. No! No, perché in quel momento là sei alla Carrera, con Roche davanti e fanno tirare la squadra… Se non fanno tirare la squadra, al limite puoi dire a Roche: oh, tranquillo, lascia tirare Muñoz e gli altri, no? Però…». 

- …stai a ruota. 

«A ruota. Però, se fai tirare la squadra… A quel punto è la trahison, il tradimento. È questo il tradimento. È quando fai tirare la squadra sui tuoi corridori. Allora, al momento là. Tranquillo! Ah, vogliono giocare? Allora giochiamo… [mentre lo dice sfoggia un ghigno sardonico, nda] E alla fine vediamo, tra Visentini e Roche, chi è più forte. Eh!». 

- All’inizio del Giro c’era una gerarchia, Visentini capitano e Roche al suo servizio? 

«Sì». 

- E quindi era nei patti? E allora, secondo te, quello non è stato un tradimento? 

«Perché? Allora, un giorno, all’inizio del Giro, Boifava dice: oh, Visentini e Roche, tutto a posto. Però un giorno, a tavola, Stefano dice a Roberto: Oh, Roberto, non c’è problema, eh; io lavoro per te al Giro, tu però vieni al Tour a lavorare per me. E Visentini in quel momento là non è molto intelligente perché a Roche dice: durante il Tour io sono al mar [al mare, in francese, nda]…». 

- Non l’aveva detto in un’intervista in tv? L’ha scritto Roche nella sua autobiografia. 

«A tavola l’ha detto. Sicuro». 

- Intendi a cena in albergo prima del Giro? 

«No-no-no: durante il Giro». 

- E tu l’hai sentito? 

«Sì-sì-sì. E allora Stefano mi dice: Oh, ma lui è suonato. Io devo lavorare per lui al Giro e lui va al mar durante il Tour?! Non è possibile». 

- La sera a Sappada, in albergo, che cosa è successo? L’arrivo dei Tacchella, l’elicottero che non ha il permesso di atterrare in zona... 

«Io mi ricordo che ero in albergo, però nel garage, con Bracchi, Frank [Boifava], Gibì… Loro avevano già cominciato a preparare per la tappa del giorno dopo e subito mi dicono: Ehi, Patrick, non è bello quello che hai fatto, no? Oh, ragazzi, questo è un mio problema. Siamo qui per lavorare, per vincere il Giro. Capisco che voi siete italiani e preferite che sia Roberto che vince, no? Però… E così, no? E due ore dopo arrivano i fratelli Tacchella, in elicottero. E sento che hanno parlato. È possibile che ritorno a casa, no? Sono loro che pagano, no? Se mi dicono…». 

- Davvero avevi paura che ti mandassero a casa? 

«Sì, avevo paura di ritornare a casa e di lasciare Stefano con solo Schepers». 

- Non avesse preso la maglia rosa, e per soli cinque secondi su Rominger, i Tacchella avrebbero potuto mandare a casa anche Stephen? 

«All’inizio, sì. Dopo, ho capito che Stefano sarebbe potuto rimanere, mentre io sarei ritornare a casa…». 

- Perché davano la colpa a te? Perché tu lo avevi istigato? 

«Eh sì… Perché se io avessi detto a Stefano: Oh, Stefano, fermati, aspetta la squadra, lui lo faceva, no?». [sorride, nda] 

- Stephen perché ti ascoltava così tanto? Perché si fidava di te a tal punto? 

«Perché, penso, aveva capito che io ho dato un parte della mia vita per lui, no? Ogni giorno, 24 ore su 24, poteva chiamarmi…». 

- Torniamo alla sera di Sappada. Sono arrivati i Tacchella e avevi paura che vi mandassero a casa… 

«Sono stati intelligenti perché hanno capito che dire a Roche ritorni a casa quando hai la possibilità di vincere il Giro, è stupido. Allora siamo rimasti là. Però con delle condizioni…». 

- È vera la battuta che girava in gruppo, ne ha scritto anche Nicolas Roche nella sua autobiografia: cos’ha mangiato Roche stamattina? Pancakes, le frittelle: perché gliele passano sotto la porta… Avevate paura che vi avvelenassero il cibo, che vi sabotassero la bici? O solo tu toccavi la bici di Roche? 

«Sì, però facevo la sua bici, e basta. Il suo materiale. Bici da crono, bici per la montagna». 

- È vero che la sera la bici di Roche te la portavi in camera? 

«Sì. È vero. Per le crono, mi ricordo, abbiamo lasciato la bici da crono là con la squadra… Facevo la bici di Roche e quella di Schepers. Per me il più difficile non era con… Era difficile con la squadra, però era molto difficile con il pubblico…». 

- Avevate paura? 

«Ah sì. Sì…». 

- È vero che i tifosi gli sputavano addosso. E che qualcuno lo colpì con un pugno? 

«Io ho visto anche della gente che aveva la carne… E sì, eh, quello l’ho visto…». 

- È vero che gli tiravano pezzi di carne come per dirgli: ti facciamo a pezzi… 

«Sì-sì-sì». 

- E gli sputavano vino rosso e riso? Erano tifosi di Visentini? 

«Non lo so, però era… Abbiamo avuto paura, sì. Se in testa non hai la sicurezza di dire: vinciamo questo Giro, perché adesso, se non lo vinciamo, siamo morti, no? È tutto il mondo… Cosa dicono i giornalisti, i corridori, che Roche è un traditore… E va fino alla fine, no? Fino alla fine. È dura. È dura, però…». 

- E dopo è cambiato tutto. Andate al Tour e lo vincete. La squadra era persino più forte di quella che aveva appena vinto il Giro. 

«Dopo il Giro, ritorniamo a casa, con Schepers. E là spiego bene a Stefano che è bello, abbiamo vinto il Giro, però la stagione non è finita. Perché se volgiamo una vittoria ancora più bella, perché il Tour è più bello, è più importante, no? Se vuoi avere la visibilità internazionale, mondiale, da tutti, devi fare il Tour à bloc [a tutta, nda]. Però è molto difficile quando hai vinto il Giro in queste condizioni di ritrovare la motivazione. E questo è il mio lavoro. Tre giorni, vacanze. Però non di più. Subito dopo [batte i palmi delle mani, nda] lavoro. Lavoro!» 

- È lì che, come dicevi, hai fatto molto più che il meccanico. Perché eri una specie di agente, di direttore sportivo, di psicologo… 

«Sì, però… è così, no? Oggi non puoi più fare una cosa così, perché le corse sono differenti, le squadre sono differenti. Però al momento là…». 

- Tu dopo diventi diesse alla Fagor: eri, o ti sentivi, pronto? Perché la Fagor era un po’ un casino. Si può dire così, no? 

«Eh sì, però nella mia testa lo facevo già alla Carrera». 

- Ma là c’erano Pierre Bazzo, gli spagnoli, era un po’ un problema… 

«Non spagnoli: baschi! È differente… Baschi!». [sorride, nda] 

- Perché è differente? Per l’orgoglio che hanno? 

«Sììì… Nell’88 c’era ancora molto l’Eta». 

- Ricordi quando hanno rapito Enrique Castro “Quini”, il centravanti del Barcellona? Nel 1974 con l’esplosivo avevano fatto saltare in aria l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, capo del governo e delfino di Francisco Franco. La sua Cinquecento, imbottita di tritolo, saltò in aria fino al secondo piano… 

«Eh, lo so. Lo so. Hanno fatto saltare due macchine, a noi. C’era differenza tra i baschi e gli altri spagnoli». 

- E per voi era un problema? In che senso? 

«Perché… Non so come dire…» 

- Per l’atmosfera? 

«La fabbrica Fagor era nei Paesi Baschi. Per me, come la mafia in Italia, a un certo momento devi… È differente…». 

- Si respira, la annusi nell’aria? 

«Sì». 

- Che cosa è successo poi? Problemi già dal ritiro, alla presentazione della squadra i corridori che si rifiutano di posare per la foto ufficiale… 

«Sì, perché io avevo preso un manager, Philippe Crépel, che è di qui, vicino Roubaix, di Lille. Avevo preso Crépel e hanno firmato un contratto e quando siamo arrivati là, hanno detto: no-no-no. Paghiamo, però lui non lo prendiamo. Prendiamo un basco». 

- E la figura di Agustín Mondragon? 

«Mondragon era il patron. È uno che ha lavorato con la Vuelta. Eh no: abbiamo firmato un contratto…». 

- Tu eri il direttore sportivo e Crépel che cosa avrebbe dovuto fare? 

«Il manager. Però io avevo fiducia in lui». 

- Per i conti? 

«Per tutto. Per gli alberghi, per l’organizzazione. E là ti dicono: no-no-no, paghiamo però lo lasciamo a casa». 

- Perché volevano un uomo loro? Perché altrimenti ti saresti ritrovato con troppo potere? 

«Sì. Eh sì, eh. Eh sì, eh. E allora, subito, dall’inizio, ci sono stati problemi. Anche i corridori avevano fiducia in Crépel». 

- E così ve ne siete andati? 

«Dopo due anni. Due anni alla Fagor, due anni alla Histor. Roche però cominciava a declinare». 

- Te lo chiedo senza mezzi termini. Quella era l’epoca di passaggio dal doping, diciamo così, “tradizionale” a quello del sangue. Che cosa succedeva in quegli anni lì? 

«Per me è difficile dire così, però io ho detto a Stefano: dopo la Histor firmiamo l’ultimo contratto. Abbiamo firmato con la Tonton Tapis però è successa una cosa con Lydia. Mi ha parlato male una sera a casa mia. Mi ha parlato male perché io dicevo: Oh, Stefano, è finita, no? Per me, andare alla Tonton Tapis non è… Non è serio, no? Sì, andiamo e ci e là… E lei mi fa: Patrick, devi essere contento di andare con Stefano perché così prendi anche tu i soldi. Oh, okay, però io devo poter guardare… guardarmi…». 

- …allo specchio? 

«Giusto. E con questo contratto, non mi va bene, no? “Eeehhh, parli così, però anche te sei interessato…”. Ah, sono interessato? Allora ti faccio vedere che io… anch’io ho i coglioni. Perché io alla Tonton Tapis non vado. Non vado. Vai te. Vai te, Lydia. Con Stefano. Io non vado. Perché Stefano, per me, è finito. E il mio posto l’ha preso Roger De Vlaeminck, però…» 

- Gran corridore, non proprio un grande direttore sportivo… 

«Ha preso il mio posto». [ridiamo, nda] 

- Che cosa non andava in quel contratto lì, cos’è che non ti piaceva? 

«Non era il contratto…». 

- Era l’ambiente? 

«No-no-no. Con la Tonton Tapis è che Lydia mi ha detto devi essere contento di andare alla Tonton Tapis…». 

- E per quello non sei andato? Per orgoglio? 

«Eh sì. Ho detto: io di soldi non ho bisogno. Posso lavorare. Posso fare altre cose. Senza Stefano, no? Non ho bisogno di essere là. Se penso che al Tour…». 

- Mi stai dicendo che era più Stefano ad avere bisogno di te che tu di lui? 

«Cinquanta e cinquanta, okay? Al Tour, quando Stefano è arrivato, se ricordi bene, è andato a cagare, prima della crono a squadre, la prima tappa, è rimasto mezz’ora a cagare, ha lasciato la sua squadra partire. È partito dieci minuti dopo, è arrivato fuori tempo massimo. Prima tappa. Finito. A casa. Ti ricordi o no?». 

- Guarda caso… 

«E dopo è ritornato con Boifava. Però per me è impossibile che lo Stefano che ho conosciuto alla fine è diventato il “nuovo” Stefano che vince a La Bourboule, al Tour, senza…». 

- Senza “aiuti”? 

«Per me è difficile parlare così, però… Però, se fai venire qualcuno per dire la verità, se non dici la verità… Le cose non si può… Non può essere sempre il mondo magnifico. No. Lo Stefano che ho conosciuto alla fine era…». 

- …diverso, un “altro” Stefano? E del professor Conconi che cosa pensi? 

«Non penso niente perché con lui non ho lavorato». 

- E al calcio e al giornalismo come ci sei arrivato? Tramite il tuo amico? 

«Perché mia moglie è stata malata. Abbiamo avuto molti problemi». 

- Di tumore? Quel tuo amico è un medico? 

«No, no. Però io volevo rimanere con mia moglie. Non volevo più girare duecento giorni l’anno. Ho detto: però la mia vita è lo sport, no? Ero amico con il presidente del Lens, e mi fa: Oh, vieni con me, ho bisogno di uno come te; vieni, vieni. Lo stadio per l’allenamento e gli uffici sono a dieci minuti da casa mia. Ho detto: okay. Dieci minuti da casa mia. Ero tutti i giorni con mia moglie». 

- Che anni erano? 

«Dopo, al Lens, 2005, fino all’anno scorso [2017, nda]». 

- E prima? Dal ciclismo al Lens come ci sei arrivato? 

«Ho fatto il consultant [opinionista, nda] per Radio France». 

- Per il ciclismo? 

«Sì, per il ciclismo. Facevo tutte le Parigi-Roubaix, la Liegi, però un giorno e a casa. Solo per il Tour stavo via di più, e mia moglie veniva due volte. In otto anni mia moglie ha subìto sedici operazioni: due l’anno. E adesso…». 

- …sta bene? 

«Sì. Per quello ho lasciato il ciclismo. Volevo rimanere con lei. È la vita, così. Un giorno hai la fortuna, un giorno non ce l’hai. E allora…». 

- E allora il “Diavolo”, il Diavolo Valcke, non è così cattivo come lo avevano dipinto? 

«No. No, no… In più, ho due figli. Uno è magistrato, qui vicino, e l’altro è ingegnere». 

- Uno s’è sposato da poco… 

«Sì, ma come fai a saperlo?». 

- Ho visto sui social le foto del matrimonio. 

«Ah sì, eh? Dopo il ciclismo, consultant. Dopo consultant, calcio. E allora ho conosciuto Jean-Pierre Papin, a Lens, quando era allenatore lì [2007-2008, in Ligue 1, nda]. È un po’ la stessa storia con Stefano, con Papin. Perché quando è partito, mi ha detto: Oh, Patrick, io non ho mai avuto un manager. Ti lascio il mio nome, gratis. E tu fai il lavoro per me». 

- E questa fiducia com’è nata? Perché? Così, d’istinto, perché si fidava di te? 

«Così, sì. Lui sa che io sono organizzato. Se io ti dico che arrivo alle undici e mezza, arrivo per le undici e mezza. Se ti dico abbiamo una possibilità [di vederci] il 27 ottobre, poi non ti chiamo per dirti: eh, no… No: io lavoro così». 

- Non ti ho ancora chiesto di Robert Millar. Il Giro lo avete vinto anche grazie a lui. Più che per Erik Breukink, suo capitano alla Panasonic, Millar correva per Roche… 

«Eh sì. Con Robert avevo lavorato alla Peugeot. Ci conosciamo da… Adesso non è più Robert Millar, eh…». [sorride, e lo pronuncia alla francese: Robèr Milàr, nda] 

- Lo so, è Philippa York. 

«Philippa York. Però per me non c’è problema con questo, no?». 

- Per il suo libro In Search of Robert Millar l’autore, Richard Moore, è venuto a intervistarti. 

«È venuto a Lens. Roberto è [stato] un buon compagno». 

- Altro caratterino… Forse è anche per quello che ti ci sei trovato bene. 

«Be’, sì. Io non ho mai avuto neanche un problema con Robert Millar. E allora, quando ci siamo trovati là, al Giro, eh, Roberto, bum-bum… E dopo è partito... Era alla Panasonic, dopo è andato alla TVM». 

- No, prima è venuto con voi alla Fagor, poi alla Z-Peugeot. 

«Con noi alla Fagor, giusto. E dopo [due anni alla Z-Peugeot] è partito alla TVM e poi l’ho preso ancora, a Le Groupement nel ’95». 

- Lì però è andata male, perché i corridori francesi lo avevano isolato, per non dire boicottato… 

«Sì, però Roberto è così. Però è un buon ragazzo. “Ragazzo”…». [ride, nda] 

- Di Roberto Visentini invece che cosa mi racconti? Trent’anni fa, nei suoi confronti di hai speso parole piuttosto dure… Le ho qui: te le ho portate [gli mostro dei Bicisport dell’epoca, nda]. 

«Trent’anni fa. Adesso la vita è così, no? Perché…». 

- Non l’hai più incontrato? 

«No, però non c’è problema. Se lo vedo…». 

- Lui invece con Roche problemi ne ha ancora… 

«Ah sì, ancora? Allora, vuoi che ti dico?». 

- Sì, certo. Son venuto fin qui apposta. 

«Perché lui non è intelligente. È perché non è intelligente. Perché la vita è così: un giorno bene, un giorno male. È lui che ha preso l’iniziativa. All’inizio. Perché se non dice: io durante il Tour vado al mar…». 

- È vero che il giorno dopo, in corsa, con la bici ha tentato di buttare giù Schepers? 

«Sì, è vero». 

- Multa della giuria: tre milioni di lire… 

«Eh, lo so. Lo so». 

- L’ha buttato giù davvero o ci ha soltanto provato, senza riuscirci? 

«Ha provato». 

- E non c’è riuscito? 

«No. Ha provato». 

- Tu all’epoca dicesti: «Giuro sui miei figli che se Roberto fosse andato al Tour, Stefano avrebbe aiutato Visentini a vincere il Giro». 

«Sì! Sì, e te lo dico ancora. Lo dirò sempre, ma sicuro. Sicuro. E in più non è stato intelligente perché, se non lo dice, può [anche] farlo…». 

- È che non doveva dirlo. È stato ingenuo… 

«Capisci? Se lui non dice niente, Stefano fa il Giro per lui e lui dopo dice no a Stefano, a Boifava: oh, Davide, non mi sento di fare il Tour, e ci e là… O allora fa una “caduta” a casa sua… O non lo so, rimane in Italia. E la vita è la stessa. È lui che…». 

- Secondo te il vero Visentini è finito lì, a Sappada? È finito "per" Sappada o con la testa aveva già mollato? 

«Sappada è il trenta per cento. Non è tutto, è il trenta per cento». 

- Stefano invece quand’è che ha mollato? Quando ha “smesso”, di fatto, prima ancora di ritirarsi ufficialmente? Alla Fagor? 

«No. Stefano non aveva il motore di una Ferrari. Aveva classe in bicicletta, aveva l’intelligenza, però non aveva il motore di un Fignon, di un Hinault. Era fatto per fare quello che ha fatto. Per me, alla Histor. Dopo la Histor, era finito». 

- Mi fai un confronto tra i due corridori. La classe, il talento, l’avevano tutti e due. 

«Avevano classe tutti e due. Stefano era molto più intelligente in corsa. Perché la fuga senza Roche non era “possibile”; una fuga senza Visentini, sì». 

- Visentini stava solo a destra o a sinistra, e sempre al vento. 

«Sempre. Roche poteva vincere Liegi-Bastogne-Liegi, al limite [forse anche] la Parigi-Roubaix, perché l’ha vinta con i dilettanti. Poteva vincere Parigi-Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi, l’Amstel. Poteva vincere tutte le gare… Visentini una classica come la Parigi-Roubaix, col pavé, no…». 

- Roche con una battuta cattivella diceva che Visentini appena vedeva il cartello “Chiasso”, si perdeva… 

«Eh sì, eh sì, eh sì. Eh, sono le differenze… In più penso che Roche poteva prepararsi per il giorno là, il giorno “x”: era capace…». 

- Che ricordo hai dell’Italia dopo tutti questi anni? Bello o brutto? 

«Molto bello». 

- Nonostante tutto quello che è successo? 

«Sì. Perché al momento là, è difficile. Dopo, però, mi dico: Oh, se Stefano non avesse vinto il Giro, per noi era finita, la vita. La vita bella, no? Finita. No, no: è bello». 

- Se tornassi indietro invece? Che cosa rifaresti? O non rifaresti? Qualche sbaglio, qualche errore lo avrete commesso anche voi, no? 

«Molti». 

- Per esempio? Anche se capisco che quando sei lì, sei lì e col senno del poi è facile… 

«Fino alla fine della Carrera, non tanto. Non tanto... Dopo, sì. Perché quando hai un corridore che va in declino, fai degli errori. Perché tu vai a dire: allez, allez! Encore, encore… E dietro di te ti fa delle cose che non deve fare, no?». 

- È vero che hai fatto due giorni di prigione in Italia? Perché avevi aggredito un poliziotto… 

«Sì. La corsa era la Nizza-Alassio. Alla fine Roche arriva secondo, ’81 o ’82 o ’83 non mi ricordo più, alla Peugeot [in realtà l’unico podio di Roche in quella corsa fu quando la vinse, nel 1984, nda]. E c’è la polizia che mi dice: ehi, la macchina devi parcheggiarla là. Dico: no, aspetta due minuti che la corsa è finita, prendo le biciclette e andiamo via. Okay, okay, okay…». 

- Era un poliziotto italiano? 

«Sì, sì. Però io non parlavo l’italiano. “Passeport!” Okay, passeport. E dopo, quando tutto è finito, faccio: “Oh, il mio passeport. Devo andare, adesso…”. No, no, no: adesso aspetti. Tu mi hai fatto aspettare, allora adesso aspetti tu». 

- Per ripicca, per vendicarsi? 

«Sì. “Oh, devo andare, dammi il mio passeport”. No-no-no, e mi fa così [mima col dito un gesto di diniego, nda]. Lui aveva gli occhiali di sole… Pam!». 

- Gli hai tirato un pugno? 

«Sì. Pam! Sul naso. Un casino… Non è [stato] molto intelligente, no?» 

- No, direi di no. Tu avevi un caratterino che saltavi su subito? 

«Eh sì, avevo ventitré anni, non so e… Bam-bam-bam!». 

- E ti hanno arrestato? 

«E sì, eh. Mi hanno portato prima al commissariato e dopo sono partito in prigione, vicino a Alassio». 

- Con Roche e Schepers sei rimasto in buoni rapporti? Li vedi ancora? 

«Roche, no». 

- Avete litigato? 

«No, no-no-no, però non ha più niente…». 

- Di soldi, dici? Che cosa gli è successo? Il divorzio? Investimenti sbagliati? L’albergo? 

«No, no, l’albergo andava bene. Adesso abita in Ungheria». 

- Sul lago Balaton? In agosto mi ha scritto che era là in vacanza. 

«Non lo so. Ha conosciuto una ragazza là [Sheila, nda]. Ha preso soldi per investire. Non so come va a finire. A un momento, se viene trovarmi, parli del lavoro e gli chiedi: com’è la tua vita com’è adesso? “Non ho più niente”». 

- Fatti privati, e come tali restano off record. Sei andato alla festa della Carrera per il trentennale? 

«No». 

- Ti avevano invitato? 

«Sì, però…». 

- Perché non sei andato? 

«Perché avevo il problema di mia moglie. E me l’hanno detto troppo tardi, non potevo…». 

- Sennò saresti andato? 

«Sììì. Eh sì. Mi farebbe piacere ritrovare Boifava e Quintarelli. Ho ritrovato Chiappucci un mese fa alla corsa là [Grand Prix d’Isbergues, il 23 settembre 2018, Chiappucci era l’ospite d’onore, nda]. Abbiamo bevuto una bottiglia di champagne. No-no-no: è molto bello, no?». 

- E quali sono i corridori con i quali sei rimasto più legato? Non per forza campioni, magari anche gregari… 

«Ancora adesso?». 

- Sì. 

«Ho visto Bossis quindici giorni fa. Alain Bondue sarà qui nel pomeriggio. Duclos-Lassalle. Bernaudeau l’ho visto quindici giorni fa. Tanti corridori…». 

- Stephen no, però… 

«Eh no, eh no. L’ultima volta che mi ha chiamato, dieci mesi fa». 

- Per quello che ci siamo detti off record

«Sì, [l’SMS] ce l’ho ancora. Dieci mesi fa». 

- E invece il campione più forte che hai visto? 

«Bernard Hinault». 

- E Fignon, subito sotto? 

«Sì». 


È ora di salutarci. Patrick completa la messa a punto della bici, e inizia a sentire le farfalle nello stomaco ben prima di cominciare il riscaldamento. Nel congedarci mi presenta i compagni di squadra: «David Laleu è prima categoria, ha quarant’anni [in realtà 45, è del ’73, nda]. Io sono le maillon faible [l’anello debole]… Però hanno bisogno di me. Ci sono tre categorie: la prima, meno di 120 anni; seconda categoria, più di 120 anni. Allora con me, 60 anni, sono tranquilli… La terza categoria è mista, con una donna». 

Auguro in bocca al lupo a Patrick e compagni. Saluto la signora Pascale e per sdebitarmi della loro cortesia le porgo una bottiglia di vino delle mie parti. Patrick è già in pista, e chiedo a lei di consegnargliela per me a fine gara. Io mi metto alla guida in direzione Belgio, casa-Schepers. Ascoltato Le Petit Diable, tocca al Ribelle. Il viaggio continua… 


Da sinistra: Erik Rouze, Patrick Valcke e David Laleu.

Commenti

Post popolari in questo blog

PATRIZIA, OTTO ANNI, SEQUESTRATA

Allen "Skip" Wise - The greatest who never made it

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?