La versione di Buffa - Check Point Charlie

Storie di Dionigi e Paola, genitori attenti, di una Milano post-bombardamenti bellici, di spettacoli proibiti, di rientri notturni sotto la neve, di uno slavo rottamatore, di un primo trionfo multietnico, dell’utilità dei fustini di detersivo, di tempeste azteche. E di una curiosità che non muore mai

di Federico Buffa

Il signor Dionigi, bassobrianzolo di Paderno Dugnano, a casa lo vedono poco. L’Autosole, la grande dorsale che sta per attestare del neo-benessere italiano, la devono ancora inaugurare e quella Milano-Napoli sui camion della Gondrand, lungo le statali che ricalcano l’antica via francigena, non sembra finire mai. Sua moglie, la signora Paola, si sdoppia nel ruolo di madre di due figli e la guardiola d’una portineria. Il secondogenito, il piccolo Carlo, da quando si sono trasferiti all’Isola, il quartiere dietro la stazione di Porta Garibaldi a Milano, vive per le strade come tutti quelli nati negli anni 40. Lui, poi, le bombe alleate che hanno semidistrutto l’Isola non le ha mai sentite fischiare perché è nato nel settembre del '45, l’11 settembre per essere precisi. Quelli cresciuti sulle stesse strade dieci anni prima, ragazzi come il Fedele e il suo amico Silvio, le bombe le han sentite fischiare eccome, ma se la sono cavata in qualche modo e siccome di cognome fanno Confalonieri e Berlusconi, c’è caso che ne abbiate sentito parlare.
Dionigi ha deciso di portar la famiglia in via Paolo Sarpi che di case e corti da ricostruire ne ha ancora tante. Carlo, al seguito di Gino e Remo, monellacci più anziani di lui di qualche anno, si prende a sassate quasi tutti i pomeriggi con quelli che vengono in bande dai quartieri più a nord, in cerca di nuovi territori da controllare. Se si mette male, e succede spesso, loro sanno bene dietro quale cumulo di macerie si nasconda una via di fuga.

È da Fratel Brambilla, semmai, che non si scappa. Ce n’erano tanti come Fratel Brambilla in quell’Italia, neo-Repubblica costruita su lavoro (poco) e sulla solidarietà (tanta): laici infaticabili e inflessibili, che sembra di mestieri ne facciano almeno tre, ma che, chissà come, sono sempre disponibili. È l’anima del Pavoniano, centro giovanile cattolico della via Giusti, dove da un po’ di tempo è in gran voga il giuoco della pallacanestro, specie da quando vien giù spesso un rappresentante di detersivi, l’Arnaldo, che ne capisce parecchio di quello sport lì degli americani, che qualcuno tra qualche tempo vedrà al bar anche in televisione alle Olimpiadi di Roma del 1960, dove i nostri arriveranno addirittura in semifinale.

L’Arnaldo, che di cognome fa Taurisano, insegna a giocare. Fratel Brambilla vigila. Vigila che i ragazzi quando vanno al cinema Rosa (due film con un biglietto) vedano più che altro il primo, quello con Tarzan o i cowboy e tornino a casa quando inizia il secondo, quello con un po’ troppa epidermide femminile esposta.

Storie di Dionigi e Paola, genitori attenti, di una Milano post-bombardamenti bellici, di spettacoli proibiti, di rientri notturni sotto la neve, di uno slavo rottamatore, di un primo trionfo multietnico, dell’utilità dei fustini di detersivo, di tempeste azteche. E di una curiosità che non muore mai perché bisogna far finta che dalla cintola in giù non succeda niente. Carlo, Remo e Gino per la verità al secondo si fermavano più che volentieri, ma quando Fratel Brambilla li riportava a casa, mamma Paola e altre ringraziavano. “Oscar, va che quei tre son tosti, specie quel Remo là, che della palla sa bene cosa farne. Mi sa che per batterli hai bisogno di due più forti di noi”. Oscar Eleni, stellina della Canottieri Milano, è forte anche lui, ma il trio della via Paolo Sarpi arrivato col tram gioca a memoria e anche Carlo, il ragazzino, sarà anche magro come un indiano, ma non lo intimidisci facilmente. Vero. Infatti di tre contro tre ne perdono proprio pochi, tanto che l’Arnaldo ormai li fa regolarmente giocare 5 contro 5, le partite vere, e quei due signori che di partite non ne perdono una - il signor Maifredi e l’altro, il Tricerri, che la pallacanestro c’è l’han proprio a cuore - il loro nome lo han ben scritto sul loro notes. Si dice che li porteranno tutti i tre a Roma con la selezione lombarda. Il problema è che Carlo non gioca più da un po’ perché adesso papà gli ha trovato un posto alla Radio Marelli - che 27.000 lire al mese non si buttano via - e alle 5 dopo il lavoro va alle serali di ragioneria, che neanche un diploma lo si butta via. È persino ingrassato, non è più magro come un indiano, ma a giocare è sempre capace.

A Roma c’erano tutti quelli che contavano nella pallacanestro, compreso il Grand’Ammiraglio Cesare
Rubini. A lui Carlo, che giocava da playmaker, però diceva poco. Ordinato, questo sì, ma troppo piccolo, non uno da Olimpia. In panchina c’era un bolognese di nome Gianni Corsolini che invece era più che convinto che uno così alle giovanili della pallacanestro Cantù avrebbe fatto del gran comodo. Il cavalier Casella, gran mogol delle acque minerali Levissima che al Corsolini per farlo venire da Bologna gli aveva pure trovato l’impiego in azienda, di soldi per il vivaio canturino ne spendeva volentieri. Meglio crearseli da soli i giocatori quando si può, diceva il Sciur Aldo, che i fondi per andare a comprare i Riminucci non c’erano. Remo intanto se lo son portato a casa quelli di Vigevano e il Gino resta invece a Milano con Sales alla Ramazzotti.

“Tutti, li ho chiamati tutti: polizia, carabinieri anche il parroco. Madonna, Carlo, credevo fossi morto”. Smoccolava la signora Paola e ne aveva donde. Fradicio e alle 4 del mattino, suo fi glio Carlo era appena tornato a casa. È che aveva nevicato come nevicava una volta e la corriera era arrancata in ritardo sino a Monza e l’ultima coincidenza col treno per Porta Garibaldi era saltata.

Tre volte la settimana c’era allenamento e tra treni e pullman a Cantù ci si arrivava anche, era tornare semmai il problema. Dalla stazione di Monza alla via Paolo Sarpi facevano e fanno 13 chilometri sotto il rumore appena percettibile della neve che non smette di scendere. Ogni tanto ci si scalda con una caldarrosta abbrustolita da quelle signore con le calze strappate che accendono i fuochi a bordo strada. Oltre a nevicate omeriche, a quei tempi c’erano madri un po’ diverse da quelle di adesso, sicché quando alle sette suonò la sveglia della signora Paola anche Carlo, non brillantissimo, si sarebbe svegliato per andare a scuola.

“La sai l’ultima? De Palma ha avuto un incidente stradale. Sta bene ma è fuori uso per un po’ e il capitano Lino Cappelletti ha chiuso il gas ed è andato via alla ricerca della sua Celito, la messicana, e quindi adesso ci sarà ancora più bisogno di te. E poi lo sai allo slavo gli piaci”.

1966. Lo Slavo, tale Boris Stankovic da Belgrado, il veterinario del mattatoio che allenava l’OKK Beograd, cittadino sotto ogni cielo come solo quelli della sua razza sanno essere, di sicuro avrebbe lanciato il ragazzo, che era anche appena diventato maggiorenne. Il Dionigi gli aveva anche comprato un 850 coupé e lui dove era andato in vacanza? A inseguir sottane proprio in Jugoslavia.

Gli slavi sono i più bravi coi giovani, si sa. Per i balcanici sembra sempre che la vita sia una partita a dadi e quindi non si può aver paura, neanche da ragazzi. Il veterinario Boris piano piano i vecchi della squadra li avrebbe fatti fuori tutti. Barlucchi, il toscano, l’ingeniero come lo chiamava facendo finta di sbagliare lo Slavo, quello che aveva soprannominato Charlie il ragazzo di via Paolo Sarpi perché secondo lui giocava come Carlo Recalcati, scolaro attento: allora le foto di classe si facevano così. E dopo le lezioni si giocava in strada.

Un americano, sarebbe stato il primo a chiedere d’andarsene perché gli slavi se vogliono sanno essere inesorabili e gli slavi lo vogliono spesso.

“Tu, D’Aquila e Frigerio con la palla in mano e siccome tu sei quello che tira meglio non mi serve un altro playmaker. Merlati, De Simone e Bob Burgess l’amerikanski, sono gli avanti, i forwards. Si gioca in sette a questo gioco. Ne trovo un altro e poi andiamo. Fidati.” Due argentini, un americano, tre ragazzi italiani e un balcanico con un’aureola di fumo di sigaretta possono vincere uno scudetto? Possono, quello della stagione 67/68 a essere esatti. Impossibile? Forse, ma meno di quello che potrebbe sembrare se hai a disposizione uno come il figlio del signor Dionigi.

La palestra Parini è sempre piena, la gente porta i fustini del Dixan per poter vedere meglio se arrivano tardi e non sono nelle prime quattro file. Si sta in piedi perché fanno entrare molta più gente di quella che si dovrebbe, ma nessuno vuol perdersi le partite di quella squadra e c’è un che di meravigliosamente elegante ogni volta che il ragazzo della via Paolo Sarpi lascia andare quella palla dalle mani: i suoi tiri vengono accompagnati da duemila respiri, anche di più se il maresciallo dei carabinieri ha detto ai pompieri di chiudere un occhio all’ingresso.

“Dollari, tutti i dollari che volete maremma maiala, ma fateci scendere”. Il volo che portava l’Italia del basket, sì perché adesso qualcuno cominciava a chiamarlo così il gioco nel 1968, era stato dirottato su Acapulco perché a Città del Messico, dove tra un paio di settimane sarebbero cominciate le Olimpiadi, c’era in corso una tempesta azteca. "Dadone" Lombardi, livornese di scoglio, come molti altri era terrorizzato di volare perché Superga non l’aveva dimenticata nessuno, ed era convinto che buttando soldi dal portellone appena aperto, quelli a terra li avrebbero fatti scendere e si sarebbe potuta raggiungere la capitale in pullman.

Era una gran bella nazionale quella: c’era Pellanera che giocava col Dadone alla Virtus, c’erano Gatti, Jessi, Bovone, Masini, Bufalini, Cosmelli, Vianello, Flaborea, Vittori e il ragazzo della via Paolo Sarpi, quello che faceva sempre canestro. Forti lo erano di sicuro, ecco magari c’erano un po’ troppi capi e troppo pochi indiani, per cui alla prima sconfitta si rischiava l’implosione come poi succederà.

“Carlos, te acuerdas de mi?”. No, incredibile: la moglie, oramai ex, del Lino Cappelletti era una volontaria al villaggio olimpico! Certo che Carlo se la ricordava, come sa essere strana e stupefacente la vita. Lo era meno per le strade di Città del Messico però, con polizia ed esercito che sparavano ad altezza-uomo sugli studenti in piazza delle Tre Culture e Carlo, per la prima volta davvero lontano dall’inattaccabile Cantù, si stava accorgendo che cosa significasse quel numero-sostantivo che ogni tanto leggeva e sentiva: il sessantotto.

Era già la terza volta che s’era nascosto sotto un camion per evitare una carica della polizia. Si ricordava di quando sfuggiva alle bande che venivano dal nord della città in cerca di nuovi territori da dominare. Il mondo intanto, lontano da dov’era cresciuto, stava viaggiando al ritmo del Concorde, ma lui curioso per natura, sapeva guardarlo con impareggiabile distacco, senza per questo rinunciare a viverlo pienamente. Mai smesso di farlo.

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