Franco Melchiori: trentinismo e fenomenologia della moseriade


di CHRISTIAN GIORDANO © 
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

«Quello che fai, fallo bene»
– Italo Garbari

Per questo libro in Trentino ci sono stato più volte. Non potevo non intervistare Carlo Martinelli, che di libri, giornali e sport della regione è cantore e maestro. Mi serviva però anche un riferimento – mi si passi l’ossimoro – di “giornalista-tifoso”, se possibile storico, per i due campioni trentini del decennio: Moser, il Trentino fatto corridore, e Fondriest, il “meno trentino” dei corridori. 

Per il primo pochi avrebbero potuto essermi più utili di Franco Melchiori; per il secondo idem con… melinda dopper Gianpaolo Tessari.

Melchiori, per tutti Melchius, una vita al quotidiano Alto Adige/Trentino, ha seguito dal vivo le imprese del Checco; Tessari, che di quella testata è tuttora cronista politico, colTedescoc’è cresciuto, e s’è allenato, assieme. Non sorprendentemente Melchiori e Tessari, come i rispettivi beniamini in bicicletta, non sarebbero potuti essere più diversi e, forse, distanti: e difatti incarnano le più variegate sfumature di un certo trentinismo, che nel complicato passaggio generazionale ha perso qua e là dei riferimenti ma di sicuro non l’identità né il senso di appartenenza.

Classe ’60 e professionista dal 1995, aperto, istrionico e guascone, subito disponibile e simpaticamente chiassoso Tessari, che ho beccato in un ritaglio di tempo in redazione fra una conferenza stampa del tardo pomeriggio e l’incombente chiusura del giornale. 

Classe ’43, professionista dal 1969, chiuso come le sue montagne e all’inizio forse pure un filino diffidente Melchiori, che al telefono ho inseguito per mesi. E che più che parlarmi, davanti a un cappuccino in centro nella sua Cles, mi ha sussurrato a fil di voce ricordi lontani eppure vividi, ancorché offuscati dal tempo, nella sua memoria di antico suiveur. Non per niente la domenica – si legge nella prefazione di Stefano Bizzotto a “Storie di pallone e bicicletta” di Carlo Martinelli – era lui che, chissà come, riusciva a dare un senso compiuto al lavoro di tante “teste matte”». Su tutte, gli stessi Bizzotto e Martinelli. 

Qui la chiacchierata con “Melchius” su passato, presente e possibile futuro di un fenomeno, la moseriade, tanto unico e radicato quanto difficile, per non dire impossibile, da incasellare.

“Bar Cles”
Cles (Trento), lunedì 3 dicembre 2018

- Franco Melchiori, una vita all’Alto Adigee giornalista-tifoso storico di Francesco Moser. Mi racconta di come nacquero quei club, la Moseriade, il trentinismodi quel periodo?

«È stato veramente un fenomeno perché era il primo caso di uno sportivo trentino che incarnava proprio la trentinità, l’essere trentino, parlare da trentino, rapportarsi da trentini».

- Per chi trentino non è, che cosa significa quell’«essere trentini»? E come si manifestava?

«Non c’erano mai stati [in Trentino] fenomeni soprattutto internazionali, ma neanche nazionali, in rapporto allo sport. C’era stato, mi ricordo, Franco Nones, che aveva vinto le olimpiadi di fondo, ma aveva poco clamore, poco seguito; mentre con Francesco, fin dai primi momenti, si vedeva che la gente (trentina) si riconosceva in lui».

- Perché? Era più per un fatto caratteriale, d’identificazione?

«Perché era un contadino. E qui erano tutti contadini. E il suo essere contadino si rifletteva nel suo comportamento anche da sportivo, nel rapporto con gli avversari, nel muoversi, nel come correva. È stato anche un fenomeno, come dire, inatteso. Nessuno si sarebbe aspettato il seguito che ha avuto. La gente, quando lui vinceva qualcosa, era in pellegrinaggio. Andava anche a piedi fino a Palù. Quando lui ha vinto il mondiale [a San Cristóbal, in Venezuela, nel 1977, nda] hanno fatto una striscia iridata, in mezzo alla strada, che partiva da Trento e arrivava fino a Palù. Son una ventina di chilometri». 

- Una striscia dipinta per terra?

«Dipinta per terra, dove c’era la striscia di mezzeria. Hanno fatto questa linea iridata che arrivava fino a casa di Moser».

- Venti chilometri di iride, più o meno?

«Sì, più o meno, comunque per tanti chilometri. Strada completamente invasa dai tifosi. Anche perché i trentini non che siano espansivi…».

- Uno per tutti Aldo Moser, che rispetto a Francesco come carattere è l’opposto, no?

«Sì. E per Francesco, rispetto ad Aldo, l’essere stato in Toscana ha contribuito un po’ a…».

- …a scioglierlo?

«Sì, esatto. A porsi, a parlare. Aldo non parlava. Erano praticamente uguali ma Aldo non parlava, non si promuoveva, non faceva niente. Invece Francesco… A parte che tutta quella gente lui la accoglieva a casa sua. Lui produce vino, usciva con delle brocche e dava da bere a tutti. Era una specie di capopopolo».

- Non lo faceva con secondi fini, è sempre stato il suo modo di essere?

«Un po’ tutt’e due. A lui piaceva avere questo seguito. Aveva capito che era importante anche per la sua carriera eccetera. E aveva capito che era importante anche per la gente, per la sua terra. Lui è profondamente trentino, l’ha dimostrato anche dopo, quando ha provato a fare politica».

- Non il carattere più adatto, il suo, per quel tipo di carriera.

«No, esatto. Perché [lui] niente compromessi…».

- Figuriamoci: la politica è l’arte del compromesso… Risaliamo in bici: questa è sempre stata terra di ciclismo?

«Dopo di lui. Prima di lui c’era…».

- Negli anni trenta c’era stato un altro Moser, Ermanno, non parente, che corse da indipendente il Giro d'Italia; negli anni quaranta Giannino Piccolroaz…

«…questo però era più ladino. Sono dei trentini particolari».

- Altri nomi: negli anni cinquanta, Vasco Modena che vinse anche davanti a Coppi; poi Giuseppe Pintarelli, Luciano Parisi, Natale Franceschini; Federico Galeaz, Mario Bampi e nel decennio successivo Claudio Michelotto…

«Ecco, Michelotto però fa già parte degli anni recenti, siamo proprio al pre-Moser». 

- Quelli però non erano personaggi.

«No, non erano personaggi. Michelotto forse un po’, perché vinceva, ma gli altri no. Non li conosce nessuno».

- Era anche un’altra epoca, molto meno mediatica. 

«Sì, però neanche avevano carisma».

- Lei come si è avvicinato al ciclismo e al tifo per Moser?

«Per mestiere. Facevo il giornalista per l’Alto Adigedi Bolzano».

- E quindi avrà conosciuto bene Carlo Martinelli.

«Sì, era un collega». 

- Lei è classe?

«’43».

- E per quanto tempo ha fatto il giornalista?

«Dal ’69 fino alla pensione, nel 2008. Sempre all’Alto Adige, che aveva allora due edizioni, quella di Bolzano e quella di Trento. Ma ai tempi di Moser, c’era l’Alto Adige che si chiamava appunto Alto Adige anche nell’edizione di Trento. È diventato Trentino dopo, una ventina di anni fa. L’Adige era il nostro concorrente, però solo a Trento perché a Bolzano era poco diffuso. Io ho fatto lo sport per vent’anni, poi sono passato all’Ufficio centrale».

- Cronista sportivo per vocazione?

«Sì. Sono entrato [in redazione] attraverso lo sport perché cercavano un ragazzo che seguisse determinati sport, poi sono andato avanti e son diventato professionista. E ho seguito il ciclismo professionistico grazie a Moser». 

- E quindi la passione per Moser è nata dopo? 

«Certo. Perché se non ci fosse stato Moser, che è arrivato ai vertici, il nostro giornale, che era molto piccolo, non avrebbe potuto permettersi di mandare un inviato al Giro d’Italia».

- Sempre che il Giro non passasse in zona, no?

«Se passava in zona, si andava anche per conto nostro. Io ho seguìto praticamente tutto di quello che Moser ha vinto».

- Al Giro dell’87 Moser era al seguito da commentatore perché era caduto pochi giorni prima del via, lei era comunque inviato?

«Ero inviato».

- Lei è del ’43, Moser un ’51: vi separano pochi anni di differenza, anche per questo con lei aveva un rapporto preferenziale?

«Sì, certo. Sono andato due-tre volte a trovarlo, quando ancora aveva il negozio [di biciclette], vicino a Trento. Se fosse andato al Tour de France, ci è andato all’inizio [solo a quello del ’75, nda], prese la maglia gialla, poi… Sembrava ci sarebbe andato anche successivamente, avrebbe dovuto andare poi però non ci è andato. Non so per quale motivo, forse per questioni… Lo sponsor diceva: no, tu devi andare al Giro. Per me è stato un peccato perché se fosse andato, probabilmente sarei andato a seguire il Tour. Perché noi, quando Moser vinceva, vendevamo il 30% di copie in più». 

- Addirittura? Spostava per il 30% di copie?

«Nei periodi della Roubaix, del Giro d’Italia, del mondiale…».

- Al di là del mestiere e dei vantaggi che potevano derivarne, Melchiori tifava per il Moser corridore e personaggio? Tra voi c’era anche una certa affinità caratteriale? Glielo chiedo perché nell’ambiente non sta simpatico a tutti, il Moserone. Ancora oggi divide, e molto…

«Sììì. Io da trentino… I trentini non sono simpatici, per indole: sono montanari, sono chiusi…».

- Carlo Martinelli, suo ex collega, mi ha detto: «Il mare apre, la montagna chiude».

«Certo. Sì, sì. E appunto, al di là della passione, facevo anche il tifo. E non ero il solo. Anche nell’ambito dei colleghi, tutti avevano simpatia, se non proprio tifo, per qualcuno, magari Saronni invece che Moser».

- Anche qui in Trentino?

«No, no: parlo [in generale]. Qui, no».

- Visto che al Giro 87 era inviato, secondo lei a Sappada fu tradimento?

«Sì. Fu tradimento. Sì, sì». 

- Nato in corsa o preparato?

«Secondo me l’avevan preparato a tavolino. Perché c’eran già stati screzi le tappe prima. Si sentiva… Poi c’era chi ci credeva e chi non ci credeva».

- Perché quindi lei era inviato se Moser quel Giro non lo correva?

«Perché [il Giro] passava nella nostra zona».

- L’ha seguito tutto quel Giro o solo quelle tappe lì?

«No, solo quelle tappe lì, quelle quattro o cinque tappe che erano nelle nostre zone. 

- E che cosa ricorda di quelle tappe?

«Gente correttissima, non c’è mai stato niente…». 

- Sicuro? Nei Giri precedenti tanti tifosi di Moser ce l’avevano, oltre che con Saronni, anche con Visentini e Baronchelli. Ricordo insulti e sputi a Visentini a Selva di Val Gardena al Giro’84; lo stesso Baronchelli, il 16 marzo 2018 alla presentazione della sua biografia “Dodici secondi”, ed io ero presente, ricordava che «al Giro del 1978, nelle tappe trentine di Pinzolo, da me vinta, e del Bondone, me ne hanno fatte di ogni: insulti, sputi, ombrellate, persino un pugno…». 

«Ce l’avevano più con Saronni, i trentini... Più di tutti con Saronni. Quella di Visentini, non so se fossero trentini o di altre parti. Con Visentini, sì, non c’era simpatia ma nemmeno… Invece con Saronni c’era anche antipatia del tifoso trentino. Con Visentini sì, ma non è che ce l’avessero… lo consideravano [un avversario] minore». 

- Visentini, però, a differenza di Baronchelli, non era uno che le mandava a dire: fu lui a esporsi di più contro la famigerata “compagnia delle spinte” che in salita aiutava Moser, e non solo Moser; a denunciare chi si attaccava all’antenna delle ammiraglie, o sfruttava la scia delle moto; per non parlare dell’elicottero nella crono di Verona al Giro ’84…

«Visentini lo consideravano troppo al di fuori dello stereotipo del ciclista – fatica , sudore, spingi… Lui era un “signore”, anche la sua estrazione…»

- Certo, Visentini era di famiglia benestante. A proposito di Baronchelli, invece Sergio Meda mi ha raccontato un episodio indicativo. Nel 1980 Italo Garbari, presidente dei Moser club, lo aveva invitato a un evento all’hotel Trento. I tifosi moseriani però non lo volevano perché lo ritenevano tifoso di Baronchelli. Meda non voleva accettare ma Garbari insistette e alla fine lo convinse: «Io sono il presidente, ti proteggo io...». Meda fu poi accolto con fischi e buu: «Non lo vogliamo, è un baronchelliano…». Perché ce l’avevano tanto persino con Meda? Un filino intolleranti, questo si può dire, o no?

«[Con Meda] abbiamo fatto l’esame [di idoneità professionale] assieme. No, no: per quello sì, erano molto sanguigni.

- Ecco: “sanguigni” è una bella definizione. Un po’ eufemistica, forse…

«Poi si sono chiariti». 

- Chiariti per che cosa?

«Avrà scritto qualcosa, degli articoli…». 

- Il paradosso è che, per certi articoli di Meda, ce l’aveva con lui pure Baronchelli, perché lo riteneva responsabile di averlo pompato troppo. Torniamo ai Moser club, si parlò di almeno diecimila iscritti…

«Si arrivò a molti di più. C’erano gli iscritti ma anche quelli che non s’iscrivevano. Parliamo di quasi cinquantamila».

- Cinquantamila? È una cifra realistica?

«Sì, sì. È realistica».

- Addirittura? E quindi erano anche una forza economica: quando si muovevano, spostavano dei bei soldi…

«Certo, ma non è che si muovessero troppo, eh. Era più un fenomeno locale». 

- Durante il Giro però sì, o no?

«No, solo per le tappe in zona. Non si muovevano molto». 

- Garbari però era riuscito a portarne un po’ fino a Città del Messico, nel gennaio 1984, per il record dell’ora.

«Trento-città era poi diversa da Trento-valli. Da Trento-città era più facile portare in giro la gente, muovere i valligiani…».

- Era un po’ più difficile?

«Era un po’ più difficile. Anche perché loro tendono a muoversi, come dire, “in branco”, no? [Quelli della] Val di Non tutti insieme, per conto loro…».

- Le leggo cosa scriveva in proposito Giacomo Santini su Bicisport, numero 6 del giugno 1977.

Fraternizzano, così, trentini e roveretani, nonesi [Val di Non] e solandri [Val di Sole], cembrani [Val di Cembra] e fiammazzi [Val di Fiemme], valsuganotti [Valsugana] e pinalteri [dell’altopiano di Piné, nda], popoli che la storia ci mostra spesso impegnati in zuffe al limitare delle rispettive vallate per un pugno di fieno o un palmo di terra.

«Storicamente, è esatto. Queste sono le rivalità classiche del Trentino, sono quelle fra vicini: la Val di Non eccetera…».

- Questioni di campanile e anche economiche, no?

«Sì, sì: di campanile, economiche…».

- Le sentite ancora oggi queste rivalità, o sono ormai scomparse?

«No, no: ci sono. Meno sanguigne ma ci sono. Sono nel dna. Anche nel prendersi in giro…».

- E Moser aveva questa forza “coagulante”, sapeva fare da collante di una certa trentinità?

«Sì, perché li ha uniti tutti, no? Perché, appunto, dicevo: i solandri, questi della val di Sole, si muovevano per conto proprio, anche per andare nelle tappe trentine; i nonesi per conto proprio… E poi lì c’era Moser che li metteva tutti d’accordo e magari dopo andavano a ubriacarsi nel nome di Moser».

- Ecco, altro aspetto importante: molti di questi, una volta che esageravano col vino, davano poi in escandescenze. Dopo tanti anni si può dire, senza voler offendere nessuno…

«Sì, si può dire. Ma non andavano al di là della spinta o del… Non c’erano, o non credo ci sia mai stato altro…».

- Visentini non la pensa tanto così…

«Sì, Visentini può aver avuto qualche episodio ma lì non so chi sia stato veramente, quali tifosi siano stati».

- Se si riferisce all’episodio di Selva di Val Gardena al Giro ’84, me l’ha raccontato lui stesso: in corsa qualcuno gli sputò addosso, lui tornò indietro, scese di bici e gli rifilò un calcione nelle parti basse. Visentini voleva ritirarsi, fu Battaglin a convincerlo a risalire in sella e ad arrivare al traguardo… E alla fine Visentini fu pure denunciato.

«Sì, esatto. Lì, non so chi sia stato. Noi non ce ne siamo occupati. Noi ci occupavamo più della cronaca locale».

- Dopo la tappa di Sappada, Roche temeva non soltanto dei sabotaggi ma anche per la propria incolumità: in corsa aveva sempre ai fianchi Schepers e Millar e prima e dopo la gara era scortato dai carabinieri. Nelle ultime tappe aveva addirittura “proibito” alla moglie Lydia di raggiungerlo, lei invece partì lo stesso e lui nel vederla arrivare si arrabbiò perché aveva paua potesse accaderle qualcosa… C’era davvero un clima così pericoloso in quei giorni e più in generale in quei Giri?

«Questo è clamoroso, no? Questo è un episodio clamoroso che, fuori, tra i tifosi, non si sentiva. Lo apprendevano dai giornali il giorno dopo, o due-tre giorni dopo. Magari dentro, nel gruppo, certo, però la gente non…».

- Le tappe lei le seguiva in macchina, qualche intemperanza l’avrà vista? 

«Sì, ma più che altro eran parole… Pochi cartelli, di solito».

- Abbiamo citato l’episodio di Baronchelli, ma quello di Roche fu ancora più clamoroso. Lui stesso ha raccontato che gli sputavano riso misto a vino rosso, gli tiravano brandelli di carne come per dirgli: ti facciamo a pezzi…

«Sì, ma non credo sia stato qui [in Trentino]. Forse nelle zone dove Visentini era più vicino…».

- E quindi in zona-Brescia?

«Zona-Brescia, esatto, che confina con… Quindi può darsi che tifosi suoi fossero venuti anche nelle tappe trentine, quelle subito dopo [Sappada], msa che ci sia stata un’antipatia così forte dei tifosi trentini contro Visentini, no. Con Saronni, sì».

- Lì si era ben oltre l’antipatia: era in atto una sorta di guerra di religione, tutta italiana…

«Sì, certo. Saronni, per esempio, in Trentino non veniva. Era molto difficile».

- C’è ancora quest’antipatia o è sfumata? Perché ormai i due sono non dico amici ma quasi…

«È sfumata, è sfumata…».

- Di Italo Garbari, deceduto il 29 gennaio 2006 a 68 anni (era nato il 4 marzo 1938), si diceva che «el stéva bèn coi siòri e coi poréti». Che ricordo ha dell’imprenditore di Meano che ai trentini piaceva perché «era uno di noi»?

«Era un personaggio. È stato quello che ha portato qua il ciclismo professionistico, soprattutto organizzando le corse. Aveva cominciato in Val di Non con quello che adesso si chiama Trofeo Melinda, allora si chiamava Circuito degli Assi[1]. E venivano tutti…».

- È vero che da giovane aveva battuto in volata Dino Zandegù? Lui millantava questa cosa…

«Non lo so, può essere. Da giovane, può essere… Io non è che lo abbia conosciuto granché».

- Garbari è stato un personaggio ben oltre il ciclismo. In Trentino è stato una figura di riferimento, anche dal punto di vista economico con la sua Cassa Rurale, politico-religioso con il mondo cattolico e la Dc, e sociale con la Cooperazione, il “Coro Amizi de la Montagna” di Meano eccetera. Incarnava per tanti aspetti il Trentino…

«Certo. Poi lui è stato l’ideatore, l’organizzatore del Giro del Trentino [oggi Tour of the Alps, nda]. E chiaramente, per organizzare una cosa del genere, bisognava essere economicamente favoriti ed essere conosciuti…».

- Il suo motto era: “Se lo fai, fallo bene”. Le risulta, se lo ricorda?

«Non me lo ricordo. So che comunque era uno anche bravo, faceva le cose bene. Il Giro del Trentino era organizzato bene».

- Mi parla di quel rapporto così speciale tra Garbari e Moser?

«Be’, uno “serviva” all’altro, perché se non ci fosse stato Moser…».

- Erano l’uno funzionale all’altro, mettiamola così…

«Esatto, perfetto: uno funzionale all’altro. Se non ci fosse stato Moser, Garbari forse non avrebbe fatto quello che ha fatto, nel ciclismo. E Moser, quando Garbari è “diventato” Garbari, nel senso dell’organizzatore eccetera, Moser aveva già smesso di correre però era rimasto nel ciclismo, aveva le biciclette…».

- Con Garbari ha anche fatto affari extra-ciclismo, no? Moser ha delle cave in Argentina. Garbari era nel campo delle costruzioni edili; quindi c’era anche business in quel legame…

«Sì, esatto. E Moser è della zona dove ci sono le cave del porfido, no? Quindi anche lì… Poi anche col vino, credo».

- Garbari di Moser è stato anche testimone di nozze. Ho qui le foto sui giornali dell’epoca.

«Questo è il nostro giornale, il Trentino. Dell’80…».

- Qui si trovano a Rossano Veneto, quindi il fenomeno della “moseriade” andava oltre la regionalità…

«Poi era diventato…».

- Lo chiedo a un moseriano doc: Andrea Żmuda, poliglotta polacco (sette lingue) che lavorava con il Comitato olimpico del suo Paese; Francesco lo conobbe in una trasferta e poi lo volle in Trentino a lavorare con lui. Divenne una sorta di suo preparatore atletico personale ante litteram. Se lo ricorda?

«No».

- Dopo Moser nessun altro è stato capace di incarnare così il Trentino, né Gilberto Simoni né, prima ancora, Maurizio Fondriest, che pure ha vinto un mondiale. Perché? Dipende sempre da questo carattere così unico di Moser?

«Secondo me sì, dipende dal carattere».

- Che differenze trova? Simoni sì, ma Fondriest, per esempio, non è di estrazione contadina…

«Eran diversi da Francesco».

- Simoni era molto più taciturno, a volte appariva persino scontroso…

«Era aggressivo. Moser, anche quando prendeva una posizione – non so, si metteva contro qualcosa o qualcuno – non diventava antipatico, cioè tu potevi essere d’accordo o non d’accordo, però… Simoni invece aveva qualcosa che… lo faceva diventare antipatico».

- Mancava forse di empatia?

«Sì, sì. E anche agli stessi trentini non… Fondriest, non so come mai. O la gente è ormai “sazia”… Li considerava come una normale successione: noi abbiamo avuto Moser, quindi è “giusto” che abbiamo Fondriest e Simoni. Non sono [come] Moser, ma sono bravi… Perché? Perché noi… È “giusto” che noi, avendo avuto Moser, abbiamo dei ciclisti bravi… Cioè: Moser ha aperto la strada e noi trentini, che siamo forti, montanari, schietti eccetera eccetera… Con Moser che ha aperto la strada son venuti fuori anche gli altri. Se non ci fosse stato Moser, magari gli altri non sarebbero venuti fuori…».

- Fondriest perché è ritenuto “il meno trentino” dei corridori? Che cosa significa? Perché forse non si espone?

«Perché non si… Un po’ non si esponeva. Per il modo di porsi, diverso da Moser. Era più “uguale” agli altri ciclisti, forse [più simile] a Visentini, non so… [in Trentino] non è stato amatissimo».

- Il saper parlare, anche in buon italiano e non solo in nones, l’idioma nonese, può aver alzato qualche barriera in più? I tratti più gentili, forse viene percepito come meno “montanaro” anche in quel senso lì?

«Esatto. In quel senso lì».

- Per differenziarli, come definirebbe Moser, Simoni e Fondriest? Su che aspetto punterebbe, quello caratteriale?

«L’aspetto caratteriale. E fisico. Moser erail Trentino, perché si esprimeva in un certo modo, si mostrava in un certo modo, si comportava in un certo modo. E parlava in un certo modo, con anche l’accento trentino. Gli altri due, no».

- Moser non ha continuato gli studi ma è uno che ha saputo formarsi alla scuola della vita.

«Ha la curiosità».

- Ecco. Però è anche uno capace di esprimersi, sempre con una forte inflessione trentina, ma non proprio il dialetto stretto…

«No, no: proprio l’inflessione. L’inflessione. Di lui i trentini dicevano: eccolo, è il trentino che parla l’italiano».

- Anche perché ha girato il mondo…

«Ecco, e l’essere andato in Toscana, soprattutto».

- Moser era il Trentino, okay. E gli altri due?

«Gli altri due, no. Simoni forse sì, però non erail Trentino come lo era Moser, che ha messo d’accordo i solani con i nonesi».

- Simoni invece le valli anziché unirle le divideva?

«Lui era la sua valle e basta».

- Qual è la sua valle?

«La Val di Cembra. Lui è cembrano. È dello stesso paese di Moser».

- E Fondriest?

«Noneso. Per esempio, di Moser non hanno mai detto: è un cembrano». 

- È vero…

«Lui l’è el nos, è il nostro. Quando chiedono cosa ha fatto Moser, no? Che ha fato, el nos? Cosa ha fatto, il nostro? Per gli altri due, no. Fondriest, per esempio, per i solandri – dove c’è la valle attigua dove c’è rivalità – è “il noneso”, quindi… Non era mai “il nostro”, del Trentino: è il noneso e quindi è il nostro, come dire, antagonista no, però un po’ rivale sì. E lo stesso per Simoni, più o meno, per i nonesi… Non hanno unito il Trentino, loro due, come… Più Simoni, forse, che Fondriest, però non a quei livelli. Assolutamente no».

- Per rimanere all’oggi, in questo senso Gianni Moscon che cosa rappresenta?

«Moscon è di qua [di Cles, nda]. Si è un po’ persa, magari, la trentinità. Quel tipo di trentinità. Perché è cambiato il mondo».

- Però questo suo tratto di aggressività, che magari col tempo si stempererà (Moscon è un ’94), è una caratteristica tipicamente trentina?

«Sì, sì: è una caratteristica proprio di qua, che Fondriest, per esempio, non aveva».

- Anche in quel senso, quindi, il meno trentino dei corridori?

«Esatto. E in più aveva anche quell’aspetto un po’…».

- …quasi da intellettuale...

«Da intellettuale, con l’occhialino eccetera».

- Di buona famiglia, non tanto nel senso di benestante, quanto più di buoni studi, di buone maniere…

«Certo. Poi non credo che lui sia noneso, nel senso dalle generazioni. Loro son venuti qui dall’Austria».

- Lo dice il cognome: von-Driest, da Trieste. E anche questo può aver inciso…

«Può aver inciso, certo. Sembrano sciocchezze, invece contano…».

- E qui contano…

«Specialmente qui».

- Moscon perché si è trasferito a Innsbruck? Per motivi fiscali?

«Perché è vicino. Anche per motivi fiscali e perché è vicino. Il perché, non saprei. Non vorrei dire che sia… ».

- …per star tranquillo?

«Per star tranquillo, non so…».

- Può unire, Moscon, le varie anime della regione o non sono più i tempi?

«Primo, non sono più i tempi. Secondo, anche se si pone abbastanza come Moser, nel tipo di personalità forte, potrebbe anche… Certo, deve cominciare a vincere».

- Nelle sue corde ha, per esempio, la Parigi-Roubaix: la prima che ha fatto, quinto. Se uno così vincesse un mondiale, in Trentino che cosa potrebbe scatenare? 

«Sì, forse avrebbe più… Moser [però] è inavvicinabile, irripetibile. Era un fenomeno…».

- Se non altro per l’epoca…

«Esatto. Era l’epoca giusta al momento giusto. Questi non son più nell’epoca, non sposteranno le masse, questi… Non è che, se lui vince il mondiale, andrà la gente a casa sua…».

- Moser "è" il Trentino o "era" il Trentino? Quel Trentino…

«No, lo è ancora».

- Lo è ancora? Intendo quello contemporaneo?

«Sì, lo è ancora. È ancora amato. Non più visceralmente».

- Amato, senz’altro. Volevo sapere se rappresenta ancora il Trentino – oggi.

«Sì, sì: non è cambiato. È ancora lui».

- Non è cambiato Moser o non è cambiato il Trentino?

«Moser. Il Trentino è un po’ cambiato, lui no. Però non è cambiato il Trentino, ancora. Quello dell’ultima generazione, non so... Ma nelle generazioni prima, la sua e quella subito dopo, lui è ancora… Moser».

- E invece un Moscon le folle non lo seguiranno mai?

«No, perché non sono i tempi, però può… Siccome qui l’identità è ancora abbastanza forte, può diventare lo sportivo…».

- …del decennio, per quanto riguarda il Trentino…

«Sì, anche se abbiamo qua uno che gioca in Serie A di calcio, Andrea Pinamonti, che è di qua [attaccante di Cles del ’99, scuola Chievo e Inter, dal 2018 in prestito al Frosinone, nda], poi abbiamo alcuni ciclisti, uno sciatore, insomma qualcosina c’è».

- Poi c’è l’Aquila Trento basket: due finali-scudetto consecutive (2017 e 2018).

«No, lì però non c’è la territorialità, non ci sono trentini che giocano lì. Come nella pallavolo, non ci sono. Sì, ne portano il nome ma non sono di qua».

- Cioè non sono molto legati al territorio, intende come tradizione?

«Esatto. Ci vuole uno di qua».

- Con Moscon ho parlato diverse volte, dal suo primo ritiro col Team Sky a Mallorca e poi in nazionale. Mi ha spiazzato quel suo episodio dei presunti insulti razzisti che avrebbe rivolto al francese Kevin Reza al Giro di Romandia 2017. È un problema, quello del razzismo, che vi riguarda da vicino, al di là della deriva di intolleranza che ha preso piede e voti nella vicina Austria? C’è qui questo problema? Possiamo dirlo, se siamo sinceri con noi stessi?

«C’è, c’è. Possiamo dirlo. Se siamo sinceri con noi stessi, possiamo dirlo: sì».

- Perché c’è? È solo il “solito” discorso dell’ignoranza?

«Perché… è un po’ anche quello della non conoscenza, della chiusura, del diverso. E qua il diverso non ha mai…».

- Sempre per il discorso che “la montagna chiude”?

«Sì, quel discorso lì, principalmente. Non si è mai vista gente di altre parti. E la gente che veniva da altre parti [qui] ha fatto sempre danni».

- E quindi c’è questa specie di retaggio storico-culturale, di pregiudizio atavico, ma in che senso, in ambito politico? In che contesti? 

«All’inizio in contesti proprio…».

- Si riferisce anche alle lotte che questa regione ha combattuto per conquistarsi l’autonomia?

«Sì, anche quello, anche quello… Certo. È un piccolo popolo che è sempre stato schiacciato tra l’Austria e l’Italia, cercando di mantenere la sua identità. Ovviamente questo ha generato, anche senza volerlo, questo istinto di razzismo, di pensare sempre che il nemico è pronto e bisogna stare attenti, tutti possono essere… e di poca apertura, anche di scarsa generosità, volendo… È una cosa individuale, i montanari sono tutti…». 

- Lei stesso si riconosce in questo ritratto? O magari l’aver viaggiato, anche grazie al giornale, le ha allargato gli orizzonti?

«So che è così, perché probabilmente, se fossi rimasto [sempre] qui, sarei stato [anche io] così…».

- Che cosa mi può raccontare il Melchiori inviato di quei Giri d’Italia, di quel ciclismo? Intanto, quanti Giri ha seguito da suiveur?

«Interamente ne ho seguiti due, quello vinto da Moser [nell’84, nda] e, mi pare, quello prima… Ma soprattutto quello vinto da Moser».

- Ecco, allora, domanda a bruciapelo: quell’elicottero, nella crono conclusiva da Soave a Verona, ha aiutato Moser e penalizzato Fignon, o no?

«Mah, quella mi sembra più una montatura».

- L’ex sprinter Giovanni Mantovani sostiene che in corsa l’elicottero si “sentiva” eccome…

«Ma [Moser] andava talmente forte…».

- Insomma, Moser quel Giro l’ha meritato: sì o no? 

«Sì, l’ha meritato».

- E diciamo, a parità di condizioni? So che la controprova non c’è ma Melchiori cosa dice?

«Non lo so. Due giorni prima c’era stata la tappa di montagna: la Selva di Val Gardena-Arabba, e dopo ce n’è stata una in Veneto, la Arabba-Treviso. Selva di Val Gardena-Arabba era il tappone».

- E lì vinse Fignon.

«Ecco. Se Moser fosse riuscito a resistere… Infatti, aveva perso poco più di un minuto [in realtà arrivò ottavo a 2’08 dal vincitore Fignon e perse la maglia rosa per 1’31” dallo stesso Fignon, nda], pare, pare perché io non l’ho… nessuno ha visto, e lui lo avrebbe anche ammesso, che la sera abbia fatto l’emotrasfusione. Difatti il giorno dopo a Treviso, lui ha fatto la volata di gruppo, da velocista, credo sia arrivato terzo [dietro Bontempi e Rosola, nda]. Lui andava come un missile. Non ha mai fatto volate di gruppo, Moser, andava talmente forte che si è trovato davanti e…».

- …quell’anno aveva vinto anche la Sanremo…

«Ecco. Quella però era una volata di gruppo, di quelle da… tuttoil gruppo, perché era in pianura, sono arrivati insieme tutti, no? Lì abbiam capito che avrebbe vinto il Giro, perché la cronometro dopo… ».

- Ah sì, lo avevate capito già lì?

«Se ha fatto la volata di gruppo così “facilmente”, senza che… vuol dire che le gambe giravano in una maniera… Poi non so se l’elicottero… ma ha vinto con tale margine che qualcosina gli avrà anche dato anche…».

- Quanto avrà influito?

«Qualcosina, ma non… Fignon non ha mai accusato, non ha mai detto…».

- E della famosa tappa con lo Stelvio annullato, si disse, per favorire Moser, che cosa pensa?

«Non saprei. Favorire, non è poi che… Può essere, ma…».

- Non c’erano le condizioni per correre?

«No. Poi hanno fatto delle tappe in cui avrebbero dovuto farlo, il Gavia e altre, ma lì effettivamente… Era pericoloso perché c’erano le valanghe…».

- E il rapporto Torriani-Moser?

«Era amore e odio. Non credo che Moser fosse particolarmente simpatico a Torriani, per via che Moser…».

- …pane al pane, vino al vino?

«Esatto. Non è che andasse lì… non era così diplomatico o politico. E questo a Torriani non piaceva. E poi Moser diceva che Torriani avrebbe anche potuto far dei Giri leggermente diversi, che metteva troppe salite. Moser era convinto che per qualche motivo Torriani cercasse di mettergli i bastoni tra le ruote».

- Così facendo però li avrebbe messi a se stesso [e al Giro], perché un Moser in maglia rosa…

«Li metteva a se stesso, ma lui era…».

- E poi quelli erano i “Giri delle gallerie”, e quindi “spianati”, su misura per gli sceriffiMoser e Saronni, no?

«Sì, certo».

- E quindi la verità dove sta, sempre nel mezzo?

«Sì, sì: sempre in mezzo, ma era l’altro sceriffoche forse andava più a genio a Torriani».

- Ah, ecco. Perché i famosi abbuoni, 20-30 secondi, erano su misura per loro, e in particolare per Saronni.

«Sì. Perché poi faceva comodo all’organizzazione e soprattutto al movimento eccetera…».

- E il movimento italiano era sì Saronni ma soprattutto Moser, no?

«Non solo: il fatto che lui [tranne una volta, nel 1975] non fosse mai andato al Tour – e ci voleva andare, gli sarebbe piaciuto molto andare – era perché il movimento, gli sponsor, tutti, anche lo stesso Torriani, forse lì ha cominciato un po’ a… voleva che facesse il Giro da protagonista. Per vincerlo. Anche se magari non ne aveva le caratteristiche: Moser in salita faceva fatica, era troppo pesante. E quindi lui un po’ ce l’aveva, perché lui avrebbe fatto molto, molto volentieri il Tour. E in pratica non aveva le condizioni perché andasse. Nessuno spingeva perché lui andasse al Tour».

- Che cosa le ha lasciato, Moser? Perché lei sin qui me ne ha parlato, almeno questo ho percepito io, sì, con trasporto ma non con tutto quell’affetto, quella partecipazione che mi sarei aspettato. Ho trovato un testimone imparziale, fin quasi distaccato, mentre ero convinto di trovare un moseriano convinto…

«Ai tempi, sì. Adesso, son passati tanti anni, diventando vecchio…».

- Ha trovato anche qualche stortura che oggi magari non le va più giù? Eravamo quasi all’idolatria, all’epoca…

«Ma le storture andavano benissimo. Perché? Perché lui le affrontava ma non dialetticamente. No: le affrontava sul campo, cercando di batterle. Vincendo. O cercando di vincere. Andava benissimo».

- Io ero ragazzino, lei era sul campo da invito: all’epoca c’era anche un atteggiamento, mi passi il termine, “para-mafioso” del gruppo. Prima comandava Merckx, poi toccò a Hinault e agli sceriffi. Moser, specie agli esordi, era riottoso a certe logiche del branco, no? Mi hanno raccontato tanti ex corridori che i primi tempi lui, con quella personalità così dominante, era uno che scalpitava. Correva sempre per vincere…

«Sì. Non lo fermavano…».

- “Ohè, ragazzino, vuoi finir nel fosso?”, era il refrain dei veterani al nuovo arrivato che non sottostava alla legge del gruppo. Poi però, una volta diventato sceriffo, era lui stesso che…

«…applicava la legge».

- Non si andava in fuga se non lo “decideva” lui. Quando il suo gregario Mario Beccia cercava gloria personale, Moser lo prendeva per i calzoncini e lo riportava all’ordine, umiliandolo di fronte al gruppo. Mi parla di questi aspetti?

«Non lo faceva tanto per, come per imporre un’autorità, un autoritarismo eccetera. Lo faceva perché diceva: è inutile che vai, dove vai?! Era più… è una brutta parola, ma lui diceva: noi siamo più forti. È inutile che vai a rompere le scatole, a far delle cose che sono al di sopra delle tue possibilità. Come dire, tu sei quello lì, sei Beccia, devi fare, fai il Beccia. Noi siamo Saronni e Moser e facciamo Saronni e Moser. Non è simpaticissimo come concetto, però è quello».

- I suoi ex gregari ammettono che con loro era anche molto duro ma era di parola: se i premi dovevano essere quelli, erano quelli. 

«Sì, sì: non si sgarrava.

- Però, essendo un campione, Moser non capiva che quando questo non ne avevano più, non è che non tirassero oltre perché avevano chissà quali velleità. Lualdi gli diceva: ma Francesco, secondo te, se io ne avessi come te, sarei te… 

«E questo fa sempre parte della mentalità trentina: non si fidano. Il non fidarsi. Ti dico che non ce la faccio più. Non ti credo subito. Non mi fido proprio. Sì, può darsi, però può darsi anche di no. Mi rimane… Io non son sicuro che tu non ce la fai, magari…».

- A proposito del fidarsi o no. Si era visto in passato attaccare il proprio capitano, ma mai il proprio capitano in rosa. Da che parte sta Melchiori: Roche o Visentini?

«Allora, in due aspetti. Dal punto di vista di quello è giusto, di quello che è onesto, di quello che dovrebbe essere, sto con Visentini…».

- Ma…

«Ma dal punto di vista, diciamo, se fosse stato Moser, sarei stato con Roche».

- Perché? Perché la corsa è corsa?

«Perché la corsa è corsa. Perché bisogna anche affrontare queste cose. Perché bisogna anche… Perché tu non vai bene – per come la penso io –, per come corri, per quello che sei, per come parli. Ecco, sarai anche un campione, ma io dico che sei un mezzo campione. E dal mezzo campione…».

- Ma perché Visentini aveva detto che a luglio, anziché andare al Tour ad aiutare Roche, se ne sarebbe stato con le balle a mollo al lago o al mare? In quel senso lì?

«Ecco, anche per quello. Tu dici che sei un campione. Sì, sei bravo ma non sei un campione. Perché non sei come me, come... A Moser sarebbe stato più simpatico sicuramente Roche». 

- Quello era anche il passaggio, a cavallo proprio di quegli anni lì, in cui arrivò Epolandia… Voi in carovana avevate questa percezione? Che stava cambiando, o era già cambiato, in gruppo, il tipo di “benzina super”, a troppo alto numero di ottani?

«Sì-sì, ma già da anni prima».

- Già dall’86, quando il Giro lo vinse Visentini?

«Da quando hanno cominciato a fare questa autoemotrasfusione [scoperta nel 1971 dal professore svedese Björn Ekblom, nda]».

- Allora già dall’84, dal Giro vinto da Moser?

«Sì».

- Saronni mi ha detto: il mio “vero” avversario era il primo Moser, quello dopo non m’interessava, era un’altra cosa. Che cosa si può dire?

«Si può dire che comunque era sempre Moser lo stesso, perché anche se aveva questi “aiuti” che allora erano permessi…».

- …e questo va sempre ricordato.

«…se non fosse stato Moser, non gli avrebbero dato, non sarebbe arrivato…».

- È vero che il gruppo Enervit per primo andò a contattare Saronni e non Moser?

«Secondo me Saronni ha fiutato… È molto intelligente. Capiva al di là. Probabilmente aveva anche capito che lui forse non sarebbe riuscito, che non aveva lo stesso fisico [di Moser]».

- E quindi più per calcolo, o per paura di, o un mix delle due cose?

«Forse [per] calcolo. Avrà detto: a me non conviene. Non mi serve, non mi conviene. E soprattutto non so se riuscirei a rendere…».

- E quindi Moser perché l’ha fatto, perché era già a fine carriera? Molti lo davano per finito.

«No, ma Moser non si sentiva finito».

- Lo so. Però era un po’ al bivio, no?

«Era al bivio. Perché certe caratteristiche non… sembrava che… per esempio a cronometro non andava più come ai vecchi tempi eccetera. E improvvisamente ha ripreso anche andare a cronometro, ha fatto il record dell’ora…».

- Anche quello indoor, non solo quello all’aperto di Città del Messico. Ma già per quello al coperto, di nuovo non credeva più nessuno in lui…

«No, no».

- Eppure lo batté. E si ripeté addirittura dieci anni dopo, rischiando forse anche di apparire un po’ patetico a una certa età…

«Sì, però lui è appassionato di soldi. Ha preso anche un sacco di soldi per far quella cosa lì, dalla Barilla, non so... Probabilmente lui quando è stato uno dei primi a fare questi esperimenti sul sangue eccetera e fosse fidato, oppure ha capito lui, si è fidato eccetera, che lui avrebbe reagito molto bene a questa cosa nuova che era entrata nel ciclismo. A queste nuove pratiche. Allora permesse».

- Che idea si è fatto lei di Conconi e dei suoi “proseliti”, da Michele Ferrari in giù? Voi, da trentini, di Conconi cosa ricordate?

«A livello di popolarità, non sapevamo neanche chi fosse. La gente non lo sa. Quelli che leggevano, gli altri guardavano solo i risultati… Se poi questi risultati fossero venuti ovviamente senza l’esagerazione, per non usare la parola classica, “doping”, eccetera ma se venivano tramite, così, scienza, per dire, chiamiamola scienza, andava benissimo. Se si andava oltre, se si esasperava troppo questa parola scienza, allora comincia a diventare antipatica la cosa perché era troppo… Ma all’inizio non c’era la percezione che qui stavamo andando oltre, e che oltre saremmo andati, con cose…».

- Forse neanche si poteva immaginare. Chi poteva pensare che…

«Non s’immaginava, esatto. Non s’immaginava. Non si pensava che poi saremmo arrivati a quello cui siamo arrivati… Come si chiamava quello che si faceva le cose da solo, lì, che poi a momenti moriva?».

- Riccardo Riccò, che teneva in frigo il suo sangue “andato a male”.

«E come lui anche parecchi altri. Non si pensava. Ecco, forse, forse – forse, eh – Moser e… non lo avrebbero fatto. Avrebbero detto: questo non lo faccio».

- Chiudiamo con il “trentinismo”: che cos’è il trentinismo? 

«È l’identità, cioè sentirsi parte di un territorio, di un modo di pensare».

- E quali soni valori cui il trentino si aggrappa e che difende con tutto se stesso? E soprattutto: sono ancora attuali?

«Sì-sì-sì. Sono attuali, abbastanza attuali, con manifestazioni della trentinità diverse, più…».

- Per chi non è di qua, per capire?

«Non so, di avere una lingua invece che un dialetto. Considerarla una lingua».

- Il ladino?

«Il ladino soprattutto, ma anche il trentino. Poterlo parlare, che tutti tra di loro lo capiscono, lo usano. Fa parte di un’identità, anche se non così forte come, per esempio, quella dei sudtirolesi, che hanno il costume [tradizionale]…».

- Ma il trentino, in primis, si sente più italiano o trentino?

«Si sente trentino, ma adesso, ultimamente, anche abbastanza italiano. Mentre italiani i sudtirolesi non si sentono per niente, i trentini in fondo… Sì, siamo trentini ma italiani».

- Se non altro per quanto avete sofferto qua per diventarlo o ridiventarlo…

«Certo, ma siamo italiani. Parliamo italiano, che è una lingua neolatina».

- Nel suo film autobiografico, e un po’ agiografico, Scacco al tempo, appena uscito, Moser dice che con la bicicletta ha girato il mondo e ci ha portato il Trentino; è un concetto diverso, no?

«Un concetto diverso, sì…».

- Moser grazie al ciclismo si è arricchito ha conosciuto il mondo, ma lui è di qua vuole stare qua perché appartiene a qua e non solo perché qua è nato. È questo il suo mondo.

«Lui vuole stare qua, lui vuole la sua vigna, la sua terra, la sua casa, il suo paese…».

- Le sue montagne: lui si affaccia dalla sua proprietà, e davvero possiede due montagne…

«Le sue montagne. Sta più volentieri in montagna, su, che in città. No, no: per quello… Anche chi, ai suoi tempi, non lo capiva, la gente che non ci arrivava, diciamo, intellettualmente, ci arrivava perché lo sentiva come un suo vicino di casa, come un “cugino”…».

- E questo suo essere, diciamo così, particolarmente parsimonioso?

«Tutti i trentini sono parsimoniosi. ».

- Sì, però lui raggiunse picchi leggendari. È vero che quando andava alle Sei Giorni o per circuiti, caricava la bici in macchina, si faceva ore e ore di guida, correva e poi si rimetteva alla guida per andare a dormire a casa e risparmiare i soldi dell’albergo?

«Sì, sì. I trentini sono gli scozzesi d’Italia, eh».

- Altroché i genovesi…

«Sì, altroché… Anche questo fa parte del trentinismo».

- Sono andato a trovarlo nel suo maso. C’è un modernissimo mausoleo, più che museo, dove ha raccolto tutti i suoi cimeli, le sue bici, i libri che parlano di lui. E nella sua magione, proprio dentro casa, ha persino una cappella votiva. Ricordo che la notai dal salotto dove sua moglie Carla ci ha portato il caffè.

«Lui è molto religioso, ha un fratello prete col quale sono molto legati. Fa parte del trentinismo anche quello».

- Abbraccia tutte le sfere della vita, questo trentinismo: dalla religione al mettere da parte. C’è una sorta di paura atavica della fame, magari temendo un possibile raccolto andato male, e comunque legata alla terra, alla campagna, ai cicli della natura eccetera?

«Sì, certo. Non solo: ai tempi di Moser – loro son tanti fratelli – quasi tutte, quindi tante, famiglie trentine avevano avevano un componente, un fratello, prete».

- Anche in Veneto c’è questa tradizione, idem per il legame col vino.

«Anche in Veneto, sì».

- Per dire, dei quattro fratelli Tacchella, oltre ai tre patron della Carrera (Imerio, Tito e Domenico), il quarto, Eliseo, è un frate comboniano…

«Sì, sì, anche qui. Magari sono bestemmiatori, però…».

- Ecco, questa è un’altra delle contraddizioni trentine, no?

«Sì, sono contraddizioni. Però [la tradizione cattolica] rimane fortissima. La chiesa fa parte dell’essere trentini».
CHRISTIAN GIORDANO

NOTA:
Trofeo Melinda: nacque nell’agosto 1992, in accordo con il responsabile Franco Mealli, per sostituire nel calendario internazionale maschile il Giro dell’Umbria. Fu organizzato dal Gruppo Sportivo Melinda, società trentina – sponsorizzata dall'omonimo consorzio di produttori di mele – che dal 1981 al 1991 si era occupata dell’annuale svolgimento, sulle strade di Nanno (Trento), del Circuito degli Assi.

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