Angiolino Massolini, la Bibbia: «Essere è l’unica cosa che conta»
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Uomini solidi come il Masso non ne nascono più. Classe 1947, pubblicista dal 1977, alpino dell’Anno 2017, è la bibbia del ciclismo e dello sci del Bresciano. Guai a dirglielo, però: si (e vi) schernirebbe. Perché, a differenza dei nerd perfettini e urlanti ma vuoti che pullulano oggi nella professione, Massolini è giornalista dentro: testimone, mai protagonista. Perché quello dev’esserlo l’atleta e magari chi lo allena o prepara, non chi per mestiere è chiamato al racconto e alla critica.
Angiolino, che pure in vita sua ha conosciuto anche la sofferenza vera per la perdita della moglie Marilena (al cui ricordo ha dedicato per vent’anni la onlus e l’omonimo Memorial benefico), però è stato anche fortunato. Non solo per l’indole che gli ha consentito rapporti privilegiati con gli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto per l’epoca in cui quei rapporti ha potuto tesserli, coltivarli e viverli. Un contesto storico-ambientale nel quale gli sportivi professionisti erano ancora prima di tutto persone e non, come oggi, aziende “multinazionali”. Massolini però ci ha anche messo del suo, guadagnandosene con la sua correttezza la fiducia, la stima, il rispetto. Sentimenti che vanno oltre il semplice silenzio tombale su fonti né confidenze.
Osservatore appassionato (per lui élite o esordienti pari sono), lui – nello sport Bresciano – sa tutto e conosce tutti; ma ha anche avuto in sorte la possibilità, da freelance e, con la cooperativa nata il 28 maggio 1975, uno dei padri continuatori di Bresciaoggi, di non doversi piegare a certe logiche (redazionali e no) della professione. E pazienza se ogni tanto la spara un po’ grossa, o millanta entrature di favore o (presunti) nastri d’interviste, come quella in camera a Stephen Roche la sera di Sappada al Giro ’87, che poi, neanche dopo oltre trent’anni, non tira mai fuori. L’importante è avere gli strumenti per accorgersene. Perché giornalisti si è. E solidi come il Masso non ne nascono più.
Vado a trovarlo per un caffè in tarda mattinata nella sua casa-museo (la sua collezione di tre-quattrocento maglie e cimeli uno spazio per visitatori lo meriterebbe eccome). E prima di accomiatarsi per andare al consueto pranzo del sabato dalla sorella, non mi lascia andare via senza prima regalarmi una buona boccia di Franciacorta. A Uomini così, fidatevi, impossibile dire di no. Per la naturale semplicità e modestia, chi meglio del 44° Alpino dell’anno potrebbe incarnarne il motto, «nec videar, num sim»: non per apparire, ma per essere.
Grazie, Angiolino. Per il tempo, per i ricordi, per tutto.
Ospitaletto (Brescia), sabato 10 febbraio 2018
- Allora, Angiolino Massolini: va bene se ti definisco la Bibbia del ciclismo, e non solo del ciclismo bresciano?
«Ma no, assolutamente no».
- Partiamo subito con Sappada ’87: il primo pensiero che ti viene in mente?
«Visentini che arriva al traguardo, guarda verso il palco e ad Adriano De Zan dice: “Questa sera facciamo i conti”. Angiolino Massolini ed Enzo Verzeletti [il massaggiatore, nda] lo prendono di peso, gli prendono la bicicletta e lo portano in albergo, al Corona Ferrea, che era a qualche centinaio di metri. Ecco, questo è il primo ricordo che mi viene».
- La famosa frase «Stasera qualcuno va a casa» l’ha detta davvero o gliel’hanno messa in bocca ex post?
«No, no: l’ha detta. Ero là io, per cui… L’ha detta, rivolta a… Non è salito sul palco, da giù ha detto ad Adriano De Zan questa frase: “Questa sera facciamo i conti, qualcuno va a casa”. Ha detto tali parole».
- E dopo che tu e Verzeletti l’avete portato di peso in albergo, che cosa è successo?
«Fuori della grazia di dio. Fuori della grazia di dio… “Non è possibileee…”. “Ma nooo, bastaaa…”. “Smetto di correre”. “Taglio la bicicletta” [in realtà l’episodio della bici segata e poi consegnata in sacchetti al ds Boifava risale alla fine della stagione 1984, nda]. “Non ne voglio più sapere”. “Io… la mia carriera finisce qua”. “È un sabotaggio, non è possibile che un mio compagno di squadra mi attacchi”. Perché sai che Roche ha fatto due attacchi. A un certo punto eran riusciti [a prenderlo] e poi è ripartito: lui, Schepers, la Fagor… Poi lui [Roche, nda] è andato in Fagor, per cui…».
- E alla Fagor si portò dietro i vari Schepers, Millar e compagnia aiutante…
«Esatto. Eran tutti con loro. E [a tirare] c’era anche Chiappucci, mi pare, se non vado errato. Forse…».
- È vero che Roche quell’azione l’aveva preparata in camera con Schepers, un paio di giorni prima? O è nata in corsa?
«Io non ne ho la certezza, ma per me l’ha preparata. Anche perché io ho una bobina... Sono andato in camera da Roche, io, quella sera lì».
- Allora sei stato l’unico giornalista italiano a riuscirci. A quanto mi risulta, l’unico collega a farcela pare sia stato John Wilcockson, un inglese che vive negli USA, a Boulder, in Colorado…
«Io sono andato in camera sia da Roche sia da Visentini, quella sera lì. E con Roche ho registrato delle cose che non posso dire e che mi confermano che l’aveva preparata di sana pianta. E poi anche il giorno successivo, alla partenza della tappa… Eh, insomma, ha detto delle cose, anche su Boifava, per dire: io voglio vincere il Giro d’Italia…».
- Hai parlato di “cose che non posso dire”. Perché non puoi? Neanche dopo oltre trent’anni?
«No, perché ha detto delle cose… fuori di testa. Su Visenta e sul direttore sportivo».
- Roche veniva da un anno, il 1986, d’infortuni e aveva un signor ingaggio. È vero che Boifava all’inizio del 1987 voleva rinegoziare il contratto e tagliargli l’ingaggio?
«Voleva ridurglielo».
- Roche andava a scadenza di contratto e giocava su più tavoli: trattava con Boifava un eventuale di rinnovo con la Carrera e al contempo parlava con la Panasonic, con la Fagor, dove l’anno dopo sarebbe poi effettivamente andato… Visentini invece era intoccabile.
«Visentini per Boifava era come un fratello minore. Quando [Visentini] ha vinto la cronometro e ha conquistato la maglia rosa a San Marino, Boifava in macchina faceva così… [ne mima l’esultanza del diesse che si sporge dal finestrino, nda]».
- Alzava i pugni al cielo?
«Ovviamente. Ci teneva moltissimo che fosse Visentini il vincitore, per cui… Boifava era all’oscuro, secondo me».
- Ai patron Tacchella interessava che a vincere il Giro fosse un Carrera, ma avrebbero preferito… [non mi fa neanche finire la domanda, nda]
«Visentini».
- Ecco, ma per loro era così importante che a vincere fosse il loro capitano italiano anziché il co-capitano straniero?
«Visentini. Visentini, perché lo volevano vestire coi loro jeans, volevano fargli fare il testimonial, roba del genere. Poi, Imerio era innamorato di Visentini, non glielo si poteva toccare».
- Ancora più Imerio che Tito? Perché dei fratelli Tacchella era Tito quello che seguiva la squadra…
«Tito era quello biondo, il più giovane ma Imerio era quello che decideva, capito?».
- È vero che Imerio non seguiva quasi mai la squadra alle gare?
«Rarissimamente. Rarissimamente…»
- A Sappada, invece, quella sera lì, si precipitò…
«È arrivato di notte, credo. Perché noi l’abbiamo aspettato non so quante ore».
- Sai perché? In quei giorni c’era a Venezia il G7.
«Imerio doveva arrivare in elicottero ma aveva avuto dei problemi…».
- Infatti: perché c’era il presidente USA Ronald Reagan in visita a Venezia proprio per il G7.
«Esatto, bravo».
- C’era la no-fly zone e per motivi di sicurezza all’elicottero non fu consentito di atterrare nelle vicinanze. E così i Tacchella arrivarono a Sappada in auto ma tardi, verso le 21, o secondo altri addirittura verso le 23...
«Esatto. Forse anche più tardi. Imerio veniva rarissimamente alle corse. Era sempre Tito, il biondo, che veniva in rappresentanza».
- E quindi lì era proprio un’emergenza, un fatto eccezionale?
«Sì. E anche la cena: normalmente si faceva alle 19, invece è iniziata alle 20. Perché hanno aspettato, stavano aspettando…».
- Tu eri lì in albergo con la squadra. Che atmosfera c’era? Si avvertiva la tensione?
«Allora, c’erano due o tre gruppetti di corridori che commentavano. Leali, per esempio, era fuori della grazia di dio. E diceva: ma insomma, stiamo “rischiando” di vincere un Giro d’Italia quando potevamo vincerlo in carrozza, fare primo e secondo… Eh, cazzo, non vorrei arrivar secondo anche quest’anno, ha detto Bruno [alla Carrera era successo nel 1983 con Visentini dietro Saronni, nda]. Ed io gli ho detto: no, quest’anno lo vincete, alla grande. Chiappucci era il più tranquillo, il più sereno. Cassani aveva i suoi peli da pelare, perché doveva mantener calmo Visentini [suo compagno di stanza, nda]: “Stai tranquillo, vedrai che domani è un altro giorno, non devi fare così…”. E comunque in tutta la sera avranno fatto dieci parole a testa. C’era una tavolata, io ero lì…».
- Hai mangiato lì con loro?
«Sì, sì, sì. Ho mangiato lì, allo stesso tavolo. Pensa che Angelo Zomegnan è venuto, mi avrà chiamato una decina di volte, perché voleva sapere. È ovvio che io sono una tomba. Cioè, vengo a casa tua, e poi ti sputtano?! Ero andato in camera da Roche e in camera da Visentini, per cui avrei potuto… [sorride, nda] E quella lì l’ho registrata. Ce l’ho ancora».
- Zomegnan era il giornalista italiano con cui Roche si apriva di più.
«Zomegnan sapeva tutto. Sapeva che Roche avrebbe attaccato. Ne sono sicuro al cento per cento».
- E quindi vuol dire che si erano parlati uno o due giorni prima…
«A quei tempi era uno dei pochi giornalisti [italiani] che parlava l’inglese. Hai capito? Per cui… Parlava quasi sempre lui con Roche, per cui aveva un rapporto privilegiato. Sapeva tutto. Sono sicuro. E quella sera è venuto lì, mi ha fatto chiamare una decina di volte. Sono uscito.
“Eh, dimmi qualcosa…”.
“Non ti dico niente”.
Ed io avevo appena iniziato a collaborare con la Gazzetta dello Sport…
Poi, mi disse: “Guarda che tu hai chiuso…”.
“Va bene, non è mica un problema”.
Non m’interessa un cazzo, che cazzo me ne frega…».
- Ah, ti ha detto proprio così?
«Sì, sì…».
- E non era una tua ambizione quella di andare in Gazzetta?
«No, no, assolutamente no. No, poi… Collaborare, “far” le corse dilettanti, da Brescia… Avevo già [collaborazioni con] dei quotidiani, [con] degli altri giornali, il Gazzettino, il Ciclismo, che cazzo me ne fregava…».
- E dopo con Zomegnan in che rapporti sei rimasto?
«Sì, [il rapporto] si è un po’… Io lo conoscevo da quando era a l’Unità, aveva sposato la figlia dell’ex direttore del Giro d’Italia. Bravo, comunque, eh. Sapeva fare il suo lavoro».
- Un mastino col fiuto della notizia…
«Sì-sì-sì, non si faceva scappare niente, eh. Stava attento alle virgole, guarda: una cosa pazzesca».
- Non era molto amato, però, né dai colleghi né dall’ambiente.
«Credo da nessuno, o da poche persone. Tant’è che dopo, quando se n’è andato dalla RCS, o l’hanno mandato via, non è che abbia avuto dei rapporti…».
- E invece lì, a parte la sua sfuriata all’arrivo, che Visentini hai visto?
«Roberto purtroppo aveva un difetto: quando c’era qualcosa che non andava per il verso giusto, lui, a livello nervoso, non riusciva più a connettere. Gli si bloccavano le gambe. Ti racconto un episodio. Giro della Valle d’Aosta del ’76, nella tappa di Cervinia, attacca da lontano e il suo direttore sportivo [Mino Denti] gli dice: “Roberto, il traguardo è lontano…”.
“Vado a metà gas…”.
Si è incazzato. Per andare a Cervinia c’è una galleria, non so se sei pratico: è entrato in galleria da solo in testa, è uscito che c’era [Diego] Magoni già con trenta secondi di vantaggio. Per dirti: gli si bloccava tutto, una roba pazzesca…».
- Perché sbroccò? Perché il diesse gli aveva detto cosa fare?
“Sì. Sono io il corridore, tu che cazzo mi dici?! E si è incazzato. Bloccato. È arrivato su a… Stessa cosa, non so, su a Selva di Val Gardena [al Giro] nell’84».
- Ecco, ma prima mi hai detto: ah, taglio la bici…
«L’ha tagliata, la bicicletta…».
- Quell’episodio lì però risale alla fine della stagione ’84, vero?
«Sì. Gliel’ha portata a casa a Boifava, sì, sì… Al Giro dell’84 stessa cosa: tappa del Tonale, Moser pare sia stato trainato. Pensa che l’ha anche vinta Leali quella tappa lì, per altro… [Visentini] è arrivato al traguardo fuori della grazia di dio. Il giorno dopo, Selva di Val Gardena, settantaquattro chilometri di corsa, ha preso non so…». [tappa 19, Merano-Selva di Val Gardena di 74 km, vinse Marino Lejarreta, Moser conservò la maglia rosa e la perse il giorno dopo ad Arabba; Visentini, partito secondo a 1’03” dalla maglia rosa Moser, arrivò a Selva di Val Gardena con un ritardo di 10’44”; nda]
- Leali vinse a Merano, quel giorno lì…
«Sì, e quel giorno lì Visentini al traguardo ha detto che Moser era stato trainato. Visentini ha attaccato sul Tonale, poi Moser è rientrato, è andato via Leali che ha fatto il Palade insieme con altri due o tre corridori. E poi ha vinto Leali». [tappa 18, Lecco-Merano di 252 km, Moser arrivò quinto a 5”dal vincitore Leali e conservò la maglia rosa, con 1’03” su Visentini, 2’06” su Argentin e 2’07” su Fignon, nda]
- A Sappada quindi Visentini soffrì una crisi più di nervi o di fame? Perché poi neanche si è alimentato…
«Crisi di nervi».
- Perché su quella salita quasi sette minuti non li perdi…
«Ma nooo. Ma no. No. Ma poi avrebbe avuto la possibilità [di rientrare]… Perché sai quanti corridori gli sono stati vicino, per qualche centinaio di metri? Argentin no. Come l’ha preso ha fatto così, ha detto: adesso la prendo io la sveglia! Perché lui [Visentini] qualche giorno prima aveva detto: In questo Giro d’Italia [per] Argentin non l’orologio, ci vuole la sveglia, per calcolare il suo distacco…».
- E perché il Visenta si lanciava in queste provocazioni che poi gli si ritorcevano contro?
«È il bulletto. È un suo modo di fare, ma lui è un buono, eh. Ma lui è un buono».
- È un fatto d’insicurezza, come mi dicevi prima?
«Sì. Tu pensa, per dire com’è, “cos’è” Visentini: il diploma d’onore dei campionati del mondo juniores, che ha vinto, l’ha regalato. Cioè: l’ha regalato. Mi telefona un mio amico e mi dice: Sai che ho il diploma d’onore di Visentini? Ma, cazzo, è scemo?! Cioè, per dirti, ecco… La maglia iridata, l’ha data via. Se tu vai a casa di Visentini, non trovi niente. O quasi. Lui era fatto così, non… Ma era così già da quando ha cominciato con la Polisportiva Padenghe, con la Vighenzi [insieme all’amico Duilio Negri, nda]…».
- È vero che il suo grande amore sportivo era più lo sci che il ciclismo? Il ciclismo è stato un dono che gli è caduto dal cielo, e tutto gli veniva facile ?
“Questo è una persona, è un atleta che avrebbe fatto carriera a far tutto».
- Questo perché era nato per fare sport?
«Perché… è un talentuoso. Tu pensa che la prima volta che è sceso in pista, ha vinto. Cioè… Questo andava a cronometro, andava bene in salita. Lo vedevi sciare, era una cosa pazzesca. Lo vedevi giocare a tennis: bravo, cioè… È un talento. È un talento…».
- Solo in volata era zero, vero?
«Sììì. Mamma… E ha alzato le braccia una volta nella sua carriera. Quando ha vinto il mondiale [juniores] a Losanna. Nel giugno ’75».
- Il primo mondiale juniores della storia.
«Il primo, sì. Il primo. La settimana prima ha vinto a Montecatini il campionato italiano su strada, da juniores. Poi ha vinto il mondiale, 6 e 13 giugno, e il campionato italiano a Santa Maria Codifiume l’ha vinto due anni dopo [nell’agosto ’77, nda], da dilettante».
- Era un predestinato?
«…che ha vinto anche una preolimpica, ma la squadra era già fatta. Era un predestinato. Io l’ho visto nascere: quando correva…».
- Quando e dove hai capito che aveva qualcosa di speciale?
«Alla Polisportiva Vighenzi il primo anno che l’ho visto. C’erano due corridori: Duilio Negri, di cui tutti dicevano che avrebbe fatto un carrierone, e questo Roberto Visentini. I primi mesi, erano quasi alla pari. Da metà stagione in poi si è librato in volo. E poi lui da allievo-juniores ha vinto 19 corse: da juniores, questo qui…».
- Negri invece che fine ha fatto?
«Niente, ha fatto una carriera… Ha fatto due anni da dilettante [alla Ceramiche Abetone nel 1978-1979, nda] ma senza… In totale avrà vinto venticinque corse…».
- Mi racconti del Visentini che hai conosciuto tu, il Roberto magari non pubblico?
«Il Roberto non pubblico è una persona amabilissima, che ti dà il cuore. Puoi chiedergli tutto. Se tu gli sei amico, Visentini ti dà tutto. Ad esempio, quando è morta mia moglie [Marilena], lui non mi ha telefonato. Mi ha mandato a dire, da amici comuni: “Di’ a Angiolino che io non ci sono ma ci sono”. Per dirti…». [Angiolino sta per commuoversi, nda]
- Si è occupato poi lui delle pratiche, del funerale eccetera?
«No, no… E altre volte, non so, lo invitavo per le mie manifestazioni: “Io non vengo, tu sai perché non vengo”. Perché mia moglie era “innamorata” di Visentini. Io, al Giro d’Italia, i primi giorni portavo anche mia moglie, per cui lei lo conosceva benissimo e lui conosceva bene mia moglie. E lui non è venuto al funerale, non è venuto perché questa cosa gli pesava… Io di Visenta apprezzo questo modo di fare perché è una persona di una sensibilità eccezionale. La gente non lo conosce bene, ma è una roba… Se tu vai [a trovarlo] e riesci ad avere dieci minuti di tempo a intavolare un discorso tra amici, lui si “spoglia”, ti dice delle cose che sono fuori di testa. È una persona molto, ma molto, ma molto buona. Ho conosciuto pochissime persone così buone come lui. E se può fare un favore – e non solo un favore – lui c’è. Ha aiutato tante persone. E la gente non lo sa…».
- E perché ha questa fama a volte così negativa e tanto immeritata? E perché non ha più voluto saperne non della bici, ma dell’ambiente? Perché?
«Ah, l’ambiente, poi… Lui, quando ha fatto il Tour de France e Delgado l’hanno trovato positivo [nel 1988, nda] e non l’hanno squalificato, ha detto: “Eh, quelli vanno tutti… hanno cilindrata mille, io cinquecento ma vado [con le mie gambe]… Sono sano, non prendo niente”. Cioè, hai capito? E lui non sopportava queste cose. Non sopportava niente. Se uno vince deve vincere con le sue gambe. Questo è. Non prendeva neanche la Cibalgina per il mal di testa… Questo qua, tolto il Cepim per il mal di gambe, non prendeva altro, eh».
- Non ti danno fastidio, ancora oggi, tutti quei luoghi comuni: il bello snob che si presentava in Ferrari, il ricco di famiglia che non aveva abbastanza “fame” per far vita d’atleta…. Non ti dà fastidio tutto questo?
«Dà fastidio perché forse la gente non ha capito una cosa: questo che aveva soldi, questo che aveva donne, come le aveva lui, e aveva tutte le possibilità del mondo, si sacrificava ad allenarsi a correre in bicicletta. Se uno pensa questa cosa… Perché le vittorie lui le ha ottenute con le sue gambe, non per grazia ricevuta. Questo si sacrificava. E questo veramente poteva far la vita da nababbo. Sappi che alla “Tavernetta” di Gardone Riviera [le ragazze] facevan la fila quando arrivava Visentini, per dirti… Bel ragazzo, sempre vestito bene, con le scarpette bianche e nere, sempre tirato “a biro”. Poi lui ha fatto il corridore e l’ha fatto bene, non abusando. E avendo rispetto per i compagni di squadra. Te l’avrà detto anche Cassani questo. Se lui vinceva questa tazzina [m’indica quella del caffè che mi ha appena preparato in cucina, nda], ancora prima che parlavi, “Questa è vostra” [sbatte la mano sul tavolo, nda], per cui se lo ricorderanno bene tutti».
- A differenza magari di uno che quell’anno vinse tutto…
«Be’, Roche deve ancora dare [agli ex compagni] i soldi del Tour de France. Tu lo sai benissimo [ride, alla lettera, sotto i baffi, nda]. Lo sai benissimo…. L’automobile se l’è venduta lui. I soldi [180 mila franchi, il premio al vincitore, nda] se l’è presi lui, perché arrivano al corridore, no? Bontempi &… stanno ancora aspettando, per cui… Visentini è una persona amabilissima».
- Mi parli del Roche che hai conosciuto tu, quindi visto con occhi italiani? Dal punto di vista anglosassone ho diverse testimonianze, me ne manca una italiana…
«Roche non è un latino, non è un “italiano”. È un grande calcolatore, che però riusciva a farsi voler bene. Perché, al contrario di Visentini, era bravo nei rapporti, cioè in qualche maniera lui riusciva…».
- …a farti sentire la persona più importante al mondo in quei cinque minuti in cui parlava con te…
«Bravo. Sai, Cassani, che oggi mi hai fatto una cosa… Sei un grande, sei stato una cosa… Grazie. Lui in queste cose… Visenta invece non… Difficilmente esprimeva queste sue sensazioni, capito? Roche… Roche era bravo».
- Era bravo anche in gruppo, a tessere alleanze, a leggere la corsa. Aspetti che molti sottovalutano.
«Roche poi in gruppo aveva amicizie. Visentini no, e proprio per questo motivo. Anche perché lui aveva questo modo di fare… E quante volte gliel’abbiamo detto, ma non c’era niente da fare: era innato in lui… “Mi son curidor, son più fort, vense”. Basta. Cioè, capito? Invece non basta essere il più forte. Lo testimoniano Merckx e Coppi. Anche loro avevano bisogno di alleanze se volevano vincere, no? E lui ha vinto lo stesso, però… Lui questo tipo di rapporto non l’ha mai… Mai».
- Quell’anno lì Roche era davvero così forte?
«Era forte. Aveva quasi vinto la Parigi-Nizza…».
- E il Romandia, la Volta Valenciana, aveva buttato via la Liegi, facendosi beffare – con Criquielion – dalla rimonta di Argentin…
«Sì, ma quell’anno lì… l’ha buttata via? Boh, non lo so… [ridacchia, nda] Ma quell’anno lì andava. Io l’ho visto al Tour de France, quando non si reggeva e l’hanno portato di peso…».
- A La Plagne, con l’ossigeno...
«Questo qua è arrivato su lui, con le sue gambe, come atleta non si può discutere, e poi ha vinto tutto quello che doveva vincere. A Villach ha vinto il mondiale battendo Argentin… Ha vinto tutto quello che c’era da vincere quell’anno lì. E poi lui comunque era forte di per sé e poi in gruppo lui aveva… Sapeva come… Come Argentin insomma, ecco. Roba che Visentini non è mai stato mai-mai-mai…».
- Al di là di Sappada, si dice sempre che a Visentini almeno un paio di giri gliel’abbiano “rubati”. Tu come la vedi? È vero o anche solo verosimile?
«Uno te l’ho detto io, probabilmente quello dell’83. E quello dell’84, vinto da Moser: cioè era un Giro che doveva vincere lui, secondo me. Secondo me han fatto di tutto per farglielo [vincere]… Comunque io ho registrato [Gian Paolo] Ormezzano, e chi poi ho registrato? Torriani, ad Alessandria, in quel Giro lì dell’84».
- Primo giugno, 14ª tappa: Lerici-Alessandria, vinse Sergio Santimaria. Il giorno prima, a Lerici, storica vittoria di Visentini…
«Eh, parlando di campioni… Mi dissero tutti una cosa: Francesco Moser, per il campione che è, un Giro potrebbe, dovrebbe vincerlo. Ed io mi sono un po’… Ha vinto Moser. Io son stato con Fignon, che è arrivato… Cazzo, è andato a 45 l’ora questo, non è andato piano… È arrivato, eravamo là io e una ragazza di… Là l’elicottero, con Moser, da Soave in poi… Moser ha fatto un’impresa, perché questo andava a cinquanta l’ora, cioè, non c’è niente da dire… Però, quel Giro lì… Io ero lì con Fignon, che è arrivato, non c’era nessuno. Eravamo lì noi tre e si è messo a piangere e dice: Ma come si fa ad andare a questa velocità e perdere il Giro?! Va bè, io non riesco a capacitarmi… Ho pedalato forte tutto il Giro, ho fatto una cronometro che son andato forte, cazzo, mi son preso un minuto e 43”… Una roba, guarda, una roba… Ha preso un distacco da Moser da fuori di testa…».
- Nella crono ha chiuso secondo, a 2’24” da Moser.
«1’43” più una quarantina… Sì, 2’24”. Era 1’43” all’ultimo rilevamento…».
- Alla fine ha perso il Giro per 1’03”…
«Esatto. Sì, ma era andato forte anche lui, solo che lì, tra motociclette… Attorno c’era di tutto. Però a me, ad Alessandria, Ormezzano e Torriani han detto: Questo è un campione, meriterebbe di vincere un Giro, ecco. Io son rimasto... Ricordo benissimo il punto dove me l’hanno detto. Mah, io son rimasto… Mi son detto: Ma porco cane, ci son ancora tutte le salite… Eh. Come fanno questi a pensare queste cose?».
- Roberto in carriera ha pagato questo suo mettersi contro gli sceriffi, contro Torriani?
«Sì, sì, molto».
- E come? Col Giro dell’83? O anche in altre occasioni?
«L’ha pagato dopo. Nell’88 gliel’hanno fatta pagare. La famosa tappa del Gavia gliel’hanno… [sbuffa, nda] Lì, è stata una roba… Eh, purtroppo lui non sapeva convivere con queste cose. Sbagliando. Perché purtroppo per fare questo lavoro bisogna essere anche… Lui non è mai sceso a compromessi e…».
- Perché nell’88 col Gavia? Intendi perché nell’84 lo Stelvio era stato annullato, mentre quattro anni dopo, con condizioni infinitamente peggiori, si salì lo stesso sul Gavia anche in quelle condizioni?
«Quella giornataccia dovevan fermare la tappa, su. E lo Stelvio, siam saliti noi a vederlo, eh».
- E si poteva correre?
«Per-cor-ri-bi-le. Invece da Bormio siamo andati in Svizzera, abbiam fatto un giro dell’oca… Boifava è andato su a veder lo Stelvio quella notte lì, ed era percorribile. Solo che nell’84 ad Alessandria avevan detto così… So che da Bormio abbiamo fatto un giro… Siamo andati in Svizzera… E comunque, lo Stelvio, non era vero che…».
- E invece nell’88, senza Moser, ma con quella tempesta…
«…andava bene. Vabbè, io ho visto Visentini e Saronni disperati, eh».
- Ma il Visenta del’88 era ancora competitivo?
«Sì».
- Di testa non aveva già mollato?
«No, no. Nell’88, quando il Giro l’ha vinto Hampsten, era ancora competitivo. E voleva esserlo…».
- Era il suo ultimo anno in Carrera.
«Sì, poi è andato con Saronni».
- Ha fatto altri due anni (uno alla Malvor e uno alla Jolly Componibili) e poi ha smesso. In quella Malvor altroché due galli nel pollaio: hai visto che squadrone era?
«Sì, ma Visentini con Saronni erano fratelli. Non si sono mai detti “bu!”. Anche da ragazzini, loro si sono sempre rispettati. Sempre. Tu parli con Saronni di Visentini e parli con Visentini di Saronni, loro sono sempre stati amici. È per quello che è andato lì, e c’era anche Bordonali che faceva…».
- Bordonali era stato preziosissimo nella vittoria di Visentini al Giro ’86…
«Fabio, un passistone di quelli…».
- Visentini con lui è rimasto amico?
«Sì, sì, sì. Anzi: Bordonali credo sia uno dei pochi che tramite Visentini abbia avuto soldi dagli sponsor, scarpe Sidi, quelle robe lì. Perché lui con Bordonali era molto amico. I contratti che faceva lui, li faceva fare anche a Bordonali, te lo racconterà anche Fabio. Visentini ha sempre avuto un bellissimo rapporto con Bordonali. Bordonali, persona intelligente: professionista, non lascia niente al caso. Almeno, allora era così. Adesso ci siam un po’ persi di vista perché son tre-quattro anni che non ha più la squadra, però... Persona squisita».
- Che cosa vorresti fosse raccontato, in questo libro, che la gente non sa? Qualcosa per cui poter dire, dopo trent’anni: Oh, finalmente, ecco il vero Visentini…
«Bisognerebbe raccontare la storia di un Visentini che ha vinto un Giro d’Italia e che invece avrebbe dovuto vincerne tre».
- A lui per primo interessava poi così tanto, vincerne tre?
«Sì. Lui era innamorato del Giro d’Italia. Visentini avrebbe potuto vincere anche altre corse. Sicuramente».
- È vero che era più adatto al Tour, a quei Tour, e a classiche dure come la Liegi? E che non gli è mai piaciuto correre col caldo? E già che ci siamo, nell’87 disse davvero che al Tour non sarebbe andato, perché lui, a luglio, voleva starsene “con le balle a mollo”?
«Lì, l’ha detta. Lì, Roche gliel’ha fatta pagare. Tu hai in mente Roche? Siccome lui sapeva di dover andare al Tour, allora, cazzo, ha detto: io do una mano a questo, e lui se ne sbatte i coglioni… E Visentini aveva di queste uscite, purtroppo. Il suo problema è che se lo diceva quando c’era Massolini non succedeva niente, ma se lo diceva quando c’era Angelo Zomegnan, quando c’era Beppe Conti, quando c’era… Per lui era una cosa normale. Cosa che non ha mai capito».
- Da questo punto di vista era un po’ ingenuo. O semplicemente se ne fregava?
«Ingenuo-buono. Ingenuo-buono, e poi diceva: io me ne sbatto i coglioni. Cioè, hai capito? E comunque Visentini è stato uno dei pochi fuoriclasse che l’Italia ha avuto. Questa almeno è la mia…».
- E come spesso succede, li butta via…
«Però, come spesso succede, anche i fuoriclasse riescono a buttare a mare successi strepitosi. Perché questo… Io l’ho visto arrivare secondo nella cronometro del Tour de France ’88. (*) Uno che arriva secondo in una cronometro così lunga, deve avere i numeri. Solo che lui al Tour de France teneva duro un giorno, due giorni, tre giorni poi… “Diretuuur… Son straaac…”. Sono stanco… Per cui Visentini, per me, è un fuoriclasse mancato perché le qualità le aveva, ma non è riuscito a esprimerle. Forse, se avesse avuto la fortuna di esser seguito da Mino Denti per tutta la carriera, forse… Non perché Boifava non sia [stato] bravo, eh, sia chiaro. Cioè: Boifava, molto bravo; ma Mino Denti riusciva a “entrare” in Visentini come nessun’altra persona. Lo andava a prendere a casa. Andiamo a Montecatini in tenda, che dopo due giorni c’è la corsa... E là, in tenda, si faceva raccontare. Gli chiedeva: cosa hai fatto, adesso cosa fai? Cioè, con lui aveva un rapporto tutto particolare. Riusciva a farlo ragionare».
- Sapeva come prenderlo.
«Sì. Riusciva a farlo ragionare. Boifava, un grande tecnico, ma a livello psicologico… Se Visentini avesse avuto Mino Denti… C’è una cosa che Mino Denti ha detto quando Visentini ha vinto la maglia bianca [al Giro ’78, nda]. El dis: “Angiolino, sai che siamo di fronte quasi a un Coppi? Perché uno che ha la bronchite e vince la maglia bianca…”. Cazzo, cioè, questo al debutto… Questo ha i numeri. Però non è mai… Gli è mancato Mino Denti».
- Prima hai detto «Boifava bravo, ma a livello psicologico…». A Sappada sbagliò lui? E perché andò da Leali e gli altri Carrera per farli tirare e chiudere il buco?
«Io non lo avrei fatto. Per me, è andato in tilt anche lui quel giorno lì. È andato nel pallone e probabilmente non si aspettava quell’attacco… Perché non se lo aspettava. Lì che lo sapevano erano… Della squadra lo sapeva Chiappucci. Della squadra chi lo sapeva era Chiappucci. Te lo garantisco io. Io l’ho visto prima, dopo, in corsa… E se il Chiappa vuole, te lo dice… che lo sapeva».
- Il Chiappa in realtà mi ha detto altro. Lui veniva dalla caduta al Giro di Svizzera dell’86, era al terzo anno da pro’. C’era il rischio che i Tacchella, con Roche e Schepers mandassero a casa anche lui, che era pure in scadenza di contratto. E quindi il suo primo pensiero era difendere la maglia rosa del capitano, poi che fosse l’uno o l’altro, per lui era indifferente. A lui interessava portare a casa la maglia rosa e i premi, e garantirsi il contratto per l’anno dopo. Però su questo, e cioè se dell’attacco sapesse o no, ha glissato…
«Lo sapeva, te lo garantisco io».
- Perché Boifava lo chiamavano il Cardinale?
«Sai come si dice nel Bresciano? Un fratün… Sai cosa vuol dire? Uno che sta bene con tutti, che dice bene di tutti, che son tutti bravi…».
- In dialetto bresciano cosa vuol dire? Un pretone?
«Fratün, un frate, una persona accomodante… Cioè, ha le sue qualità. Perché uno non vince quello che ha vinto lui se non hai quelle qualità. Ecco, però se dovessi scegliere tra i due tecnici, non sceglierei Boifava».
- Chi sceglieresti?
«Mino Denti, anche se non ha fatto il direttore sportivo nei professionisti, però sapeva mettere in bicicletta i corridori come nessuno al mondo. Tutti i corridori venivano da Mino Denti a farsi far le misure. E a livello psicologico, fuori della grazia di dio. Sapeva tutto, della persona. Lui s’infortunò al Giro d’Italia [del 1970] scendendo dal Crocedomini, è stato undici mesi a letto. Ha letto migliaia di libri e sa tutto di tutto. Se ti vede camminare ti dice che problemi hai, non in bicicletta, eh: a camminare. Mi ha visto in bicicletta una volta a Ronco di Gussago, mi ha detto: “Vieni domani che ti metto a posto, scommetto che a te fa male qui, così…”.
“Sì, dopo qualche chilometro mi fa male qui, così…”.
Sono andato, ho portato la bicicletta, non so cosa ha fatto… Ed io non ho più sentito il mal di schiena, per dire com’era preparatissimo… E poi, soprattutto, a livello psicologico. E come preparava le corse… Non sbagliava mai. Se Visentini avesse fatto quello che Denti voleva, quel Giro della Valle d’Aosta l’avrebbe vinto lui. Ha voluto fare di testa sua, l’ha perso. Cioè, per dire… Anche Boifava è stato anche sfortunato in carriera. Sai che lui ha avuto degli incidenti. Un bel corridore. Però, ecco: se io dovessi scegliere non sceglierei lui».
- Mi racconti di quando fece piangere Merckx?
«Eh, cazzo, porco cane: al Trofeo Baracchi [al debutto da pro’, nel ’69, nda], bòia làder… Cazzo, Merckx non riusciva a tenergli la ruota, porco cane. E sono arrivati qua a Brescia».
- E piangeva per quello?
«Piangeva. E Boifava che diceva: ho fatto quattro o cinque Trofei Baracchi, sempre con corridori buoni, ma mai con fuoriclasse; lo faccio col fuoriclasse, cazzo, devo tirarmelo dietro… Cioè, è arrivato che era sfatto dalla fatica, ma non solo dalla fatica… Era incazzatissimo, nero. Io l’ho visto sotto la doccia, ancora tremava dal nervoso, porco cane… Arrivati a Brescia, quell’anno lì…».
- Secondo te perché Boifava non vuole parlare?
«Tu hai letto il libro che ha…?».
- Sì.
«Che cosa hai capito?».
- So che ha due paure, almeno questa è la voce che mi è giunta: una è che gli chiedano di Pantani o del doping, e l’altra, riferita a me, “questo qui è uno che vuol far casino con Sappada…”.
«Non so se riuscirai a parlare con Boifava».
- Perché, ha qualcosa da nascondere?
«Quando ti ho detto che io, se dovessi scegliere, sceglierei Denti, è perché Denti, nella bella e cattiva sorte: “Sono Angiolino, ho bisogno di parlarti…”. “Pronti: a che ora vieni?”. Col Davide: “Chiamami questa sera”; “chiamami domani mattina che vedo come sono messo, c’è…”».
- Questo l’hanno raccontato anche alcuni suoi ex corridori. Allora quando vengo a firmare? Rimandava sempre poi li prendeva firmandoli al minimo, quando rischiavano di restare a spasso.
«“Eh, aspetta, la settimana prossima…”. Qualcuno, come Mario Chiesa, a furia di aspettare è rimasto a spasso. Non solo Chiesa, anche altri così... Eh sì, perché poi lui diceva: adesso siamo, dico una data: 15 novembre, adesso firmi, ti do questo, altrimenti… Ma l’ha fatto anche con corridori che ha cresciuto lui, non solo con... Cioè, ha sempre fatto il team manager. Guarda, si è lasciato [male] con Bontempi, con Leali, con Chiesa. Chiesa, dopo, se l’è tenuto lì a fare il direttore sportivo. Leali, doveva ancora baciare il buco del culo a Boifava, scusa eh, poi aveva fatto tutto, cioè veramente… Leali, per quell’uomo lì, ha dato più di quello che poteva dare, voglio dire... E Bontempi, cazzo, gli ha risolto i problemi dal 1981, quando Guido è passato professionista. Primo corridore a vincere. Si aspettavano tutti Battaglin, che poi ha vinto, però il primo a vincere è stato Bontempi. Cioè questi sono corridori che veramente hanno dato… E Chiesa? Cazzo, Chiesa… Gli stipendi che dava a queste persone, tu lo sai benissimo insomma, cioè… E queste sono persone che hanno dato veramente tutto. Bordonali prendeva qualcosina in più perché era più furbetto, e poi aveva dalla sua parte Visentini, hai capito? Sai che tutti firmano [per l’anno dopo] già al Giro d’Italia, ma lui diceva: Nooo… ma no, dopo il Tour, dopo il campionato italiano, dopo la Milano-Torino, dopo il Giro di Lombardia ci troviamo… Cazzo. Le squadre sono fatte. Caro “Giordano”, guarda: qua io adesso posso darti questo... Altrimenti fai quello che vuoi. Faceva gli interessi della società, ovviamente. Non è che facesse il suo interesse personale, però… Infatti, se hai parlato con Leali, ti avrà detto le stesse cose. Se hai parlato con Bontempi, ti avrà detto le stesse cose. Bontempi dà l’addio al ciclismo, viene e gli porta un portachiavi della Mercedes o del Bmw, cioè… Cazzo, questo qua, delle 83 corse con te, ne avrà vinte 75… Cazzo, non portar niente! Non porti niente, cioè… Un portachiavi?! Mi ricordo quel fatto, e Guido mi ha guardato come a dire… Con Guido poi siamo fratelli, e questo poi non tiene giù niente, per cui… “Hai visto il diretur cosa mi ha portato…”. Sì, ho visto, cazzo, eh… Grande…».
- Raccontami delle figure che sono state meno raccontate: il meccanico Patrick Valcke, il secondo ds Sandro Quintarelli, il gm Gianfranco Belleri.
«Belleri è un grande. Belleri è un grande perché aveva le qualità…».
- Era più team manager e amministratore che addetto stampa, vero? Una tramite tra la proprietà e la squadra?
«Esatto, sì. Era il punto di riferimento della società ciclistica e dell’azienda. Seguiva anche il marketing dell’azienda. Lui era là a Caldiero. Abita a Ome. Lui è un alpino, è consigliere della sezione, ha organizzato delle cose straordinarie anche come alpino. È una persona molto preparata. E poi aveva aperto un’agenzia con altre persone, non so se l’ha ancora, ma fa sempre lo stesso lavoro».
- E quindi non lavora più con i Tacchella alla Carrera?
«No, no: ormai sono anni. Sono almeno sette-otto anni. Però il marchio Carrera è stato lui a diffonderlo».
- E com’erano avanti. Per esempio, nel look. Quella maglia era bellissima…
«Sì, ma poi lui in queste cose era il numero uno».
- I corridori andavano in piazza Bra a Verona a scegliersi i capi, di rappresentanza e non solo, purché firmati Carrera…
«Son andato anch’io. Credo di avere ancora delle giacche, roba del genere.s Sceglievano loro. Belleri è una persona molto preparata. Quintarelli era il “frate servente” di Boifava. Faceva tutto quello che c’era da fare. Pietro Turchetti, la stessa cosa. Turchetti non l’hai conosciuto?».
- No.
«Hanno fatto insieme due-tre anni con Martinelli, forse anche quattro. Martinelli con Quintarelli sarà stato almeno tre o quattro anni. Te l’assicuro io. Il Quinta è una persona molto disponibile».
- È vero che aveva un debole per Chiappucci, magari a scapito degli altri della squadra?
«Era “innamorato” di Chiappucci, lui. Lui per Chiappucci impazziva, ma Chiappucci era bravo a coltivarsi, eh…».
- Ancora oggi è amico di Roche…
«Non è Visentini, capito? È questa la differenza».
- Un altro che non vuole parlare è il dottor Giovanni Grazzi, il medico sociale. Di lui che cosa mi racconti?
«Io l’ho conosciuto ma non ho mai avuto un rapporto... Sì, ciao, ciao. Sempre disponibile, però non sono mai riuscito a entrare in perfetta sintonia. Persona per bene, sicuramente».
- Nel ciclismo ha lavorato solo nella Carrera, poi ha fatto tutt’altro percorso professionale…
«A livello sportivo, solo con la Carrera. Era il punto di riferimento».
- Alla festa per il trentennale, il 30 settembre 2017 a Caldiero, c’era. Qualche volta va a cena da Leali.
«Da Leali tante volte. Da Leali a mangiare vanno il dottor Grazzi, quel giornalista di Milano… Poi vado io, dell’ambiente tre o quattro persone… Sai che lui ha avuto le sue peripezie, gli hanno buttato addosso anche…».
- Ha pagato anche colpe di altri?
«Leali è troppo…».
- Ne ha combinate di grosse?
«Troppe. Sei è fatto trovare con la mano nella marmellata proprio da… Ma no, è pazzesco… Al Giro d’Italia, poi, non è possibile… Cazzo. Io gliel’ho detto: ma anche tu, scüsa, eh… Anche quando ha fatto la squadra con Giupponi e Bordonali, anche lì, cazzo, svegliati, no? Eh, non è… Era un mulo. Andava bene in corsa. Ha le figlie preparatissime. Anche la moglie, ma le figlie sono preparate».
- Bruno stesso mi ha detto che l’hanno salvato loro, le figlie e la moglie: gli sono state molto vicine dopo la radiazione.
«Sì, sì. Le figlie e la moglie. Le figlie sono molto preparate».
- E cosa fanno, le figlie?
«Una sta facendo qualcosa con l’università, l’altra marketing in una grossa azienda».
- Lavorano con la squadra?
«Una, la seconda, è presidente. Lì c’è stato anche il medico che non ha voluto testimoniare, altrimenti secondo me gli toglievano tutto… ma lui non si sa muovere. Come corridore era un mulo. Metti, corri e vai. Ma quando scendi dalla bicicletta, se non hai delle altre qualità…».
- A proposito di altre qualità, di Valcke che mi dici?
«…qui siamo messi bene, eh» [ride, nda].
- Sai che da ottobre non è più l’addetto stampa del Lens di calcio?
«Ah no? Questo è preparato, eh. Questo sa navigare, eh. Questo sa navigare… Io lo conosco ma non… Sono anni che non riesco a…».
- Era un uomo di Roche, ma alla fine sono riusciti a rompere anche fra loro…
«Dopo un paio d’anni, forse tre. Dopo la Fagor… Perché era stato lui a fare tutto, no?
- Pare sia stato lui anche a ordire l’attacco di Sappada. Quei tre li chiamavano “il Diavolo” (Valcke), “il Ribelle” (Schepers) e “Giuda” (Roche).
«Erano i quattro moschettieri: dei corridori, c’erano Chiappucci e lui».
- Erano in quattro? E il quarto era Chiappucci?
«Per me, sì. Schepers poi ce l’aveva con Visentini perché nel ’77 al Tour de l’Avenir… L’ha vinto Schepers davanti a Johan van der Velde [a 1’46”], terzo Visentini [a 2’29”]. E lì, durante il Tour de l’Avenir, hanno litigato tre o quattro volte… Ce l’aveva con lui già da allora, sì-sì-sì…».
- Altro dettaglio che entra nel quadro di Sappada.
«Sì, nel ’77 vinse Schepers, secondo van der Velde, terzo Visentini. E là si son fatti una guerra pazzesca. E dopo lui, Visenta, non sta mai zitto: “…ehhh… ti ho visto attaccato [all’ammiraglia]…”. È tremendo».
- E non è cambiato? È ancora così?
«È ancora così».
- Ma se è uno che non le ha mai mandate a dire, perché ce l’ha ancora tanto con i media e non vuole parlare con i giornalisti? Perché gli hanno sempre travisato quello che diceva? O perché l’hanno tradito?
«Solo Cassani, per la Rai, è andato a casa sua. Nessun altro giornalista, eccezion fatta per…».
- Magrini è riuscito parlargli al telefono in diretta alla radio.
«Magrini, sì. Altrimenti lui non vuol mai parlare. Se vuoi, ti ci faccio parlare adesso».
- Cassani è uno piuttosto bravo nelle pubbliche relazioni, no?
«Bel mestierante».
- Eppure di lui Visentini si fida. Cassani, da Ct, è andato a trovarlo quando era in ritiro sul Garda dove la la nazionale preparava il mondiale di Bergen 2017. Cassani voleva anche portarlo alla festa di Caldiero per il trentennale...
«Ma non solo una volta è andato a trovarlo. Non solo una volta. Anche quando è passato il Giro d’Italia, due o tre anni fa, lui è passato a trovarlo. Sì, sì… Ha una casa bellissima a Salò. Va a bere il bianchino lì a destra, sulla curva per entrare a Salò…».
- Gli fai due battute in dialetto e si scioglie...
«Io poi lo conosco da ragazzino proprio… Io ho avuto la fortuna di… io ho vinto al Totocalcio perché con Ermanno Mioli e Dante Ronchi [di Stadio, nda] mi hanno trattato come un figlio più piccolo, ma veramente. Mi hanno fatto entrare in alcuni eventi che io mai mi sarei sognato. Mi portavano con loro, con le loro famiglie. Perché noi portavamo sempre le mogli, a tutte queste riunioni. Mi hanno insegnato a rispettare i corridori, a voler bene ai corridori. La prima cosa che mi dicevano. Ronchi: “…mia voler bene ai corridori, perché sono degli uomini anche loro, e bisogna rispettarli e volergli bene”. Mi hanno insegnato a raccontare il ciclismo senza sotterfugi. Tenendo sempre presente che il corridore è prima uomo e poi corridore. È quello che mi hanno insegnato. Per quanto attiene la tecnica, Rino Negri e Mario Fossati mi hanno detto che prima di parlare della bicicletta, prima di parlare del corridore come pedala, bisogna conoscere la bicicletta, bisogna conoscerla in tutte… E mi hanno fatto schizzi , disegni, mi hanno fatto scuola, mi hanno insegnato a riconoscere chi pedalava bene, chi stava male in bicicletta, chi si faceva fare la bicicletta e chi invece non andava a farla e gli andavano bene tutte. Cioè, hai capito? Raschi, quando parlava uscivano i fiori, cioè… Io lo chiamavo “dottor Raschi” e lui dava del lei a tutti [Ha raccontato Franco Rubis, grafico della Gazzetta: “Dava del tu a Maurizio Mosca, forse perché lo faceva ridere, e se lo faceva dare da Nino e Luigi Gianoli”, nda]».
- Anche ai colleghi?
«Siamo andati a mangiare a casa sua, a Borgotaro. “Lei…”. Dava del lei... Sì. “Mi scusi, dottore, ma…”. “Si sieda lì.” Aveva una sorella, Anna. Io ho avuto la fortuna di vivere una Sei Giorni insieme con lui, tutta la Sei Giorni. Mi ha fatto fare di quelle scoperte… Straordinarie.
“Veda, lei, adesso, guardi là cosa sta succedendo, vede? Adesso, è “Giordano” che vince questa volata. Lo scriva pure”.
“Eh, ma dottore…”.
“Veda, l’americana la vincono quei due là…”.
“Eh, ma partono tra mezz’ora…”.
“La vincono quei due là!”
Io ho avuto questa grossa fortuna di avere avuto…».
- …questi maestri qua. Una fortuna che ti invidio molto.
«È un patrimonio. Poi mi hanno accolto, non so, Romolo Mombelli de La Notte, non so come mai…». [storica firma de La Notte di Nino Nutrizio, Mombelli è stato anche animatore di eventi ciclistici e di pugilato. E, al fianco dell’amico Agostino Omini, uno dei grandi fautori delle fortunatissime edizioni della Sei Giorni di Milano, nda].
- Era anche per questo tuo modo di fare? O perché allora era così?
«Per me, era così. Io però ho sempre seguito ciclismo e sci con passione. Allora, non so, torno da Cortina d’Ampezzo, dalla Coppa del mondo, il giorno dopo vado a vedermi i “cuccioli”, i baby in Val Palot e per me è la stessa cosa. Torno dal Giro d’Italia e vado a vedere gli esordienti: stessa cosa, stessa emozione, non cambia niente, per dirti… E loro avevano la stessa passione. Mi hanno raccontato delle cose che solo chi ha passione riesce a trasmetterti. Non so, ad esempio con Fossati, che era un tipo… Sembrava sempre che volesse ammazzare tutti, no? L’hai conosciuto? Ecco, lui sembrava sempre che volesse ammazzare tutti: “…eeeh, capissi un casso… E non rompermi i coglioni. Cosa vuoi sapere?”».
- Poi però ti diceva…
«Tutto. Tutto. Tutto-tutto… E questi erano giornalisti, eh».
- Con la maiuscola…
«E anche Sergio Neri. Gianni Mura. Ho fatto il moderatore a una serata, tre o quattro mesi fa, ho presentato un suo libro [Non gioco più, me ne vado, venerdì 7 aprile presso l’auditorium del Monastero di San Pietro in Lamosa di Provaglio d'Iseo, per la rassegna "Chiostri & Inchiostri - Incontri d'Autore", nda]… Eh, Mura, cazzo. Mura, siamo messi bene, però è un altro tipo di giornalista. Ad esempio Brera: io ho avuto la fortuna di frequentarlo, perché lui era spesso a Brescia ed era amico del mio ex capo Giorgio Sbaraini, ma non mi è mai… Non sono mai impazzito per lui, per dirti…».
- Per lo stile o per la personalità, il carattere?
«Per lo stile. Non lo so, non ho mai avuto feeling. Con questi, invece… Anche perché questi qua erano veramente punti di riferimento del giornalismo, e non solo italiano. Io, ragazzotto di provincia che parte da Ospitaletto… Ed ero come uno di loro… In tutto: dove andavano loro c’ero anch’io…».
- C’eri non solo a Sappada ’87, ma anche in occasione di un altro Giro controverso, quello del 1983. Che cosa successe?
«Pare che un corridore sia partito un minuto prima».
- Nella crono conclusiva, la Gorizia-Udine di 40 km? La vinse Visentini con 32” su Daniel Gisiger e 49” su Saronni, che conquistò così il suo secondo Giro d’Italia. Senza gli abbuoni, però, come tempi effettivi su strada, l’avrebbe vinto Visentini…
«Gli abbuoni c’erano anche per Visentini, eh. Però non ha rubato niente, Saronni. Lì pare ci sia stato… Però chi ha le prove? Non è dimostrabile. Secondo me, chi sa tutto è Colnago».
- Ernesto Colnago, che è sempre stato uomo di Saronni…
«Cioè…».
- Mi racconti del “giallo del Guttalax”, il presunto complotto ordito dall’industriale Giovanni Arrigoni?
«Quello delle ruote, quello calvo. Non c’entra niente il cameriere lì, non c’entra niente. Comunque questo Arrigoni era un bel birichino, eh».
- L’hanno poi arrestato, no?
«Eh, madonna…».
- Ma come si fa a congegnare un simile piano, e poi per cosa, per “salvare” la maglia rosa e così farsi pubblicità?
«Lui l’aveva anche congegnato bene. È che lo sapevano troppe persone».
- Questo suo presunto amico complice chi era?
«L’ho visto un volta ma non saprei dirti. Pensa che questo Arrigoni aveva un’azienda, la Fir, eh».
- E che signora azienda.
«Porco cane!».
- Ai tempi era all’avanguardia.
«Era quello che aveva fatto quel famoso ruotone per la bici da crono di Visentini, quello bombato, che poi non hanno omologato. È stato lui. Siamo andati a Caldiero. L’hanno presentato a Caldiero dai Tacchella».
- E poi non passò…
«No…».
- Che cosa è successo quella sera a Gorizia?
«Non te lo so dire».
- Era tifoso di Visentini questo Arrigoni? O quel folle piano lo avrebbe attuato a prescindere da chi fosse in maglia rosa?
«Tifoso di Visentini, sì, sì. Sì, sì: guai… Per fare quel ruotone là, ha speso… porco cane!».
- La FIR (Fabbrica Italiana Ruote), ai tempi, era un’azienda florida o era in crisi?
«Era un’azienda… Ma la FIR, ragazzi, era un’azienda… La Fir è stata la prima a far delle ruote che in giro se le sognavano: profilo alto, razze… Io, boh, non lo so…».
- Fondata nel 1956 dai fratelli Arrigoni, aveva sede nel Bergamasco, no?
«Provincia di Bergamo. Lui, Giovanni, era “innamorato” di Visentini...».
- La Carrera era all’avanguardia in tutto: materiali, mezzi, organizzazione, internazionalità del marchio e del mercato; i Tacchella volevano almeno un corridore per nazione (Schepers in Belgio, Roche in Irlanda), il nucleo degli svizzeri (Zimmermann, Mächler, Breu)…
«Certo. Hanno vinto anche la Sanremo, con Mächler. Hanno avuto dei corridori… Hanno avuto Zberg, ma loro non sceglievano a caso, eh…».
- Roche vince la tappa dell’Aubisque e fa terzo al Tour ’85 e Boifava va a prenderlo per l’anno dopo…
«Sì, sì, ma loro [anche] in questo son sempre stati all’avanguardia. Anche nell’azienda erano così: punti-vendita a macchia di leopardo. Non l’hanno fatto a caso. Poi anche loro hanno avuto un momento di difficoltà. E invece pare che il marchio stia andando bene anche adesso…».
- E dei Tacchella nel privato mi dici qualcosa che sanno in pochi o magari solo tu?
«I Tacchella sono degli imprenditori che nonostante il successo hanno conservato la modestia. Erano delle persone veramente disponibili con tutti. Avevano un rapporto, ad esempio con le maestranze, che era fuori di testa. Tito andava giù e si metteva lì, vicino alla macchina di chi cuciva, e lui si sedeva, “passami il filo”, cioè…».
- Era uno di loro…
«Imerio era uno di quelli che, non so, se andava in azienda e vedeva che questa cosina qua la facevano in tre secondi invece che quattro, lui, senza dir niente, faceva trovare in busta un premio, per esempio. Loro erano molto legati, ed è il padre che ha insegnato loro…».
- E Domenico? Dei quattro fratelli, è sempre il meno citato…
«Domenico è quello che lavorava di più a livello fisico e che quasi sempre si nascondeva, non so... Tito era sempre con i corridori. Sempre. Vabbè, quando poteva. Imerio aveva ben altre cose [cui pensare]: Inghilterra, Francia… Era lui che gestiva il tutto. E tutti e tre sono persone molto per bene».
- Il quarto, padre Eliseo, è un frate comboniano, vero?
«Noi eravamo non a Valpolicella, è a Stallavena che si andava. C’è un posto dove ci si trovava e veniva anche questo frate. Sono persone molto per bene. Io ho un grandissimo, bellissimo ricordo. C’è gente che se n’è anche approfittata, che andava via col baule della macchina…».
- …bello pieno?
«Sì».
- Ti ricordi quando, nel ’90, rapirono Patrizia, la figlia di 8 anni di Imerio?
«Certo. L’hanno trovata dopo… Sarà stato più di due mesi. Forse più di due mesi, e avranno anche pagato. Belleri in questo ti sa essere più preciso. Perché lui l’ha vissuto, e gestito, proprio…». [Patrizia Tacchella fu rapita a Stallavena di Grezzana il 30 gennaio 1990 e liberata 79 giorni dopo, il 17 aprile 1990, a Santa Margherita Ligure, nda]
- Patrizia, 25 anni dopo, si è incontrata con il Comandante Alfa, uno dei fondatori del GIS, i corpi speciali dei carabinieri, che l’aveva liberata. In quell’Italia succedevano delle cose…
«Eh, purtroppo sì. È stata dura. Son passati degli anni, eh».
- Torniamo al ciclismo. In quello attuale c’è una forbice amplissima tra il Team Sky, che ha un budget di 35 milioni di euro l’anno, e le altre grabdi squadre, comprese autentiche multinazionali come Bahrain-Merida, Movistar, Lotto, FDJ, Quick-Step e figuriamoci con le medio-piccole e piccole. A quei tempi invece com’era il rapporto tra la Carrera e le altre grandi come Renault, PDM, Del Tongo eccetera?
«Sì, anche là c’erano sette-otto squadre forti, eh. La PDM di sicuro, la Del Tongo, la Scic, son squadre che avevano un budget importante. Dopo c’era la Renault-Gitane, poi diventata Renault-Elf. Tutte squadre che hanno avuto dei campioni. Hanno avuto LeMond, Hinault, questa gente… Ma i budget non erano paragonabili a quelli di adesso».
- Neanche la distanza tra le big e il resto…
«Neanche la distanza. Non so se la Gitane aveva un budget di 3 miliardi [di lire], la Carrera ne aveva 2,8, quell’altra ne aveva 3,2. Ma eravamo lì, non era, come invece è adesso, una roba completamente… E poi il numero di corridori [per squadra] non era com’è adesso. Chi aveva tanti corridori ne aveva 17-18, ma era proprio una roba eccezionale… Per fare magari due attività…»,
- La doppia attività era, al massimo, Parigi-Nizza e Tirreno-Adriatico che si sovrapponevano, no?
«Erano pochissime quelle situazioni. Adesso invece hanno 25-30 corridori, cioè è una roba…».
- E si corre quasi tutto l’anno…
«Non c’è più calendario. Là si apriva al Laigueglia, e col Lombardia era chiuso. C’erano tre mesi di riposo attivo per i corridori. Adesso invece finisci il Lombardia e il giorno dopo vanno a far le misure della bicicletta».
- C’è rimasto novembre ancora un po’ libero…
«Sì, ma a novembre ci son le corse asiatiche».
- Poi magari a fine novembre ti mettono la presentazione del Giro dell’anno successivo e così non stacchi mai, neanche con la testa… La Carrera, per esempio, fu anche tra le prime a fare il ritiro in altura, vero? A Calpe, dove oggi van tutti…
«Sì. Son stati antesignani anche in questo. Son stati i primi».
- Non mi hai ancora raccontato di Giancarlo Perini e di tutti questi corridori qua…
«Ah, Perini è un santo».
- Che poi di Perini si è parlato eccome: il “Duca di Benidorm” fu essenziale nel secondo trionfo mondiale di Bugno, nel 1992. Che cosa mi dici invece dei tanti corridori meno celebrati?
«Sì, ma sai cosa ha fatto Perini per quella squadra? Lui e Leali e Ghirotto erano veramente i muli di quella squadra».
- Mi parli un po’ del clan dei bresciani che tu conosci così bene?
«In quel Giro ce n’eran tre [Visentini, Bontempi e Leali, nda; l’anno prima, con Bordonali, quattro; nda]».
- È vero che il Visenta a mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo, voleva avere i “piedi sotto il tavolo” e pranzare? Sugli orari però Bontempi non concorda. L’appuntamento per andare ad allenarsi insieme era all’edicola del fratello di Boifava, ma orari e percorsi non tornano…
«Sì, per Visenta l’orario era determinante. Lui alle dodici e mezzo voleva essere a tavola. Se noi andiamo a trovare Visenta che son le undici, “ragazzi, adesso io vado. Beviamo il bianchino e poi andiamo».
- Aveva questa fissa degli orari per fare vita regolare?
«Sempre. Sempre. Ha sempre avuto questa… Guido no. Guido faceva sempre le finte. Ah no, sono stanco, sono stanco… E poi andava ancora per cinquanta chilometri».
- Perché lui i chilometri in più che non faceva all’andata li faceva al ritorno, vero?
«Esatto. Sempre. Leali e Visenta venivano da là, perché abitavano vicino».
- E l’edicola del fratello di Boifava faceva da punto di riferimento?
«Sì, si trovavano lì. Andavano a bere l’acqua a Vallio, andavano a fare i loro giri, si allenavano veramente, allora».
- Anche perché poi tanto tempo per allenarsi non c’era. Erano alle corse duecento giorni l’anno.
«Ah, be’, la Carrera poi aveva un calendario… E poi, soprattutto, non c’erano trenta corridori come adesso. Erano quasi sempre gli stessi, per forza. Perini e Leali, ad esempio, c’erano dappertutto. Perini e Leali tutte le corse facevano».
- Dei colleghi giornalisti mi ha già parlato. E invece quali sono i corridori o i diesse a cui sei rimasto più legato, al di là del lavoro?
«Legato-legato-legato, sono a Visentini, Bontempi e Chiesa. Mario Chiesa, ad esempio, è una persona di una statura straordinaria».
- E di Enrico Zaina cosa mi dici?
«Di Zaina sono amico ma non… Se dovessi uscire a cena con uno del ciclismo, Zaina lo metterei al quarto posto, ecco. Ho sempre avuto un bel rapporto, ma “bello” come con questi tre, e soprattutto con Visentini… Sei o sette anni fa [era il 25 aprile 2011 a Nave (Brescia), nda] hanno premiato Alfredo Martini, premio Luigi Bussacchini, e non sapevano come fare a invitare Visentini. “Noi lo abbiam invitato dieci volte, non viene mai…”.
L’ho chiamato e gli ho detto: “Guarda, c’è il premio Bussacchini e c’è Martini…”.
“A che ora devo essere lì?”.
Perché? Perché c’è un tipo di rapporto che va al di là… Perché io andavo nelle camere dei corridori. Vedevo tutto. Sapevo tutto. Ma… una tomba. E questo loro lo apprezzano. Io ho visto… Potrei scrivere… mamma mia. Però è giusto essere… Anche nello sci ho questo tipo di rapporti. E anche nello sci, da Thoeni in poi, io potrei scrivere... Anche lì, però, sono rapporti che… Non so, sono fortunato ad avere questi rapporti. Non so…».
- Non è solo fortuna. Ci può essere qualche coincidenza, una componente di casualità perché magari sei lì nel posto giusto al momento giusto, ma in una carriera di trent’anni… Non la chiamerei fortuna, ecco.
«No, ma mia [in dialetto bresciano-veneto sta per “bisogna”, nda] essere fortunati perché, sai, bisogna anche trovare le persone che poi riescono a capire…».
- Sì, sì. Però sotto il palco c’eri tu e non altri quando il Visenta disse “Stasera facciamo i conti e qualcuno va a casa”. Non tutti i colleghi si precipitano sotto il palco, a fine tappa. Qualcuno magari se la prende comoda e lo trovi in sala stampa a giocare a carte...
«Anche perché allora si poteva! Adesso non potresti più. Allora si poteva». [sorride, nda]
- Adesso anche uno come Gianni Mura al Tour guarda la corsa al maxi-schermo in sala stampa in attesa dell’arrivo. Una volta, con corridori, direttori sportivi, meccanici, massaggiatori, vivevi a stretto contatto. Altro che motorhome coi vetri oscurati...
«Quando Pantani ha vinto a Montecampione, gli abbiamo preso la bicicletta e lo abbiamo accompagnato dentro. Adesso, cazzo…».
- Hai citato Martini e allora non posso non chiederti dei mondiali. In nazionale come faceva uno come Visentini a stare in ritiro con gente con cui per tutto l’anno proprio non si prendeva? Perché comunque Martini era – in senso buono – anche un bravo “politico”?
«E anche perché poi Visentini aveva delle qualità. Aveva delle qualità…».
- Però, sai, a proposito di troppi galli nel pollaio, in quelle nazionali lì…
«In nazionale non ha mai fatto granché, si è sempre ritirato. Ha fatto quattro mondiali, ma non ha mai fatto…» [sempre ritirato: Nürburgring ’78, Sallanches ’80, Altenrhein ’83 e Colorado Springs 86, nda].
- E quindi, tu che la sera di Sappada li hai sentiti nelle rispettive camere, credi più al Visenta che a Roche, tutta la vita?
«Tutta la vita. E ho anche la registrazione di quello che [Roche] disse su Boifava».
- Allora non è vero che Roche e Boifava sono così amici? Boifava dice che con lui è rimasto amico…
«“Amico” perché lavorano insieme. Perché commercializzano, fanno business».
- Che tipo di business?
«Eh, le conoscenze che ha Roche… Guarda che Boifava esporta…».
- Sai che ho visto tante bici Carrera a Dublino?
«È un caso? [sorride, ma in realtà si tratta di un marchio, quasi omonimo, concorrente alla Carrera-Podium di Boifagva, nda] Roche viene qua, ogni due-tre mesi è qua, alla Carrera… Fa tutt’altro lavoro, ma…».
- E quindi potrei beccarlo più facilmente qua, invece di inseguirlo in giro per il mondo?
«Se tu sei amico di Boifava, secondo me te lo fa incontrare. Vuoi che lo chiami?».
- Se sei in confidenza, sì. Magrini l’ha chiamato ma da Boifava lui non vuole venire…
«Come quasi tutti gli ex corridori. Non so perché…».
Me l’hai spiegato, il perché.
CHRISTIAN GIORDANO
NOTA:
(*) Liévin-Wasquehal, cronometro individuale di 52 km, sesta tappa al Tour ’88: Roberto Visentini fu secondo a 14” dall’inglese Sean Yates, che chiuse in 1h03’22” e quindi alla media-record (per le crono al Tour) di 49,24 km/h. A Wasquehal, città nel nord della Francia, vicino Lille, Yates aveva condiviso l’appartamento con Paul Sherwen. Quel giorno, quindi, corse sulle strade che per lui erano state di casa. Il limite precedente, il 49,1 km/h di Eddy Merckx a Merlin-Plage ’75, arrivò però su un tracciato di soli 16 km. Il primato di Yates resistette fino al 2001, 18ªtappa, da Montlucon a Saint-Amand-Montrond di ben 61 km: vinse, a 49,282 di media, Lance Armstrong. Un passaggio di consegne: di Yates era stato compagno alla Motorola (1992-1996) e non stupisce che Armstrong lo abbia poi voluto in ammiraglia alla Discovery (2005) e all’Astana (2009). A Yeats resta comunque il platonico titolo di cronoman più veloce al Tour prima dell’avvento delle appendici aerodinamiche da triathlon.
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