A HARROGATE SI FA LA STORIA O SI MUORE
di Simone Basso, venerdì 27 settembre 2019
Arcobaleno UCI in quel di Harrogate, questa settimana, sperando (per gli atleti) che spiova un po’ il sabato e la domenica: cioè quando conta (sul serio).
Una prova iridata più attesa del solito, per la congiunzione astrale di avvenimenti che la rendono ancora più affascinante e imprevedibile; quasi epocale se le premesse – di uno scontro fra mammasantissima – si realizzassero al cento per cento.
Siamo ancora qui, dopo decenni, a celebrare una festa perversa, abbastanza scema, considerando il ciclismo vero, leggendario, delle classiche e dei Grandi Giri.
Bizzarro che si assegni la maglia, fotogenica, originale, con quel titolo (di campione del mondo...), mediante una kermesse che simula – in una sorta di sagra di paese – uno sport professionistico che crea e vive – più di tutti – di monumenti e simulacri.
Consapevoli, in fondo, che un criterium di qualsiasi tipo non possa rivaleggiare con la superiorità, estetica e agonistica, di aleph quali la foresta di Arenberg, il Koppenberg, il Colle dell’Izoard (dalla parte della Casse Déserte) o il passo Fedaia salendo da Malga Ciapela.
E che le nazionali, richiamo per allodole dell’agognato pubblico generalista, sono un lusso e una contraddizione in un’attività professionistica che rincorre – sempre e solo – i dindi.
Philippe Gilbert e Julian Alaphilippe guidano il gruppetto dei big all’ultima Milano-Sanremo (che vincerà il francese). A ruota, tra gli altri, Peter Sagan e Matteo Trentin.
E’ comunque uno spasso, un arricchimento nella lettura dell’evento, osservare le dinamiche incrociate: gli amici del club di appartenenza sono tali anche quel pomeriggio, perché lo ridiventano il giorno dopo, al contrario dei connazionali, a volte nemici (...) tutto l’anno.
Sabadì scorso, Primus Classic, corsetta fiamminga di avvicinamento al Mondiale.
A quarantacinque chilometri dal traguardo, verso il Moskensstraat, la polaroid del momento: Mathieu van der Poel chiede a uno dei suoi di accelerare, all’abbrivio del muro in pavé, e sulla ruota del nipotino di Pou Pou si materializzano Greg Van Avermaet e Peter Sagan.
Il numero incredibile di Mathieu van der Poel, sullo strappo di Kendal,
nella quarta tappa del Tour of Britain.
Il ciclocrossista (...) apre il gas, sull’acciottolato, con un’accelerazione brutale: l’olimpionico di Rio 2016 rimane attaccato coi denti, a fatica, lo slovacco tre volte iridato no, molla la presa (rassegnato?).
L’olandese poi si rialza e la gara tornerà al suo tran tran con una volata finale (vinta da Edward Theuns), per l’entusiasmo del pubblico assetato: lo sponsor della manifestazione (un birrificio) aveva promesso mille birre gratis, in caso di successo casalingo.
Julian Alaphilippe, Peter Sagan e Mathieu van der Poel. I tre fari della contesa si incontrano al termine di stagioni diversissime tra loro.
MVdP, che scritto così pare un cyborg programmato per le due ruote, ci arriva da matricola prodigio, con un mondiale (di ciclocross, a febbraio) e un europeo (di mountain bike, a luglio) in saccoccia.
Ad aprile, il noviziato con i chilometraggi monstre delle classiche – su strada – gli hanno fatto appena il solletico: prima dell’Amstel Gold Race, sbranata con una rincorsa spaventosa, ha smarrito la Ronde di Alberto Bettiol solo per una caduta (banale).
Trattasi dell’esordio mondiale più chiaccherato dell’èra moderna: il biondo, che minaccia di essere il terzo Rik Van (dopo Van Steenbergen e Van Looy), anche se si chiama Mathieu, ama correre di forza e di istinto, da isolato.
Un lusso che non potrà permettersi nel ciclismo dei ras; verificheremo allora come lo supporteranno (o sopporteranno) i suoi: Sebastian Langeveld, Niki Terpstra (!), Mike Theunissen. Non è scontato che si mettano al servizio, al cento per cento, del ventiquattrenne fenomeno della (piccola) Corendon Circus.
Ala e Peto, lo yin e lo yang di un 2019 rivoluzionario. Il francese, trionfando in Inghilterra, metterebbe la ciliegina sulla torta a otto mesi da reuccio. L’uomo di Zilina invece, col quarto arcobaleno, un primato assoluto, darebbe un senso differente a un’annata mediocre per il suo standard, regale.
Gli altri?
Il Belgio, uno squadrone, è la chiave tattica della rumba: rimane da capire se si metteranno d’accordo. Il maestro venerabile Philippe Gilbert e Greg Van Avermaet, entrambi vincenti a settembre (Phil in Spagna, GVA a Montreal), dai tempi della coabitazione nella BMC si tollerano poco (...). La terza punta del combo, Tim Wellens, avrebbe i galloni di capitano in quasi tutte le altre formazioni.
Al marasma aggiungiamo la vernice del bimbo prodigio Remco Evenepoel, diciannove anni, che a Innsbruck 2018, mica un lustro fa, aveva stradominato nella categoria juniores: il pupillo di Patrick Lefevere – si dice – porterà le borracce ai vecchi (...). Il buon Rik Verbrugghe dovrà immedesimarsi in Klemens von Metternich, più che in un cittì.
I 284,5 chilometri nello Yorkshire sono complicati dall’approccio al circuito, dopo la partenza da Leeds, che vanta una sequenza di salitelle – Cray, Buttertube e Grinton Moor soprattutto – che potrebbero agitare (o spaccare in due) la corrida, prima del gran finale; che è un “mangia e bevi” continuo, snervante, semi-cittadino, di 14 chilometri da ripetere sette volte: una specie di Amstel Gold Race, dicono.
Il disegno, a seconda della garra e del meteo (la pioggia forte – prevista, ahiloro – ci riporterebbe indietro almeno a Oslo ’93...), consente un ampio raggio di soluzioni.
Un certo andamento, tattico e monodico, chiama i cosiddetti velocisti resistenti.
Per esempio, Michael Matthews e Alexander Kristoff, col norvegese che – in quanto a caratteristiche tecniche, un carro armato da lunghe distanze – sembra l’outsider più pericoloso.
Degli sprinter tosti, Sam Bennett (che vince da gennaio...) avrebbe la storia più curiosa: l’irlandese, coéquipier di Sagan, sta trattando su due fronti per un contratto, nuovo, molto più ricco del precedente. Chissà che, senza prebende preventive, Bennett combini uno scherzaccio al boss della Bora-Hansgrohe.
Il John Degenkolb pre-infortunio sarebbe là, a giocarsela coi Van der Poel e i Sagan; così, i tedeschi propongono la (strana) coppia Pascal Ackermann, ruota velocissima, e Nils Politt (rouleur da battaglia).
La nuova superpotenza slovena, malgrado Primož Roglič e Tadej Pogačar lavorerà per Matej Mohorič che – prima o poi – si aggiudicherà qualcosa di (molto) importante.
E se nello Yorkshire, magari nel diluvio, la selezione sarà impietosa, l’Alexey Lutsenko ammirato in Italia recentemente, a Peccioli (Coppa Sabatini) e a Cesenatico (Memorial Pantani), diventerà il pericolo pubblico numero uno.
I Brit padroni di casa, Adam Yates, Geraint Thomas, Tao Geoghegan Hart, al pari degli italiani (Matteo Trentin, centravanti di manovra), non avendo un classicomane per il corpo a corpo con quelli là, i fenomeni, faranno casino.
A proposito, il campeón uscente, l’eterno Alejandro Valverde, ci sarà: ieratico e opportunista.
Dall’Imbatido, classe 1980, a Marc Hirschi, un ’98, copriamo quasi tre generazioni di sfregaselle.
Nello Yorkshire, davanti a una folla che testimonia il boom del ciclismo britannico, nessuna riserva indiana – desolante – come alla (triste) Vuelta, accadrà qualcosa di storico. Oppure, nella tradizione bislacca della kermesse, la montagna potrebbe partorire un topo, un corridorino qualunque.
In principio era il Gran Premio Wolber, dal 1922, un mondiale ufficioso; quindi l’UCI – dal 1927, preceduto temporalmente (sei anni prima) dalla rassegna dei dilettanti – si decise a istituirlo con questa formula.
Itinerante e kitsch, agostano o nella prima settimana di settembre (post-Tour) fino al 1994 (Agrigento).
La carnevalata, al netto degli Alfredo Binda e Georges Ronsse, venne salvata nella forma (che è sostanza) il 30 agosto 1953.
Quando, per il sollievo di Achille Joinard (un personaggio complesso da descrivere...) e soprattutto di Adriano Rodoni, a Lugano, Fausto Coppi vestì l’iride.
Fausto Coppi, a Lugano, il 30 agosto 1953, compie il giro d’onore con la maglia iridata:
è l’apice assoluto, popolare, del ciclismo in Italia.
Il Campionissimo, vincendo su Germain Derycke, che sulla Crespera si staccò mostrando senso del dovere (...), fece un piacere più al Mondiale che a se stesso e alla Bianchi. Perché, senza il suo nome, l’albo d’oro non parrebbe credibile.
La vigilia dei pro', l’empireo femminile: un universo parallelo, con tante coincidenze (e rivalità) che rimandano ai maschietti.
Tra le donne, il manifesto – stile kolossal degli anni Cinquanta – è Marianne contro tutte.
Vos, alla sua migliore stagione post-2014, ovvero dopo il quadriennio alla Eddy Merckx, pare disegnata per il percorso: capita ancora sovente, nel caso della fuoriclasse neerlandese.
Per il poker iridato, col gruppo delle migliori che la seguiranno come la Madonna pellegrina in processione, ci sarà bisogno dell’Arancia Meccanica della bici.
In teoria, l’armata arancione è imbattibile; nella pratica, vedremo se campionesse del lignaggio di Anna van der Breggen (oro, dodici mesi fa in Austria) e Annemiek van Vleuten (entrambe sul podio nella crono dominata dalla 22enne statunitense Chloé Dygert, ndr) si adegueranno al ruolo: gregariato obbediente o anarchia?
Marianne Vos si aggiudica La Course del Tour, a Pau, con una fucilata ai 400 metri.
La concorrenza, dispersa.
Sperano nel caos olandese le italiane, Marta Bastianelli, una delle poche che possa (sperare di) competere con Vos, e un bel combo di veterane (Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini...) e di giovanissime (Letizia Paternoster, Elisa Balsamo...) pronte all’evenienza.
Il resto del fronte anti-Vos si divide in due fazioni: le sprinter, che si attaccheranno alla litorina delle tulipane (Coryn Rivera, Arlenis Sierra), e le assaltatrici (Amanda Spratt, Lizzie Deignan, Kasia Neiwiadoma, Chloé Dygert...).
I tempi delle dispute tra poche stelline, in un contesto tecnico così così, sono lontanissimi.
Speriamo che l’ambiente, un po’ fessacchiotto, dai federali ai giornalisti, si accorga del potenziale (di spettacolo e bellezza) che il ciclismo rosa serba.
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