IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Il Tour, in attesa di diventare Crono



Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

I Giri-bonsai ideati da Vincenzo Torriani non furono solo una scelta dettata dalla convenienza tecnica, bensì un tentativo (riuscito) di traghettare il ciclismo italiano oltre la precarietà economica di quegli anni. 

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Dal 1982, fatta eccezione per l’anno seguente, fino al 1994 i vincitori della Grande Boucle corsero a maggio (e giugno) nel Bel paese. Successe con gli allievi di Cyrille Guimard (Bernard Hinault, Laurent Fignon e Greg LeMond), quelli di José Miguel Echavarri (Pedro Delgado e Miguel Indurain) e con lo Stephen Roche del 1987. 

Il Tour intanto aveva cominciato una crescita esponenziale: storicamente, la manifestazione ideata da Henri Desgrange incarnò l’ideale estetico di questo sport, insegnando alle masse la carne e l’anima della disciplina. 

Se l’esplosione si verificò nel bel mezzo del decennio successivo, la rincorsa avvenne già dal 1975, anno importantissimo anche al di fuori delle vicende agonistiche. 

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Da quel momento l’ascesa fu impressionante, quasi quanto la consistenza della carovana pubblicitaria, che crebbe a dismisura; il segnale di una vitalità che portò la Festa di luglioa una popolarità planetaria mai avuta prima. 

Lévitan, figura centrale di questa evoluzione, fu personaggio bipolare: per molti primo vero impresario del settore, esploratore coraggioso di una frontiera idealizzata e dittatore illuminato; per altri, uomo d’affari spericolato e plenipotenziario dal cattivo gusto. 

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L’appartamento al mare regalato alla maglia gialla finale, cortesia di uno sponsor (Merlin), fu uno degli emblemi della mentalità che instaurò. 

L’altro mantra fu la mondializzazione – a ogni costo – dell’evento.

Rendendosi conto del potenziale commerciale del Tour, favorì l’ingresso dei corridori extraeuropei: fece vestire a stelle e strisce Jonathan Boyer, che campione nazionale non era, per promuovere ed evidenziare la partecipazione di uno statunitense nella corsa. 

Da capitano coraggioso, ennesima espressione delle capacità imprenditoriali ebraiche, vide le opportunità favorevoli in anticipo. 

La sua visione si materializzò con l’arrivo di Phil Anderson e di Greg LeMond, entrambi apripista di un Nuovo Mondo che oggi, per il ciclismo internazionale, è consuetudine.

Altro passo, nel 1983, fu la formula openche sdoganò i colombiani: futuro elemento fondamentale (agonistico e folclorico) di quel memento. 

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Come i vini della Borgogna o della Gironda, potremmo menzionare gli anni più memorabili: 1981, 1983, 1984, 1986 eccetera. 

Quei Tour de France furono gli ultimi che promossero l’ideale prometeico che si annidava nella Grande Boucledelle origini. Fecero bene a tutto il ciclismo, (ri)costruendone obbiettivi e slanci. 

Lévitan terminò la propria avventura da direttore nella maniera più inaspettata: il Tour of America, più volte sognato, e realizzato nel 1983, produsse un enorme salasso economico. 

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L’epilogo di quel modo di intendere il ciclismo fu nel 1989, con un tracciato durissimo e tutti gli attori principali della generazione-Lévitan; ma il Tour aveva già svoltato con un nuovo patron, Jean-Marie Leblanc, e imboccò la strada opposta. 

La globalizzazione del Tour, che ne fece un blockbuster hollywoodiano al pari del mondiale di calcio o di Wimbledon, ne esaltò al massimo l’egemonia sul resto del ciclismo. 

Dagli anni Novanta, infatti, fu reciso il cordone ombelicale che lo legava alle altre corse: assunse le sembianze di Crono, il dio spietato che divora i propri figli. 

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La famosa lotta al d****g, negli anni Zero, è stata soprattutto una ghiotta opportunità per mettere le mani sul tesoro scoperto da Henri Desgrange: uno come Lévitan i mercanti mai li avrebbe ammessi al tempio. 

Dal 2008, con Christian Prudhomme sulla tolda di comando, si è ricominciato (faticosamente) a pensare ciclismo.


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