IN FUGA DAGLI SCERIFFI - La diaspora e lo Sceriffo



Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

BiciItalia rinculò già a inizio anni Settanta, anche per i già indicati problemi economici, e sul finire del decennio il Tour divenne una prospettiva spettrale. 

Accadde lo stesso fenomeno anche per le grandi classiche franco-belghe: con l’eccezione di Moser, Marco Polo del pavé e dei muri, ogni (rara) vittoria diede l’idea di un fatto sporadico, quasi casuale. 

Fino all’arrivo di Moreno Argentin nel 1985, anche le Ardenne (territorio perfetto per lo chassis italico) furono una chimera: oltre le imprese moseriane, si contarono solo quattro successi in più di due lustri. 

La bella vittoria di Saronni alla Freccia Vallone 1980 e l’incredibile sequenza Beccia-Contini nel weekend ardennese 1982 sembrarono eventi eccezionali, miracolosi. 

(...)

Dal panorama italiano sparirono progressivamente le salite per accomodare meglio la sceneggiatura; con l’invecchiamento del duopolio si contribuì tenacemente a serrare le fila del plotone. 

Lo Sceriffo Moser inflisse il rigor mortis a molti sfortunati scavezzacolli: nei dì meno indicati, alterare la velocità di crociera della gara significò il pollice giù dell’imperatore Commodo e le urla di condanna dei suoi gladiatori. 

Considerando che anche il vicesceriffo, il Beppe, era sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda, i ritmi addomesticati divennero fatalmente un’esigenza dell’avanspettacolo. 

(...)

La Confraternita della Spinta non operò solo in ambito regionale, ricordiamo un cadeau suggestivo sull’Izoard nel 1975, e certi atteggiamenti livorosi alcune volte andarono oltre il consentito. 

Le ombrellate a Baronchelli al Giro 1977, per fortuna isolate, si trasformarono negli insulti e negli sputi verso il rivale di turno: il bersaglio preferito di certo tifosame fu Roberto Visentini, oltre la santità per la capacità di sopportare le angherie di quei vigliacchi da marciapiede. 

Giro 1981, sul Terminillo la maglia rosa Saronni, staccata da Baronchelli e Battaglin, fu affiancata da un pimpante Leonardo Natale. Franco Magni, lo sponsor al seguito sull’ammiraglia, incitò il Leo a lasciare al proprio destino il leader della corsa; alla prima accelerazione il Saronni, sbavando, intimò l’alt all’azione. Il Natale acconsentì e, di fronte al suo sbigottito mecenate, per favorirlo fece un’andatura più regolare: l’anno dopo avrebbe corso per il futuro campione del mondo. E la Magniflex, dopo dimostrazioni di questo tipo, alla fine dell’anno chiuse i battenti. 

Due anni dopo fu il solito Visentini, voce scomoda, a denunciare la situazione. 

Con il Saronni alle corde, si ritrovò in fuga attorniato da colleghi che non tirarono un metro, nonostante la prospettiva di potersi aggiudicare il cosiddetto tappone. Per qualche chilometro, in quel drappello, ci fu Dietrich Thurau; fuoriclasse caduto in disgrazia, riciclatosi come luogotenente del campione di Parabiago: lui, almeno, ufficialmente. 

Mai firma fu così provvidenziale per il clan di Colnago: il bel Didì dimostrò di essere fortissimo e, mercenario come pochi, preferì i marchi all’idea (concreta) di vincere la corsa rosa. 

(...)

Si smise di competere sul serio per una scelta monetaria, il carrozzone permise comunque a tutti una sopravvivenza allegra e i due nomi principali del cartellone furono omaggiati con ogni mezzo. 

Il Giro d’Italia estremizzò il concetto buttandola sulla farsa: i trenta secondi assegnati al vincitore di tappa, in uno scenario scevro di grandi difficoltà altimetriche, sigillarono la contesa in trasferimenti agonistici senza senso. 

(...)

Si tentò il bis per festeggiare il Moser messicano, e fresco trionfatore alla Sanremo, ma non lo spiegarono a Cyrille Guimard e a Laurent Fignon. 

Dopo l’epilogo di Verona si finì in barzelletta, sviscerando di elicotteri, ma si abolì una discussione seria su ciò che accadde: spinte, scie motoristiche, tre quarti di gruppo a sostenere lo Sceriffoe l’abolizione dello Stelvio. 

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Per una sorta di compensazione divina il Visenta vinse il Giro 1986, stravolto da una tappa (quella del San Marco) che dopo anni di sottovuoto spinto affrontò pendenze e chilometraggi d’alto livello. 

Gli anni successivi avrebbero reintrodotto le montagne nella corsa della Gazzetta e fecero capire la desuetudine del nostro movimento a un ciclismo più spartano.

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La simbolica fine di un’epoca si potrebbe rintracciarla, con tanto di Carbonio 14, al Giro dell’Appennino 1986, l’8 giugno: una data rilevante quanto innocente, come lo sprint di Gianni Bugno pivello che infilzò, a sorpresa, lo Sceriffo Moser. 

L’egoarca, che sbagliò clamorosamente tempi e rapporto della volata, ringhiò al solito contro il ribelle senza causa che, nel proprio autistico candore, rimase indifferente alle rimostranze del vecchio capotribù: la carta d’identità, al contrario dei percorsi, non inganna mai.


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