IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Jeff!
Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 176 pagineConsiderando il nulla cosmico degli anni Zero, fa impressione ripensare alla vitalità del movimento francese negli Ottanta: un Cabaret Voltaire di talenti, soprattutto per le corse a tappe, addirittura bulimico.
Appena dietro ai sette Tour in totale del duo Bernard Hinault-Laurent Fignon, addirittura un po’ davanti a Charly Mottet, s’impose la figura volatile, sfuggente, di Jean-François Bernard. Pound per pound il vincitore di un premio immaginario e poco ambito, il Romeo Venturelli d’Oro, in quanto più imprevedibile (?) delusione del decennio.
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Furono forse le troppe attese, la sfortuna o l’eccessiva pressione ma arrivò nei professionisti già annunciato come il prossimo fenomeno: a illustrare l’arsenale a disposizione, il modo con il quale vinse il titolo nazionale nei dilettanti. Scattò alla partenza, con il sottofondo dei risolini degli avversari, e lo rividero al traguardo con il mazzo di fiori in mano.
Terminato il blocco olimpico, a stroncare l’asta per assicurarsene nei pro’ i servigi fu Jeff in persona: scelse, senza esitazioni, la maglietta a quadratini multicolori de La Vie Claire, attratto dalla prospettiva di correre con Bernard Hinault.
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Le contraddizioni interne esplosero fragorose al Tour 1986, che visse sulla faida Hinault/LeMond. La Vie Claire si spezzò in due fazioni opposte: i francesi con il Tasso, gli stranieri dalla parte dell’americano.
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Jean-François, in quella baraonda, divenne il delfino del Tasso: in libera uscita per un giorno, si rese protagonista di una fuga solitaria vincente nella Nîmes-Gap, il pomeriggio che il nababbo Tapie (per viziarlo) gli regalò come premio-extra una Porsche.
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Guascone, imprevedibile, il fumo negli occhi di colleghi invidiosi della sua popolarità e del suo conto in banca: e a sovraccaricare di attese il contesto, giunse anche l’investitura di Hinault.
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Lo splendido Tour 1987, a posteriori la Porta della Finestrella – la dea Fortuna – nella carriera di Jeff, ebbe un prologo importante alla Parigi-Nizza dello stesso anno.
Durante la quarta tappa, da Miramas al Mont Faron, con il permesso del gruppo, evase per un’apparentemente innocua visita-parenti. Visto il vantaggio accumulato, disobbedendo al diesse Paul Köchli e al galateo, proseguì nello sforzo solitario. Trasformò la frazione in cronometro individuale e all’arrivo, oltre alla vittoria, conquistò la maglia bianca del primato. L’azione, tecnicamente esaltante, fu considerata gravissima dai mammasantissimadel plotone che, il dì dopo, per punirlo, partirono a spron battuto. Jean-François, isolatissimo, gettò la spugna e la gara tornò a essere una questione della triade Kelly-Fignon-Roche.
Le stesse dinamiche di quella Corsa del Sole, e quelle del Tour dell’anno prima, privarono Bernard del trionfo nella Fête de juillet ’87.
Una Grande Boucle selvaggia, che sembrò sua il pomeriggio della favolosa cronoscalata del Ventoux. Sulla cima del monte battezzato nel 1336 dal Petrarca, realizzò uno dei massimi capolavori dell’èra moderna del ciclismo. Partì con la specialissima per le prove contro il tempo, e allo Chalet Reynard, ai meno sei dalla vetta, inforcò un mezzo più performante per il tratto più ripido: li bastonò tutti, senza pietà alcuna (Herrera a 1’39”, Delgado a 1’51”, Roche a 2’19”, Mottet a 3’58”) e il giallo che indossò parve il primo di una lunga sequenza dinastica.
Ma non fece i conti con gli umori degli avversari, che al primo pasto alpino di quel Tour pantagruelico si coalizzarono contro il reuccio. La Système U di Mottet e Fignon, Roche con gli stessi compari di Sappada al Giro, Delgado e los amigos.
Lo sorpresero una prima volta all’inizio della 19ª frazione, da Valréas a Villard-de-Lans, ma riuscì a ritornare sotto; poi una foratura, degna del Nencini assaltato da Magni e da Coppi nel Giro 1955, scatenò il finimondo: Jeff, oltre ai pochi amici nel gruppetto inseguitore, scontò la nemesi del Tour precedente.
Steve Bauer, indifferente alla logica di squadra, rimase per qualche chilometro con i fuggitivi: solo l’intervento dell’ammiraglia lo convinse ad aspettare la maglia gialla.
Due giorni più tardi la scena-madre delle incomprensioni nella Toshiba: nel fondovalle, dopo la discesa de La Madeleine, Bernard s’isolò dal resto dei favoriti e insistette nella fuga. Il diesse elvetico l’incoraggiò, non capendo che gli inseguitori mai lo avrebbero lasciato andare. All’inizio dell’erta finale di La Plagne, Jeff andò in crisi e fu passato in tromba dai rivali in classifica: all’arrivo, a oltre due primi dai duellanti Delgado-Roche, nessuno comprese che quell’azzardo gli sarebbe costato la vittoria finale.
Infatti, passate le omeriche fatiche alpine, l’ultima crono – a Digione – vide il francese dominare la contesa: il paio di minuti che a Parigi lo separò da Roche fu di fatto regalato in quella tappa maledetta.
Il 1988, l’anno della sua presunta consacrazione, partì dunque con l’epurazione di Köchli (grande preparatore, pessimo stratega) e l’assunzione di Yves Hezard, il tecnico che lo aveva lanciato nei puri.
Al Giro incappò nel Gavia e nell’incidente che ne avrebbe fermata la parabola ascendente. Stravolto dal gelo e dalla neve di quel giorno da cani, confessò al traguardo di aver meditato il ritiro (dallo sport professionistico). La variabile impazzita di Bormio mandò gambe all’aria una corsa rosa decisamente nel suo oroscopo.
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Il Tour fu un disastro che annunciò una crisi nerissima: la sfiducia del suo patron Tapie («Bernard costa caro, troppo caro»), le critiche della stampa e un ginocchio malconcio che nascose anche al proprio entourage.
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Si ritagliò una parte importante, come luogotenente di lusso, nella Banesto dell’imperatore Miguel Indurain: visse così, per interposta persona, le vittorie nei grandi giri che sembravano nel suo destino.
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