IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Moser e Saronni
Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
«Al Giro era tutto preparato per Moser o Saronni: non c’erano avversari, non c’erano salite, dopo due tappe ti accorgevi che mezzo gruppo era comprato.»
– Pierino Gavazzi, La Stampa, 25 settembre 2008
Se dovessimo cominciare l’anabasi con un riferimento cinematografico, Blow Up di Michelangelo Antonioni catturerebbe il senso delle cose.
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Noi, eternamente fedeli al principe Machiavelli, costruimmo un movimento basato sulla corsa controllata e la capacità diabolica del campione di soggiogarla: primo vera personificazione dell’assioma, il Campionissimo Costante Girardengo. Fu così che la scena italiana ebbe sempre bisogno di un’oligarchia, per giustificare la propria grandezza e per meglio venderla ai media e al pubblico.
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L’ambiente nel quale esordì Francesco Moser non fu diverso.
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Per l’Italia a pedali la prospettiva autarchica si intravvide già nel 1973, la prima (sfortunatissima) stagione del futuro patriarca: il Cecco nacque, per l’opinione pubblica e la carta stampata, l’anno dopo.
Verso Roubaix, il 7 aprile 1974, arrivò da matricola a una caduta e una foratura da un clamoroso successo: quel pomeriggio Roger De Vlaeminck, il vincitore che lo precedette al traguardo, nel dopocorsa lo benedisse con un paragone ingombrante, che seppe di successione gerarchica. Disse che Moser sarebbe diventato grande come Gimondi.
Figlio di una terra di contadini, la Val di Cembra, divenne quasi per caso il prescelto di una stirpe di grandi pedalatori: arrivò al professionismo dopo le esperienze dei fratelli Aldo (promessa mancata, ma con un GP delle Nazioni nel palmarès), Diego ed Enzo.
Trentino in ogni cosa, ma ciclisticamente toscano: in lui, cresciuto nel Bottegone con il Vannucci come eterno pigmalione, si riverberarono le caratteristiche di quella scuola.
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E il mercato italiano, per diventare il reuccio assoluto, necessitò di una cura particolare: Franz l’agitprop si ritrovò contro le truppe della Restaurazione.
L’esempio più classico fu la corsa rosa 1976, vinta proprio dall’antico despota bergamasco. Moser corse da isolato o quasi e quando Gimondi cadde a Primolano (un coppiano déjà-vu per le maglie biancocelesti della Bianchi), il gruppo si fermò ad aspettarlo.
L’epilogo di quel Giro fu corrosivo al pari di una commedia di Dino Risi: il belga Johan De Muynck vestiva un rosa provvisorio per volere popolare. Il giorno della crono decisiva, l’ammiraglia con il suo diesse, Franco Cribiori, fu bloccata alla partenza «dalla troppa folla» e lo sfortunato Johan dovette abdicare per soli diciannove secondi.
D’altronde, nove anni prima, verso l’Aprica, la Santa Alleanza contro lo straniero permise la mossa decisiva a Felice: quella volta il malcapitato fu il grande Jacques Anquetil. Anche per una questione anagrafica però, l’èra-Gimondi stava esaurendosi con l’arrivo di una generazione capeggiata dal trentino: gli anni Ottanta, quelli di Cecco e Beppe, cominciarono realmente nel 1977.
A San Cristóbal le simbologie di una nuova epopea si concretizzarono tutte: l’iride di Moser contro l’emergentissimo Dietrich Thurau e Franco Bitossi, Bernard Hinault (ottavo) e Saronni (nono) alla prima recita iridata e Merckx malinconicamente ultimo. Fu un altro Settantasette, magari meno punk ma altrettanto dadaista.
Malgrado qualche sanguinosa ricaduta (il controverso Giro 1978), rimase da soddisfare un requisito per dipingere un panorama completamente nuovo: un rivale certo, fotogenico, da contrapporre al mammasantissima giovane e già pluridecorato.
Provarono con Tista Baronchelli, ma l’esperimento riuscì solo a privare i due rivali (?) di un Giro a testa; poi, all’improvviso, sulla scena irruppe Saronni.
Anch’egli di famiglia ciclistica, il lombardo colmò il vuoto alla perfezione: simile al Moser tecnicamente, ma mostruosamente diverso dal punto di vista attitudinale.
Tatticamente opportunista, guardingo, negli sprint in salita vantò per anni un’imbattibilità – per la concorrenza – quasi imbarazzante.
Se l’avversario si sviluppò fuori dei patri confini, il Beppe accumulò il suo tesoro nelle competizioni dello Stivale.
Il Giro 1979, costruito sui garretti del capitano della Sanson, quindi adatto anche al bambino della Scic, diede il via ufficiale alla diarchia; che crebbe l’anno prima, come un fenomeno carsico: i percorsi tricolori, sempre più adatti allo stereotipo del passista veloce e dotato di gran fondo, produssero una selezione naturale della specie.
Da quella data, l’intero ciclismo italiano si adattò all’evenienza e, per almeno un settennato, non ci furono altre attenzioni che per Francesco e Beppe.
Gli altri, magari bravissimi, dovettero accontentarsi delle briciole sfuggite al dinamico duo, ma innanzi tutto sparirono dalla considerazione della stampa e, quindi, popolare.
Moser, guerriero indomabile sul pavé e negli eventi più sconci, completò la sua epica realizzando alla Parigi-Roubaix una tripletta leggendaria.
In antitesi, Saronni non amò mai molto il confronto internazionale: incredibile la sua abiura della Liegi-Bastogne-Liegi, una classica che sembrava nel suo dna di predatore e invece sempre corsa distrattamente, senza il cuore necessario.
I due si affrontarono così lungo il calendario casalingo, abusando delle attenzioni (quasi morbose) dei media: la rivalità, in alcuni frangenti, scese a livelli pallonari; comprendendo nel carnet anche gli insulti a mezzo stampa e i dispetti sulla strada.
Beppe soffrì più di Francesco la situazione, dovendo fronteggiare un “nemico” che capì benissimo (molto prima dei rivali) l’importanza di microfoni, taccuini e telecamere: Moser, oltre che un fenomenale campione, fu un mattatore sul proscenio del villaggio globale.
Per un biennio si pensò che Saronni l’avesse prepensionato, invecchiato di colpo (non solo anagraficamente) dagli exploit saronniani che caratterizzarono la fine del 1982 e l’inizio dell’83.
Invece, schiodando i chiodi dalla bara, l’antico iridato venezuelano sciorinò un’ultima parte di carriera... andreottiana: il potere conconiano logorò il resto dell’Italia ciclistica, trafitta dalle performance del fuoriclasse trentatreenne. Fu sempre così, per l’intramontabile Moser, dato per defunto agonisticamente più volte (1973, 1980, 1983) e poi ricomparso come un novello Faust.
Il Saronni ebbe un tracollo quasi somatizzandolo, figlio anche dell’attività snervante in giovanissima età e di una mentalità provinciale: chissà se con ancora al fianco Carlo Chiappano, il tecnico della sua fase aurea (scomparso tragicamente in un incidente stradale un mese e mezzo prima di Goodwood), le cose sarebbero andate diversamente.
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Autoreclusi nelle certezze, certificate da un quarto potere cialtrone e compromesso, quel medioevo fece arretrare paurosamente la pedivella italiana: nascosta dietro le gigantografie, in cartone, dei due primattori, sclerotizzammo il vecchio archetipo fino alla pantomima. Divenne un’operetta, confezionata su misura per le doti dei due Mario Lanza: i tracciati sempre meno esigenti, la vis agonistica a comando dei ras del quartiere, la competizione manovrata per favorire il finale già scritto.
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