IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Gli Scapigliati: Baronchelli


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di SIMONE BASSO © 
IN FUGA DAGLI SCERIFFI © 
Rainbow Sports Books © 

Con quell’espressione un po’ così, con quella faccia un po’ così, Giovanbattista Baronchelli (che Adriano De Zan pronunciava come una poesia marinettiana) fu uno dei corridori-simbolo del moserismo. 

Per descriverlo la parola incompiuto rende perfettamente l’idea: un patrimonio, per il ciclismo tricolore, lasciato a macerare in un contesto che ne esaltò i difetti atavici. 

Primo rivale del re di Palù, fu proiettato in una dimensione che mai gli appartenne: lui, il lombardo, così timido e introverso, contrapposto al trentino, campione feroce e aggressivo. 

Finì malissimo per Tista e la contrapposizione tolse ai due, complessivamente, almeno un Giro d’Italia a testa. 

Il dilemma di Gibì furono i risultati, tonanti, ottenuti precocemente e nonostante un arsenale psicofisico ancora in divenire. Non gli fu consentito di crescere e maturare adeguatamente, cristallizzato nel ruolo di grande promessa. 

Una carriera costellata di opportunità mancate in serie, e da tante sfortune (fratture all’omero, alle clavicole, alle costole…): corse tantissimo, diciassette anni da professionista, vinse molto (92 gare) ma non colse mai quell’affermazione in un grande giro che all’esordio sembrò quasi scontata. 

Arrivò tra i grandi ancora bambino, reduce da un’accoppiata Giro baby-Tour de l’Avenir mai realizzata prima. Il problema forse fu quell’impatto clamoroso, deflagrante, con il circo dei pro’. 

L’esordio al Giro 1974, nemmeno ventunenne, alimentò nei suoi riguardi speranze messianiche. 

Una corsa appassionante, incerta fino all’ultimo, nella quale Baronchelli, al riparo dalla pressione del risultato a tutti i costi, si mosse benissimo. 

Lo fece in mezzo ai protagonisti di quel periodo, che alla loro recita applicarono scientemente il metodo-Stanislavskij: José Manuel Fuente fu imbattibile in montagna ma buttò alle ortiche la classifica nella tappa di Sanremo; Felice Gimondi corse con la regolarità e la classe del campione (stra)navigato e Merckx fece... Merckx, cioè vinse. 

Il giorno del giudizio universale fu il tappone delle Tre Cime di Lavaredo, che arrivò con una generale corta e Eddy, reduce da una bronchite primaverile, in rosa pallido. 

Con Chico Fuente (l’uomo che la sera fumava sigari Avana) che fece corsa a sé, Gibì staccò il Cannibale a tre chilometri dal traguardo: a cinquecento metri, il Giro sembrò di Baronchelli. 

Amarcord. Alcuni, per esempio Ernesto Colnago, fecero capire all’orco belga quanto sarebbe stato gradito da tutti il trionfo di uno sbarbatello italico ma Merckx fece finta di non capire. Sul tratto più duro recuperò quasi mezzo minuto all’uomo della Scic: salvò il Giro per dodici secondi, rimandando di poco, almeno così si disse all’epoca, il primo trionfo del futuro dominatore del ciclismo nostrano.

Sliding Doors, chissà come sarebbe proseguita la carriera del Tista con quella maledetta maglia rosa portata a Milano. 

Eppure, anche nell’enfasi del momento, qualcuno ne intravide l’amletico destino, come testimoniano le profetiche parole di Bruno Raschi il dì della passerella finale: «Ha compiuto il giro d’onore… Quasi incapace di guardare le tribune. Probabilmente non si rendeva ancora conto di quello che aveva fatto; della sua forza misteriosa e primitiva che aveva dato al Giro, un paio di volte almeno, effetti abbaglianti. Il suo limite più grave, imprevisto e incalcolato – ora si può scriverlo – è stata la discrezione».

Baronchelli fu Godot fino alle estreme conseguenze, “debilitato” da un carattere implosivo, troppo perbene; con quella voce tremolante, lo sguardo basso di chi non ha nel dna la prepotenza del campionismo.

Eterna crisalide a dispetto di un bagaglio fisico da campione vero, si specializzò in imprese belle e discontinue: come al Tour 1976 quando, verso il Monginevro, si rese protagonista di una fuga che lo vestì virtualmente di giallo. Poi, al solito, sul più bello, andò in crisi e affondò malinconicamente nelle retrovie. Con la Grande Boucle, come del resto con le classiche del Nord, ebbe un rapporto quasi inesistente, provinciale. 

I suoi limiti caratteriali si mescolarono con una sfortuna poulidoresca nell’anno di grazia 1977: arrivò al Giro dopo aver vinto il Romandia e lo perse dall’improbabile Michel Pollentier, improvvisatosi capitano della Flandria dopo la caduta (e il ritiro) dell’irresistibile Freddy Maertens. 

Il duello casalingo con Moser ebbe risvolti calcistici, con Gibì e i compagni della Scic malmenati (...) durante la Cortina-Pinzolo, la frazione che condannò alla sconfitta Moser. 

In molti considerarono propedeutica (sic) per la vittoria iridata di Cecco, l’arrotata di un’automobile venezuelana che lo costrinse a disertare il mondiale: un mese e mezzo dopo, al Lombardia, Baronchelli raccolse la sua vittoria più bella e importante. Staccò nel diluvio il nemico fasciato d’arcobaleno e s’involò solitario al traguardo. 

L’anno dopo si ripeté, ma a parti invertite, la soap opera del Giro: Moser fu isolato da uno sciagurato patto Bianchi-Scicche, pur penalizzando il trentino, invischiò Gibì in un gioco tattico che favorì il belga Johan De Muynck, miracolato gimondiano dell’ultima ora. 

E così passarono gli anni buoni, a rincorrere gli aquiloni. 

Alla Bianchi-Piaggio (1980), con Giancarlo Ferretti diesse, ebbe la stagione più continua e produttiva: si aggiudicò corse da aprile a ottobre. Nel giorno più esaltante, al mondiale di Sallanches, beccò la pagliuzza più corta nelle fattezze di Bernard Hinault. 

Su quel percorso spezzagambe fu l’ultimo ad arrendersi alla furia del francese: ennesimo segnale di un malocchio cosmico. 

Nel 1981, a Praga, completò il quadro: in fuga con Robert Millar (oggi Philippa York), fu rincorso dal povero Miro Panizza, che si giustificò con brutale sincerità: «Il Saronni mi aveva promesso, in caso di sua vittoria, venti milioni». 

Ultima fermata prima del viale del tramonto, il curioso abbinamento con l’ex (?) antagonista Moser nella Supermercati Brianzoli del giemme Gianluigi Stanga. 

Nel 1986 indossò la prima maglia rosa della carriera dopo il successo di Nicotera poi, nella tappa-chiave di Foppolo, non riuscì a limitare i danni contro gli scalpitanti Roberto Visentini e Greg LeMond. 

L’entourage della squadra ne accolse la sconfitta come una resa: volarono parole grosse all’indirizzo del bergamasco, che nella serata lasciò carovana e gruppo sportivo. 

Sarebbe ricomparso un mese dopo in divisa Del Tongo, ultimo sgarbo del clan-Saronni verso lo Sceriffo, in una rivalità ormai agli sgoccioli: la piccola vendetta si consumò al Giro di Lombardia, nel quale Gibì precedette con un magistrale contropiede due califfi quali Sean Kelly e Phil Anderson. 

Baronchelli, quello vero, finì la sua missione in quel pomeriggio di tiepido autunno: peccato che il ciclismo non fosse solo il Giro dell’Appennino, la classica ligure da lui dominata per sei anni consecutivi. 

Per il Tista la terribile Bocchetta fu sempre facile da scalare, molto più agevole di quella montagna invalicabile che si sentì nel cuore per tutta la carriera. «Io mi sento come la povera gente: debole. E quindi facile da maltrattare».
SIMONE BASSO


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